Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23381 del 23/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/10/2020, (ud. 20/07/2020, dep. 23/10/2020), n.23381

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28745-2015 proposto da:

P.I. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso

la sede della Società, (avvocato DORA DE ROSE), rappresentata e

difesa dall’avvocato SERGIO CAVUOTO;

– ricorrente –

contro

DEL PRETE FILOMENA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO

172, presso lo studio dell’avvocato SERGIO NATALE EDOARDO GALLEANO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE

BIAGINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 377/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 09/06/2015, R.G.N. 690/2014.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. – Con sentenza n. 377 depositata il 9.6.2015 la Corte di appello di Firenze, in riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Lucca in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, ha accolto la domanda proposta da D.P.F. dipendente di P.I. s.p.a. per l’accertamento del diritto a ripetere gli importi mensili trattenuti dalla società (e detratti dalla retribuzione lorda) a titolo di contributi arretrati per un complessivo importo di Euro 10.352,40, somma che non poteva ritenersi compresa nell’ambito della conciliazione stipulata tra le parti il 14.11.2008 concernente un periodo pregresso di lavoro a termine (ritenuto illegittimo in sede giudiziale) e la restituzione delle somme corrisposte dalla società durante gli intervalli di tempo non lavorati;

2. la Corte territoriale, richiamando proprie precedenti statuizioni, ha ritenuto che a seguito dell’accordo conciliativo novativo la lavoratrice doveva restituire il lordo percepito dal quale doveva però detrarsi la quota di contribuzione a carico del lavoratore (versata dalla società all’Inps e suscettibile di recupero da parte della stessa società) al fine di scongiurare un indebito arricchimento del datore di lavoro; ha inoltre rilevato che l’individuazione esatta, nell’atto di conciliazione, della somma da restituire non poteva ridondare negativamente a carico della lavoratrice (che in caso contrario sarebbe stata costretta a restituire all’azienda una somma maggiore di quella percepita) e che ciò emergeva dal contenuto del verbale di conciliazione nel quale era stato considerato il costo complessivo dell’operazione;

3. avverso la sentenza, la società P.I. s.p.a. propone ricorso affidato a tre motivi; la sig.ra D.P. resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. La società ricorrente, con il primo motivo, denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine all’eccezione, sollevata dalla società, di nullità del ricorso in appello proposto dalla lavoratrice per violazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1, n. 2, per mancanza dell’indicazione delle norme violate;

2. con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,1965,2967 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo, la Corte distrettuale, trascurato le ampie argomentazioni sviluppate nei diversi gradi di merito con cui la società ha sottolineato l’effetto novativo (e dunque estintivo) dell’accordo conciliativo con conseguente esclusione della maturazione di qualsivoglia diritto, ivi compresi quelli contributivi, vista la specifica individuazione dell’obbligazione restitutoria posta a carico della lavoratrice nel prospetto allegato al verbale di conciliazione;

3. con il terzo motivo si deduce nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa statuizione sulla questione relativa al recupero delle ritenute previdenziali ed assistenziali effettuate in beneficio della lavoratrice derivante dalla decurtazione – della somma da restituire alla società in esecuzione dell’accordo conciliativo – dall’importo mensile lordo della retribuzione, che comporta la diminuzione dell’importo (mensile) sottoposto a prelievo fiscale e contributivo relativo al rapporto di lavoro in corso;

4. il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di autosufficienza in quanto non trascrive (quantomeno nei tratti salienti) nè allega l’atto di appello della D.P., in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, impedendo la verifica della ricorrenza dell’eccezione proposta dalla società in grado di appello;

5. invero, in tema di appello, il requisito della specificità dei motivi, di cui all’art. 342 c.p.c., deve ritenersi sussistente, secondo una verifica da effettuarsi in concreto, quando l’atto di impugnazione consenta di individuare con certezza le ragioni del gravame e le statuizioni impugnate, sì da consentire al giudice di comprendere con certezza il contenuto delle censure ed alle controparti di svolgere senza alcun pregiudizio la propria attività difensiva, mentre non è richiesta nè l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate, nè una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’impugnazione (Cass. n. 22502 del 2014);

6. il secondo motivo è inammissibile per la modalità con cui le censure sono state confezionate (cosiddetto “assemblaggio”) che determina la violazione – per eccesso – del principio di autosufficienza, posto che la riproduzione di parti consistenti degli atti processuali delle fasi di merito (atto di opposizione a decreto ingiuntivo e memoria di costituzione in appello) è effettuata con modalità tali da richiederne una lettura integrale e da devolvere a questa Corte la selezione di quanto effettivamente rilevante in ordine al motivo di ricorso (Cass. Sez. U, n. 5698 del 2012, Cass. ord. n. 17002 del 2013);

7. il motivo è altresì inammissibile in quanto, ove si sottolinea la natura novativa dell’accordo conciliativo e l’estinzione del precedente rapporto di lavoro dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata che ha ritenuto di interpretare il suddetto accordo ravvisando, nella specificazione delle somme individuate per la restituzione, una considerazione delle parti del “costo complessivo dell’operazione” piuttosto che l’individuazione esatta della somma da restituire;

8. il terzo motivo è inammissibile, in quanto la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio di appello lo abbia fatto, onde dar modo al giudice di legittimità di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (fra le più recenti in tal senso Cass. n. 23675 del 2013);

9. nel caso di specie il ricorrente si limita a dedurre di essersi “espressa” nel ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo nel senso di evidenziare la detrazione della quota mensile restituita dalla lavoratrice dalla retribuzione lorda percepita dalla stessa nelle buste paga e non indica in che modo la questione (che, fra l’altro, non assume i requisiti di una eccezione sollevata nei confronti della domanda giudiziale avanzata dalla lavoratrice) sia stata riproposta in grado di appello;

10. in conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.;

11. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 20 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2020

 

 

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