Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23454 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 10/11/2011, (ud. 20/10/2011, dep. 10/11/2011), n.23454

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29176-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio

legale TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e difesa

dall’Avvocato

CORNA ANNA MARIA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE DON

MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato AFELTRA ROBERTO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 810/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 15/11/2006 R.G.N. 211/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/10/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato ZUCCHINALI PAOLO per delega CORNA ANNA MARIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario che ha concluso per inammissibilità del secondo e quarto

motivo del ricorso, rigetto del primo e terzo motivo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 520 del 2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda proposta da M.G. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso per il periodo 29-5- 2002/28-8-2002, “ai sensi della vigente normativa per far fronte agli incrementi di attività produttive particolari e di carattere temporaneo connessi alla gestione degli adempimenti ICI che non possono essere soddisfatte con il personale in servizio”, con conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e condannava la società al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio.

Sull’appello principale della società e sull’appello incidentale del M., la Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, con sentenza depositata il 15-11-2006, condannava la società al pagamento delle retribuzioni quantificate in Euro 15.756,62. oltre accessori, confermando nel resto.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con quattro motivi.

Il M. ha resistito con controricorso.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società, denunciando violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. e vizio di motivazione, deduce che la Corte territoriale, erroneamente ha ritenuto insufficienti le prove offerte in primo grado e inammissibili ex art. 437 c.p.c. le argomentazioni e le istanze istruttorie contenute nel ricorso d’appello.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “se, ai sensi degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., il Giudice sia tenuto a valutare tutte le prove dedotte dalle parti, ovvero possa ignorare le prove fornite da una parte pur in assenza di qualunque prova contraria dedotta dall’altra parte, nonchè se ai sensi dell’art. 2697 cod. civ. il giudice possa pervenire all’accoglimento delle pretese di una parte in assenza di qualsivoglia prova a sostegno delle medesime ed anzi in presenza di significativi elementi di prova che depongano in senso contrario”.

Tale quesito risulta assolutamente generico e privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta e allo specifico decisum (che ha affermato la novità e inammissibilità delle “argomentazioni difensive e istanze istruttorie contenute nel ricorso in appello” e, nel contempo ha ritenuto non assolto l’onere probatorio da parte della società in mancanza di “qualsiasi indicazione, quantomeno statisticamente prevedibile, sulle percentuali di incremento dell’attività collegato ai suddetti adempimenti e, insieme, sul numero delle assunzioni a termine per far fronte alla conseguente esigenza, così da evidenziare una relazione coerente idonea a dare dimostrazione del nesso causale tra l’esigenza richiamata nel contratto e l’assunzione di cui trattasi”).

Il quesito di diritto, infatti, “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo” (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339), dovendo in sostanza integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463), per cui è inammissibile non solo il motivo nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione del motivo stesso, “ovvero sia formulato in modo implicito, si da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico” (v. Cass. S.U. 28-9- 2007 n. 20360 cfr. Cass. S.U. 5-2-2008 n. 2658).

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c. e vizio di motivazione, in sostanza deduce che la Corte d’Appello avrebbe dovuto ammettere anche d’ufficio i mezzi di prova necessari per accertare la sussistenza delle esigenze richiamate nel contratto di assunzione de quo, disponendo la produzione dei documenti aziendali relativi all’attività svolta nell’ufficio CUAS di Milano nel periodo in oggetto, o, quanto meno, avrebbe dovuto giustificare il proprio convincimento in ordine alla mancata ammissione degli stessi.

Anche tale motivo non può essere accolto.

Come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. S.U. 20-4-2005 n. 8202) “nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli art. 416 c.p.c., comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e art. 437 c.p.c., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello.

Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.” Peraltro i detti poteri, “pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi – non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, nè tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale” (v. Cass. 8-8-2002 n. 12002, Cass. 21-5-2009 n. 11847, Cass. 22-7-2009 n. 17102, Cass. 15-3-2010 n. 6205).

Nella fattispecie la Corte territoriale, dopo aver evidenziato il mancato assolvimento da parte della società dell’onere di allegazione (“… manca qualsiasi indicazione … “), prima ancora che di prova, in ordine al “nesso causale tra l’esigenza richiamata nel contratto e l’assunzione di cui trattasi, in sostanza ha ritenuto nuove e inammissibili non solo le istanze istruttorie bensì anche le ulteriori circostanze e le relative argomentazioni avanzate per la prima volta con l’atto di appello.

Tale decisione è conforme con i principi sopra richiamati e risulta altresì congruamente motivata.

Del resto, con il motivo la ricorrente si limita a ribadire le argomentazioni fondate sulle circostanze dedotte con l’appello, senza contestarne in alcun modo la tardività e inammissibilità della allegazione (presupposto necessario anche per l’esercizio di eventuali poteri di ufficio).

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 12 preleggi, art. 1419 c.c., D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e art. 115 c.p.c., in sostanza lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato permarrebbe (in generale) anche nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, così, in sostanza, applicando gli artt. 4 e 5 dello stesso D.Lgs. al diverso caso di nullità del termine per violazione dell’art. 1 comma 2 del medesimo D.Lgs, per il quale il legislatore non ha previsto la detta conversione.

Il motivo è infondato.

Come è stato affermato da questa Corte (v. Cass. 21-5-2008 n. 12985 e successive), “il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (principio applicato in fattispecie di primo ed unico contratto a termine)”.

Con il quarto motivo la società, lamenta che la Corte di merito avrebbe “indicato l’atto di messa in mora nel ricorso di primo grado, laddove lo stesso non conteneva “alcuna espressa messa in mora” e, comunque, era rimasto “ignoto al datore di lavoro sino alla notificazione”. La ricorrente aggiunge che “se anche fosse confermata la pretesa sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato” il M. “avrebbe diritto esclusivamente alla riammissione in servizio, non coercibile ex art. 1 8 Statuto dei lavoratori”.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Se, per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 e segg. cod. civ.; in ogni caso, se il deposito del ricorso possa essere qualificato come messa in mora del datore di lavoro; ed infine se il preteso diritto al pagamento delle retribuzioni perdute si riferisca anche al periodo successivo alla data di lettura del dispositivo della sentenza”.

Tale quesito risulta del tutto generico ed inconferente in relazione al decisum, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto di regole, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso cfr. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Del resto neppure può ignorarsi che nella fattispecie la Corte territoriale ha quantificato il risarcimento in undici mensilità “calcolate dalla data di notifica del ricorso” (e non da quella del deposito), così configurato l’atto di messa in mora con accertamento prettamente di fatto ed inerente la interpretazione della domanda, riservato al giudice del merito. La censura della società appare, quindi, del tutto generica in quanto la ricorrente neppure riporta il contenuto del ricorso introduttivo di primo grado, nella parte relativa, che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato un atto di messa in mora.

Peraltro neppure risulta conferente con il decisum e con la quantificazione del risarcimento operata dalla Corte d’Appello, il quesito relativo al pagamento delle retribuzioni per “il periodo successivo alla data di lettura del dispositivo della sentenza”.

Così risultato inammissibile il quarto motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore del M..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al M. le spese liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorali, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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