Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23459 del 20/09/2019

Cassazione civile sez. I, 20/09/2019, (ud. 28/06/2019, dep. 20/09/2019), n.23459

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23235/2018 proposto da:

O.A., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Angelico

38, presso lo studio dell’avvocato Roberto Maiorana che lo

rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appel o di Perugia del 14-5-2018;

udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal

cons. Dott. FRANCESCO TERRUSI.

Fatto

RILEVATO

che:

O.A., nigeriano, ricorre per cassazione, con cinque mezzi, nei confronti della sentenza con la quale la corte d’appello di Perugia ha respinto il suo gravame nel procedimento instaurato per il riconoscimento della protezione internazionale;

il ministero dell’interno non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

mediante cinque motivi il ricorrente denunzia nell’ordine: (i) la nullità della sentenza per motivazione solo apparente; (ii) l’omesso esame di fatti decisivi a proposito della condizione di pericolosità e di violenza generalizzata esistente in Nigeria; (iii) l’omesso esame delle dichiarazioni rese dinanzi alla commissione territoriale quanto alla propria condizione di vulnerabilità; (iv) la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e l’omesso esame delle fonti informative a proposito della domanda di protezione sussidiaria; (v) l’errata applicazione del t.u. imm., art. 5 a proposito del rigetto della domanda di protezione umanitaria;

il ricorso è fondato in relazione al secondo e al quarto mezzo, assorbenti ed esaminabili unitariamente per connessione;

dalla sentenza risulta che il richiedente aveva posto a fondamento della domanda non solo l’esistenza di una situazione di pericolosità discendente da un conflitto tra comunità tribali nel suo villaggio di origine, ma anche il fatto che (a) la situazione politica della Nigeria era caratterizzata da una situazione di conflitto armato interno tale da rendere la permanenza insicura in quel territorio, e che (b) egli stesso era stato accusato di vari reati commessi durante gli scontri locali (porto illegale di armi, rapina e omicidio)

per i quali in Nigeria era prevista (ed era stata in concreto ad altri comminata) la pena di morte;

in tal senso il richiedente aveva invero appellato la decisione di primo grado;

la corte d’appello ha liquidato la prima questione affermando che, “anche ammessa la verità delle dichiarazioni del richiedente”, per quanto ragionevolmente contestate, il riferimento alla situazione politica generale della Nigeria era da ritenere “strumentale”, non avendovi il richiedente fatto cenno nella dichiarazione resa dinanzi alla commissione territoriale, e comunque “del tutto sproporzionato” -ispetto alla zona di provenienza; e che il timore di condanna a morte non poteva dirsi bastevole alla protezione sussidiaria quando, come nel caso di specie, vi fossero stati, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 16 fondati motivi di commissione di un grave reato;

la tesi della corte d’appello è in contrasto con i principi che governano il sistema di protezione internazionale, tanto da non poter in nessun modo essere avallata;

le laconiche argomentazioni in ordine alla situazione della Nigeria non assolvono l’onere di cooperazione gravante sul giudice, poichè non rileva che il richiedente abbia fatto cenno o meno alla condizione di instabilità del paese di provenienza dinanzi alla commissione territoriale;

il riconoscimento della protezione sussidiaria, in particolare ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) postula sempre una verifica aggiornata al momento della decisione (ex aliis Cass. n. 17075-18); ed è pacifico che la necessità di ricevere protezione dal paese ospitante può sorgere anche in un momento successivo rispetto alla partenza del richiedente dal Paese di origine ovvero all’arrivo in quello ospitante (v. Cass. n. 9427-18);

la corte territoriale non ha chiarito se le dichiarazioni del ricorrente fossero o meno attendibili, mentre è certo che, esclusa l’inattendibilità di esse, occorreva verificare, mediante i poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata, astrattamente riconducibile a una situazione tipizzata di rischio, fosse effettiva nel Paese nel quale si sarebbe dovuto disporre il rimpatrio;

a tal riguardo, una volta allegato il pericolo di danno di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato determinativa di minaccia grave alla vita o alla persona) e i conseguenti fatti costitutivi del diritto, il giudice del merito deve infatti adempiere al dovere di accertamento e di cooperazione, e ciò può fare solo indicando specificatamente le fonti in base alle quali l’accertamento è stato svolto con l’esito infine ritenuto (v. Cass. n. 11312-19);

niente di tutto questo emerge dalla motivazione della sentenza, la quale dunque va da questo primo punto di vista cassata;

non meno grave errore è poi quello che mina l’assunto della corte del merito a proposito della presunta irrilevanza del paventato rischio del richiedente di subire, in patria, la pena di morte, allorquando vi siano fondati motivi per ritenere commesso un reato;

a prescindere dal fatto che la sentenza non ha spiegato, salvo un laconico riferimento ad “ammissioni” fatte dal richiedente, quali fossero i suddetti “fondati motivi”, vi è che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a), del considera danno grave, ai fini della protezione sussidiaria, proprio la condanna e morte o la possibile esecuzione della pena di morte; il che implica giustappunto una previa accusa di commissione di un reato in tal modo punito in patria;

per la contraddizione che non consente, il rischio di subire un tale trattamento rileva di per sè come presupposto della protezione, nel senso che l’art. 16, lett. b), a sua volta prevedendo come causa di esclusione della protezione internazionale la circostanza che sia stato commesso, nel territorio nazionale o all’estero, un grave reato, niente toglie al dovere del giudice di assumere informazioni in ordine al possibile trattamento che il sistema criminale del paese di provenienza riserva, in questa prospettiva, al richiedente;

nel caso concreto il richiedente aveva giustappunto allegato che, per le accuse contro di lui formulate, sarebbe stato passibile di morte, e ciò avrebbe dovuto condurre la corte territoriale a esaminare la posizione del medesimo anche alla luce di informazioni aggiornate sul contesto del sistema criminale della Nigeria, onde così pervenire a un giudizio completo sulla coerenza e sulla stessa attendibilità del rischio paventato;

l’impugnata sentenza va dunque cassata;

restano assorbiti gli altri motivi;

la causa deve essere rinviata alla medesima corte d’appello, in diversa composizione, per nuovo esame;

il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo e il quarto motivo, assorbiti gli altri, cassa l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d’appello di Perugia.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 28 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2019

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