Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23432 del 17/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 17/11/2016, (ud. 13/09/2016, dep. 17/11/2016), n.23432

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20290-2010 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliate in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati ELISABETTA LANZETTA, MASSIMILIANO MORELLI, gusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

S.V. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

DELLE MILIZIE 38, presso o studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2117/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/04/2010 r.g.n. 9072/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/09/2016 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito l’Avvocato POLTCASTRO LUCIA per delega verbale Avvocato

LANZETTA ELISABETTA;

udito l’Avvocato COLETTI PIERFILIPPO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza n. 2117/10 la Corte di appello di Roma ha accolto l’appello proposto da S.V. e, in riforma della sentenza del locale Tribunale, ha accertato il diritto dell’appellante allo svolgimento di mansioni proprie del livello C1 dal 1.11.2001 e del livello C2 dal 1.7.2005. Per l’effetto, ha condannato l’INPS ad attribuire all’appellante mansioni corrispondenti alla qualifica C2 e a risarcirgli del danno, liquidando la somma, in via equitativa e in valori attuali, di Euro 20.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla sentenza.

2. A fondamento del decisum, la Corte territoriale ha svolto le seguenti considerazioni:

– il ricorrente, assunto dall’INPS il 21.3.1977, era stato inquadrato nella posizione B2 dal 1.11.2000, nella posizione Cl dal 1.11.2001 e nella posizione C2 dal 1.7.2005;

– una precedente sentenza, passata in giudicato, aveva accertato che il ricorrente aveva subito un demansionamento dal 1.11.2000 sino al giorno della decisione (6 febbraio 2007) per essere stato adibito a mansioni non corrispondenti alla posizione B2; con tale sentenza l’INPS era stato condannato al risarcimento del danno, liquidato in Euro 5.000,00, oltre accessori;

– con successivo ricorso il S. aveva domandato la condanna dell’INPS ad adibirlo a mansioni proprie del livello C1 dal 1.11.2001 e del livello C2 dal 1.7.2005 e a risarcirgli il danno;

– il giudicato formatosi per effetto della sentenza n. 1001/07 faceva stato in ordine all’avvenuto demansionamento, quanto meno fino al febbraio 2007, poichè in tale periodo il S. aveva svolto mansioni proprie dell’inferiore qualifica B1;

– di conseguenza, doveva ritenersi accertata la violazione denunciata in relazione al diritto a svolgere le mansioni C1 dal 1.11.2001 e di C2 dal 1.7.2005;

– quanto alle domande risarcitorie, il danno non patrimoniale alla professionalità era desumibile con ragionamento presuntivo in considerazione della “durata del pregiudizio (9 anni), dell’assenza di resipiscenza da parte della P.A. datrice, delle probabili ripercussioni extralavorative”;

– tale danno poteva essere risarcito con una somma – liquidata all’attualità – pari a circa una presumibile retribuzione mensile di Euro 2.200,00, moltiplicata per il numero degli anni (9) del demansionamento.

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’INPS sulla base di cinque motivi. Resiste il S. con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 415 e 416 cod. proc. civ., dell’art. 2697 cod. civ., in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e all’art. 2103 cod. civ.; violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ.; violazione dell’allegato A al CCNL comparto enti pubblici non economici 1998/2001, vizio di motivazione. Si duole che la Corte di appello abbia riconosciuto il risarcimento dei danni da demansionamento per un periodo in gran parte sovrapponibile a quello coperto da giudicato esterno: nel primo giudizio il S. aveva chiesto il risarcimento dei danni per il periodo dal 1.11.2000 al 29.11.2004 (data della domanda giudiziale); il risarcimento riconosciuto copriva tale periodo ed anzi gli effetti del giudicato si sarebbero estesi, secondo la Corte romana, fino al 6.2.2007. Pertanto, nel primo giudizio il ricorrente avrebbe dovuto dedurre che il preteso demansionamento si riferiva alla posizione C1, anzichè alla posizione B2, dal 1.11.2001 in poi, e quanto meno fino al 27.3.2006, data del deposito del ricorso introduttivo per cui è causa. In ogni caso, non era stato considerato che l’INPS aveva allegato e chiesto di provare l’effettiva adibizione del S., a decorrere dal 1.11.2001, a mansioni proprie del livello C1.

