Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23404 del 09/11/2011

Cassazione civile sez. II, 09/11/2011, (ud. 21/09/2011, dep. 09/11/2011), n.23404

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.V. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e

difeso, per procura speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato

Loiodice Aldo, presso lo studio del quale in Roma, via Ombrone n. 12,

pai. B, è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

P.A. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso

dall’Avvocato Fares Michele per procura speciale a margine del

ricorso, elettivamente domiciliato in Roma, via di Pietralata n. 320,

presso lo studio dell’Avvocato Gigliola Mazza Ricci;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Bari n. 674

del 2009, depositata il 23 giugno 2009.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21

settembre 2011 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

PATRONE Ignazio il quale ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

In data 15 luglio 1983, T.V. e P.A. stipularono un contratto di permuta di cosa presente con cosa futura, in forza del quale il P. trasferì al T. la proprietà di un cortile, mentre quest’ultimo avrebbe ceduto al primo un locale al piano terreno di un immobile da costruirsi.

Il T., avendo ultimato il programma edilizio, convenne in giudizio il P., dinnanzi al Tribunale di Foggia, chiedendo che, previa declaratoria di autenticità delle sottoscrizioni apposte sulla scrittura privata del 1983, egli fosse dichiarato proprietario del cortile alienatogli dal convenuto ovvero, in subordine, che fosse disposto dal giudice il trasferimento del bene in questione, nonchè che, accertato l’inadempimento del P., questi fosse condannato al pagamento in suo favore della penale prevista in contratto pari a L. 100.000.000.

Costituitosi il contraddittorio, l’adito Tribunale, con una prima sentenza non definitiva accertò l’autenticità delle sottoscrizioni;

con una seconda sentenza non definitiva in data 16 febbraio 2001, condannò il T. al pagamento in favore del P. della somma di L. 39.000.000, quale remunerazione per la perdita di una porzione di 52 mq della proprietà che gli spettava e che era stata occupata dal T.; con sentenza definitiva del 3 gennaio 2001, infine accertò l’inadempimento esclusivo del T., condannandolo al pagamento, in favore della controparte, della penale pari ad Euro 51.645,69, con interessi legali dal 16 dicembre 1985 al soddisfo.

Avverso questa sentenza, il T. ha proposto appello, deducendo che erroneamente il primo giudice aveva applicato l’art. 1460 cod. civ. in favore del P., atteso che era stato quest’ultimo a rendersi inadempiente agli obblighi contrattuali, rifiutandosi di concludere l’atto pubblico per il trasferimento della proprietà del cortile e violando il dovere di correttezza e buona fede, tacendo l’esistenza di altri atti dispositivi, laddove tutti gli inadempimenti attribuitigli dal primo giudice dovevano ritenersi insussistenti. In subordine, l’appellante ha chiesto una riduzione della penale.

Ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Bari, con sentenza depositata il 23 giugno 2009, ha rigettato il gravame.

La Corte barese ha ritenuto che la condotta del T. avesse integrato la violazione della clausola n. 3 del contratto di permuta del 1983, nella quale il T. si era impegnato a concordare le caratteristiche di costruzione del locale da consegnare al P., e che avrebbe potuto anche essere eventualmente destinato a deposito.

A fronte di tale inadempimento, e di altri pure menzionati specificamente in sentenza, la Corte d’appello ha ritenuto che l’inadempimento addebitato al P. fosse di rilievo sensibilmente inferiore e che quindi fosse giustificato il ricorso, da parte di quest’ultimo, all’eccezione di inadempimento. In ogni caso, facendo applicazione del criterio della comparazione, ha osservato la Corte d’appello, certamente gli inadempimenti addebitabili al T. erano di maggiore gravità rispetto a quello del P. sicchè, quand’anche l’inadempimento di quest’ultimo si fosse verificato prima di quelli del T., ciò non di meno dovevano ritenersi più gravi gli inadempimenti di quest’ultimo.

Quanto alla domanda di riduzione della penale, la Corte la ha rigettata sul rilievo della rilevanza del pregiudizio arrecato agli interessi del P. dall’inadempimento della controparte.

Per la cassazione di questa sentenza, il T. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati da memoria; ha resistito, con controricorso, l’intimato.

Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione della sentenza in forma semplificata.

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 cod. civ., dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto di poter applicare la detta disposizione pur avendo accertato che il P. si era reso inadempiente alle proprie obbligazioni prima ancora che fosse scaduto il termine per l’adempimento delle obbligazioni di esso ricorrente. A conclusione del motivo, il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se ai fini della corretta individuazione dell’inadempimento consumato dal sig. P. A. in danno del sig. T.V. vi sia stata un’applicazione conforme dell’art. 1460 c.c. al paradigma normativo, anche ai fini dell’esatto addebito della penale pattuita nella scrittura preliminare del 15.7.1983″.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, con riferimento al presunto inadempimento ritenuto provato a suo carico.

Il ricorrente precisa che, in relazione ai profili contenuti in tale mezzo, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc., civ., non vi è necessità di formulare quesito di diritto.

Entrambi i motivi sono inammissibili per violazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ..

Nella giurisprudenza di questa Corte, si è chiarito che ®il quesito di diritto imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (Cass., n. 11535 del 2008).

Il quesito di diritto, che non può essere desunto dal contenuto del motivo (Cass., ord. n. 20409 del 2008), deve quindi “compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge” (Cass., ord. n. 19769 del 2008; Cass., S.U., n. 6530 del 2008; v. anche Cass., n. 28280 del 2008).

Inoltre, si è chiarito che, nella norma dell’art. 366-bis cod. proc. civ., “nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al precedente art. 360, n. 5 – cioè la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione della sentenza impugnata la rende inidonea a giustificare la decisione” – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366-bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea sorreggere la decisione. (Cass., n. 16002 del 2007; Cass., S.U., n. 20603 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008).

Nel quadro di questi principi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Quanto al primo motivo, è sufficiente rilevare che il quesito di diritto formulato dal ricorrente si risolve sostanzialmente in un interpello alla Corte circa la corretta applicazione, nel caso di specie, dell’art. 1460 cod. civ.. Il quesito, peraltro, difetta sia della indicazione del principio di diritto applicato dal giudice del merito, sia di quello che, al contrario, il ricorrente ritiene si sarebbe dovuto applicare nel caso di specie.

Analogamente, il secondo motivo è inammissibile difettando del tutto il momento di sintesi che, nella giurisprudenza di questa Corte, si è ritenuto necessario a corredo della denuncia di un vizio di motivazione.

D’altra parte, non rileva che il ricorso sia stato notificato quando la L. 18 giugno 2009, n. 69, era già stata pubblicata ed entrata in vigore, in quanto, alla stregua del principio generale di cui all’art. 11 preleggi, comma 1, secondo cui, in mancanza di un’espressa disposizione normativa contraria, la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, nonchè del correlato specifico disposto della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5 in base al quale le norme previste da detta legge si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima Legge (4 luglio 2009), l’abrogazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ. (intervenuta ai sensi della citata L. n. 69 del 2009, art. 47) è diventata efficace per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla suddetta data, con la conseguenza che per quelli proposti – come nella specie – contro provvedimenti pubblicati antecedentemente (e dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) tale norma è da ritenere ancora applicabile (Cass. n. 22578 del 2009; Cass. n. 7119 del 2010).

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorario, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 21 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2011

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