Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23446 del 26/10/2020

Cassazione civile sez. I, 26/10/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 26/10/2020), n.23446

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14564/2019 proposto da:

D.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via della

Giuliana n. 32, presso lo studio dell’avvocato Gregorace Antonio,

che lo rappresenta e difende giusta procura speciale allegata al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei

Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositato il

28/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/07/2020 dal Consigliere Dott. Paola Vella.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Bologna ha respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero della protezione sussidiaria o umanitaria, proposta dal cittadino (OMISSIS) D.M., nato il (OMISSIS), il quale ha dichiarato di aver lasciato il Gambia per timore di subire la vendetta dello zio, che era stato fatto arrestare e imprigionare per un anno dal padre (poliziotto) poichè aveva venduto senza il suo consenso parte dei terreni in loro comproprietà; dopo la morte dei genitori lo zio aveva preso a minacciarlo e maltrattarlo, per impossessarsi dei terreni che egli aveva ereditato, sino a colpirlo alla testa tanto violentemente da costringerlo al ricovero ospedaliero; il ricorrente lo denunciava alla polizia, ma senza esito, quindi decideva di andarsene con degli amici in Mauritania, dove lavorava per circa cinque mesi, e di lì in Libia, dove veniva rapito a scopo di riscatto, ma, riuscito a liberarsi dopo sei mesi, si imbarcava infine per l’Italia.

2. Il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui il Ministero intimato ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo si deduce la violazione della “Direttiva 2004/83/CE, recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007” in relazione alle dichiarazioni rese dal ricorrente e al mancato supporto probatorio officioso, in quanto il tribunale si sarebbe limitato ad affermare “che il ricorrente non ha fornito alcuna plausibile spiegazione delle ragioni per cui non era riuscito a corroborare la propria richiesta di protezione con elementi oggettivi di prova”, senza esercitare i poteri officiosi di integrazione probatoria.

3.1. La censura, oltre che generica, è manifestamente infondata, poichè il tribunale, lungi dal limitarsi a rilevare la mancanza di prove del racconto del ricorrente, ha messo in evidenza in modo puntuale e dettagliato le insanabili contraddizioni e aporie del racconto, arricchitosi progressivamente nelle varie sedi di dettagli che avrebbero evidenziato l’incoerenza, contraddittorietà e inverosimiglianza dei fatti principali allegati (v. pag. 6-8 del decreto).

3.2. Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte è pressochè unanime nel ritenere che “in tema di protezione internazionale, il principio in virtù del quale, quando le dichiarazioni dello straniero sono inattendibili, non è necessario un approfondimento istruttorio officioso” va applicato “ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato o di quelli per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b”.

3.3. Solo con riguardo alla successiva lett. c) non si registra analoga univocità, poichè, a fronte del condivisibile orientamento per cui “in quest’ultimo caso il dovere del giudice di cooperazione istruttoria sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione non credibile dei fatti attinenti alla vicenda personale del richiedente, purchè egli abbia assolto il proprio dovere di allegazione” (Cass. 10286/2020, 8020/2020, 7985/2020, 14283/2019), un più rigoroso – e ad avviso del Collegio meno condivisibile – orientamento applica anche in tal caso il suddetto principio, nell’assunto che “l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona” sicchè, “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. 16925/2018, 28862/2018, 33096/2018, 33858/2018, 4892/2019, 15794/2019, 17174/2019, 33858/2019, 8367/2020).

3.4. Del tutto minoritario è invece il recente indirizzo per cui l’obbligo di cooperazione istruttoria verrebbe meno solo a fronte di “affermazioni circa il Paese di origine (…) che risultino immediatamente false”, nonchè nei casi di “notorio”, ovvero mancata esposizione di fatti storici idonei a rendere possibile l’esame della domanda o rinuncia espressa ad una delle possibili forme di protezione (Cass. 8819/2020).

4. Le superiori osservazioni si saldano anche al secondo mezzo, che lamenta l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni effettuate in giudizio sulle condizioni del Gambia.

4.1. Il motivo è peraltro inammissibile perchè generico e difforme dal paradigma delle censure motivazionali di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis), che richiede l’indicazione di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia, di tal che il ricorrente ha l’onere di indicare – nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 8053/2014, 8054/2014, 1241/2015; Cass. 19987/2017, 7472/2017, 27415/2018, 6383/2020, 6485/2020, 6735/2020).

4.2. Il ricorrente si limita infatti ad indicare vagamente notizie di stampa e siti web, tra i quali quello di Amnesty International, a fronte delle plurime, qualificate e assai più aggiornate fonti di C.O.I. utilizzate dal tribunale (riportate da pag. 8 a pag. 11 del decreto impugnato), che d’altro canto ha sicuramente analizzato le dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione territoriale, proprio per evidenziare le difformità rispetto a quelle rese in udienza.

5. Con il terzo motivo si denunzia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per la mancata concessione della protezione sussidiaria, trattandosi di ipotesi che “ricorre certamente nel caso di specie”.

5.1. La censura è inammissibile perchè del tutto generica, a fronte dell’ampia motivazione del tribunale in punto di insussistenza in Gambia di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato.

6. Il quarto mezzo prospetta l’errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per non avere il tribunale “in alcun modo preso in considerazione il grado di integrazione sociale del ricorrente”.

6.1. La censura è infondata, poichè il tribunale ha in realtà valutato il percorso di integrazione intrapreso in Italia dal ricorrente, ritenendo tuttavia che esso non evidenzi un radicamento del ricorrente sul territorio, e comunque ha escluso la protezione invocata in assenza di una specifica condizione, seria e grave, di vulnerabilità da tutelare.

6.2. La valutazione appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte che, ai fini della protezione umanitaria – astrattamente riconoscibile ratione temporis (Cass. Sez. U., 29459/2019) – richiede “il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale” (Cass. 23778/2019, 1040/2020), escludendo il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari solo “in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (Cass. Sez. U., nn. 29459, 29460, 29461 del 2019; Cass. 4455/2018, 630/2020), con la precisazione che non ha rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Cass. Sez. U., 29459/2019).

7. Segue la condanna alle spese, liquidate in dispositivo.

8. Sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (cfr. Cass. Sez. U., 23535/2019 e 4315/2020).

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2020

 

 

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