2. Con il secondo motivo l’Istituto denuncia violazione degli artt. 115, 116, 414 e 415 cod. proc. civ., nonchè degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., vizio di motivazione. Non erano stati debitamente considerati i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema allegazione e prova del danno da demansionamento, che non può ritenersi sussistente in re ipsa (S.U. n. 6572/06). La Corte di appello aveva riconosciuto il risarcimento del danno in difetto di allegazioni sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio subito. Le affermazioni contenute nella sentenza erano standardizzate, concretandosi nella mera affermazione di “mancata crescita professionale” e di “annullamento dell’immagine professionale”. La mancanza di allegazioni non avrebbe consentito al Giudice di appello di ricorrere neppure alla prova per presunzioni, nè di liquidare il danno in forma equitativa.

3. Con il terzo motivo si assume la violazione dell’art. 432 cod. proc. civ., artt. 1223 e 1226 cod. civ., vizio di motivazione, per non avere la Corte di appello considerato che il S. svolge attività di lavoro in regime di part-time al 33,33% ed inoltre era rimasto assente dal servizio per assenza non retribuita nei periodi indicati nel tabulato versato in atti. La liquidazione in via equitativa era stata ancorata ad una retribuzione assunta apoditticamente a base del calcolo e comunque erroneamente non era stata ridotta dei 2/3 rispetto a tempo pieno e ulteriormente ridotta per via delle numerose assenze dal servizio dovute ad aspettativa ed a permessi non retribuiti. In ogni caso, i giudici di appello avrebbero dovuto tenere conto che per il periodo corrente dal 1.11.2001, ed in gran parte coincidente con quello del presente giudizio, era già stato liquidato un risarcimento di Euro 5.000,00.

4. Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 437 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale violato il principio per cui in appello non sono ammesse domande nuove. Conseguentemente, non avrebbe dovuto dare ingresso alla domanda, non formulata in prime cure e costituente mutatio libelli, riguardante la condanna dell’INPS ad attribuire mansioni di C2 dal 1.7.2005.

5. Il quinto motivo denuncia violazione degli artt. 13 e 16 nonchè dell’allegato A del CCNL del personale comparto enti pubblici non economici 1998/2001. La posizione C2 costituisce solo uno sviluppo economico della posizione C1 e quindi alla stessa non corrispondono mansioni, ossia conoscenze o contenuti attitudinali. Nel nuovo sistema di classificazione professionale alle declaratorie di aree corrispondono livelli omogenei delle competenze posizione per posizione.

6. Il ricorso è infondato.

7. Con il primo motivo si assume che il giudicato copre il dedotto e il deducibile per cui il S. avrebbe dovuto dedurre nel primo giudizio gli avanzamenti di carriera in posizione C1 e C2 e, non avendolo fatto, gli sarebbe stato precluso di agire una seconda volta per avanzare rivendicazioni sulla base di tali presupposti.

7.1. Tuttavia, l’attuale ricorrente non fornisce elementi che consentano di ritenere che la questione dell’improponibilità della seconda domanda – per non essere stati dedotti nel primo giudizio i fatti che l’INPS assume essere già deducibili in quella sede – sia ancora aperta, in quanto non implicitamente rinunciata ex art. 346 cod. proc. civ. in conseguenza della sua mancata proposizione (o riproposizione) in appello dalla parte totalmente vittoriosa in primo grado.

7.2. L’Istituto ricorrente, che censura la sentenza per violazione del principio per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, aveva l’onere – per i principi di specificità, indicazione e allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, – di indicare i termini esatti in cui la questione sarebbe stata sottoposta al giudice di appello. Non risulta che l’INPS, a fronte dell’appello del S. ed a seguito dell’acquisizione processuale della sentenza n. 1001/07 della Corte di appello di Roma, avesse formulato (o riproposto) ex art. 346 c.p.c. un’eccezione di improponibilità della domanda.

8. Quanto alle questioni introdotte con il secondo motivo, giova premettere che la Corte di appello ha fatto applicazione del principio per cui l’accertamento compiuto nel primo giudizio, comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile del decisum, precludeva il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto (cfr. in tal senso fra le tante Cass. S.U. 17 dicembre 2007 n. 26482 e Cass. S.U. 16 giugno 2006 n. 13916 nonchè, più di recente, Cass. 12 aprile 2010 n. 8650). Ha difatti ritenuto che nel primo giudizio fosse rimasta accertata, con efficacia di giudicato e fino al 6.2.2007, l’adibizione del S. a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della posizione B2; nè la sentenza riferisce di mutamenti dello stato di fatto intervenuti successivamente. A fortiori, tanto comprovava il mancato svolgimento, nello stesso periodo, di mansioni proprie di posizioni superiori, quali la posizione C1 e la posizione C2, acquisite dal S. rispettivamente con decorrenza 1.11.2001 e 1.7.2005, ma solo formalmente attribuite. Il presupposto comune alle due cause non poteva che fare stato anche nel successivo giudizio, costituendo prova del demansionamento dal 2001 alla data della sentenza di appello (del 2010), per circa nove anni.

