Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23424 del 10/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 10/11/2011, (ud. 22/09/2011, dep. 10/11/2011), n.23424

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23498/2007 proposto da:

M.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA

74, presso lo studio dell’avvocato IACOBELLI Gianni Emilio, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato DE MARINIS Nicola che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4109/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/09/2006 R.G.N. 4617/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO DI CERBO;

udito l’Avvocato GIULIO IPPOLITO per delega GIANNI EMILIO IACOBELLI;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega NICOLA DE MARINIS;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

La Corte:

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

1. la Corte d’appello di Roma ha dichiarato inammissibile il gravame proposto da M.C. avverso la sentenza di prime cure che aveva rigettato la domanda dei lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 10 agosto 1998 stipulato fra lo stesso lavoratore e Poste Italiane s.p.a.;

2. ha osservato la Corte territoriale che, mentre la sentenza impugnata aveva respinto la domanda del lavoratore sull’assunto che il tempo trascorso fra la cessazione del rapporto di lavoro e la domanda di accertamento dell’illegittimità del termine fosse sicuro indice della volontà del lavoratore di risolvere il rapporto (integrando così gli estremi della risoluzione del rapporto per mutuo consenso), tale statuizione non era stata censurata nell’atto di appello che, lamentando la violazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, aveva fatto erroneamente riferimento ad una pronuncia di rigetto della domanda per ritenuta legittimità della clausola appositiva del termine;

3. per la cassazione di tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria; Poste Italiane s.p.a. ha resistito con controricorso; l’avvocato del ricorrente ha depositato brevi osservazioni scritte ai sensi dell’art. 379 cod. proc. civ., comma 4;

4. il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata;

5. col primo motivo il ricorrente, allegando la sussistenza di un error in procedendo, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 434 e 437 cod. proc. civ., anche in relazione all’art. 342 cod. proc. civ.; deduce inoltre la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 416, 418, 434 e 437 cod. proc. civ., in relazione all’omessa proposizione, da parte della società convenuta in primo grado, di domanda riconvenzionale avente ad oggetto la declaratoria di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, e dell’omesso rilievo d’ufficio, da parte del giudice di merito, dell’inammissibilità dell’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso; denuncia altresì vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia;

6. il motivo è infondato;

la tesi svolta dal ricorrente, secondo cui sarebbe stata necessaria una domanda riconvenzionale per eccepire la risoluzione per mutuo consenso (per cui il giudice di merito avrebbe deciso su una domanda non ritualmente introdotta nel giudizio) trova infatti piena smentita nel principio enunciato da questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 7 maggio 2009 n. 10526) secondo cui, in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, la deduzione, da parte del datore di lavoro convenuto per l’accertamento della conversione del rapporto a tempo indeterminato a seguito di illegittima apposizione del termine, che il rapporto di lavoro medesimo si è risolto per mutuo consenso, costituisce eccezione in senso proprio e, pertanto, deve essere ritualmente formulata nella memoria di costituzione di cui all’art. 416 cod. proc. civ.;

posto che lo stesso ricorrente ammette che in primo grado la società convenuta aveva proposto una eccezione preliminare di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è evidente che nessun violazione processuale è stata posta in essere dal giudice di primo grado; ne consegue che deve ritenersi assolutamente corretta la decisione impugnata che, dato atto della mancanza di censure avverso la statuizione della sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda sul presupposto della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e della inconferenza dei motivi di impugnazione, aveva dichiarato inammissibile l’appello;

7. in relazione alle suddette conclusioni devono ritenersi assorbiti il secondo ed il terzo motivo di ricorso, con i quali è stata denunciata, rispettivamente, la violazione dell’art. 2697 cod. civ., in tema di onere della prova, e art. 1362 cod. civ., e segg., in tema di interpretazione della norma collettiva di cui all’art. 8 del c.c.n.l. per i dipendenti postali del 1994, e della L. n. 230 del 1962, artt. 1, 2 e 3, in relazione alla legittimità del termine apposto al contratto di lavoro de quo (secondo motivo) e la violazione, fra l’altro, degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione alla L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 3, dell’art. 2697 cod. civ. in relazione alla L. n. 230 del 1962, art. 3, degli artt. 1421 e 2729 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ., sempre con riferimento alla legittimità del termine (terzo motivo);

8. il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari e oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2011

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