Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23445 del 19/09/2019

Cassazione civile sez. VI, 19/09/2019, (ud. 19/03/2019, dep. 19/09/2019), n.23445

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22112-2017 proposto da:

X.K.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

QUINTINO SELLA 41, presso lo studio dell’avvocato MARGHERITA

VALENTINI rappresentata e difesa dall’avvocato VINCENZO GAUDIO;

– ricorrente –

contro

C.M., S.R., P.T., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA POSTUMIA 1, presso lo studio dell’avvocato

FRANCESCO SIBILLA, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ROMANO SIBILLA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 119/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE

SEZIONE DISTACCATA di TARANTO, depositata il 22/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 19/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CAVALLARO

LUIGI.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 22.3.2017, la Corte d’appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di X.K.S. volta al riconoscimento della natura subordinata della collaborazione prestata in favore di P.T. e dei coniugi S.R. e C.M., nonchè al pagamento delle consequenziali differenze retributive;

che avverso tale pronuncia X.K.S. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura;

che P.T. e i coniugi S.R. e C.M. hanno resistito con controricorso;

che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;

che parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con l’unico motivo di censura, la ricorrente denuncia “omesso esame circa un punto decisivo della controversia per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.” (così il ricorso, pag. 7), per avere la Corte di merito ritenuto, conformemente alla decisione di prime cure, che le risultanze istruttorie non avessero dato prova della natura subordinata della collaborazione dedotta in giudizio, nonostante che – a suo dire – gli odierni controricorrenti non avessero contestato la natura del rapporto di lavoro domestico precorso inter partes e avessero anzi confermato di non aver corrisposto la tredicesima mensilità ed il TFR;

che il motivo appare manifestamente inammissibile, dal momento che pretende di sottoporre al vaglio di legittimità la congruità della motivazione posta dalla Corte di merito a supporto dell’accertamento di fatto in ordine alla insussistenza della prova della natura subordinata del rapporto di lavoro dedotto in giudizio, il quale accertamento, possibile in via generale solo per il caso di omesso esame circa un fatto decisivo (nei termini chiariti da Cass. S.U. n. 8053 del 2014), risulta in specie precluso dalla sussistenza di una doppia conforme di merito, rispetto alla quale l’odierna ricorrente, in spregio al principio di specificità, non ha chiarito in ricorso se ed in che modo l’accertamento di fatto compiuto dai giudici di seconde cure fosse differente rispetto a quello compiuto dal giudice di primo grado (Cass. n. 26774 del 2016);

che, anche a voler ritenere le lamentate censure di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. come autonome rispetto a quella di omesso esame, le stesse sarebbero parimenti inammissibili, non essendosi dedotto che i giudici abbiano posto a fondamento della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio fuori dai casi previsti dalla legge oppure che abbiano fatto ricorso alla propria scienza privata o abbiano disatteso l’efficacia probatoria di prove legali o, ancora, abbiano recepito come tali prove invece necessitanti di apprezzamento critico (Cass. n. 25029 del 2015);

che, su un piano generale, va ricordato come l’onere di specifica contestazione dei fatti allegati dall’attore, previsto dall’art. 416 c.p.c., comma 3, al cui mancato adempimento consegue l’effetto dell’inopponibilità della contestazione nelle successive fasi del processo e, sul piano probatorio, quello dell’acquisizione del fatto non contestato ove il giudice non sia in grado di escluderne l’esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, si riferisca ai fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ovvero ai fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, non estendendosi viceversa alle circostanze che implicano un’attività di giudizio (Cass. n. 11108 del 2007), quale nella specie sarebbe la valutazione circa la natura subordinata o meno della collaborazione precorsa inter partes;

che il ricorso, conclusivamente, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 19 marzo 2019.

Depositato in cancelleria il 19 settembre 2019

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