8.1. Alla stregua degli elementi processuali esaminati nella sentenza impugnata, la diversità tra le due cause era data dal più ampio petitum oggetto della seconda, in ragione di fatti sopravvenuti quali la mancata assegnazione alle mansioni proprie di qualifiche superiori, profilo incidente anche sulla misura del risarcimento del danno. La diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi in aggiunta a quella dedotta in primo grado e, pertanto, non dà luogo ad una domanda nuova, come tale inammissibile in appello, ai sensi degli artt. 345 e 437 cod. proc. civ. (Cass. n. 14961 del 2006 e 26079 del 2005). Ne consegue che l’incremento del risarcimento in corso di causa, risolvendosi in un mero ampliamento della istanza originaria, mantenendo inalterati i termini della contestazione, incide solo sul petitum mediato, relativo all’entità del bene da attribuire, e determina, quindi, soltanto una modifica, piuttosto che il mutamento dell’originaria domanda.

8.2. Quanto alla prova del danno, vanno richiamati, in via di premessa generale, i principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 6572 del 2006, secondo cui, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (conf. Cass. nn. 21282 del 2006, 19965 del 2006, 13877 del 2007, 29832 del 2008, 19785 del 2010, 4712 del 2012, 6797 del 2013). In caso di accertato demansionamento, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cessazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr. Cass. n. 7471 del 2012; v. pure Cass. n. 21865 dei 2013, 2886 del 2014, n. 1327 del 2015; v. pure, tra le più recenti, Cass. n. 9309 del 2916).

8.3. Nel caso in esame il Giudice di merito ha evidenziato che, per il lungo periodo dedotto in giudizio, il ricorrente si era visto costretto, ad onta delle sue progressioni di carriera, a svolgere sempre le medesime mansioni (che, come desumibile dal complessivo tenore della sentenza, erano inferiori di due livelli dal novembre 2011 e di ben tre livelli dal luglio 2005), nella prevedibile frustrazione lavorativa, anche rispetto ai suoi colleghi di lavoro, per la menomazione della sua attività ed immagine professionale. Risulta dunque compiuta una valutazione di durata, gravità, conoscibilità nel luogo di lavoro dell’operata dequalificazione e della frustrazione di precisate aspettative in relazione alle progressioni professionali medio tempore avvenute.

9. Per quanto attiene alla presunta omogeneità e dunque fungibilità tra le diverse qualifiche appartenenti alla medesima area C, trattasi di questione nuova, di cui non vi è cenno nella sentenza di appello e che pertanto va ritenuta inammissibile (v. tra le più recenti, Cass. n. n. 8206 e 7048 del 2016, nonchè Cass. 12 luglio 2005 n. 14599 e n. 14590; n. 25546 del 30 novembre 2006; n. 4391 del 26 febbraio 2007; n. 20518 del 28 luglio 2008; n. 5070 del 3 marzo 2009).

10. Infondata è l’ulteriore doglianza con cui si lamenta che la Corte di appello avrebbe dovuto detrarre dal risarcimento quanto già riconosciuto nel primo giudizio e comunque rideterminare il quantum in considerazione del regime di part-time e delle numerosi periodi di assenza non retribuita di cui il S. aveva fruito nel corso degli anni.

10.1. Nel caso in cui sia certo il diritto alla prestazione spettante al lavoratore, ma non sia possibile determinare la somma dovuta, sicchè il giudice la liquida equitativamente ai sensi dell’art. 432 cod. proc. civ., l’esercizio di tale potere discrezionale non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, purchè la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo. (Cass. n. 4047 del 2013, n. 50 del 2009, 10401 del 2009).

10.2. La Corte di appello ha determinato il risarcimento in via equitativa ex art. 432 cod. proc. civ. assumendo come criterio un’entità assai inferiore alla totalità delle retribuzioni percepite dal S. nel periodo dedotto in giudizio, e precisamente una mensilità della “presumibile retribuzione” per ogni anno di demansionamento; inoltre l’importo complessivamente riconosciuto di Euro 20.000,00 è stato liquidato all’attualità (4.3.2010). La doglianza che assume a fondamento una liquidazione del risarcimento parametrata alle retribuzioni percepite dal S. è priva di qualsiasi nesso con la sentenza e dunque è inammissibile il prospettato vizio che assume a fondamento la necessità di considerare i periodi di assenza non retribuita o il regime di lavoro part-time.

11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2016

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