Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23358 del 09/11/2011

Cassazione civile sez. VI, 09/11/2011, (ud. 20/10/2011, dep. 09/11/2011), n.23358

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 23662/2010 proposto da:

V.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA ANGELO SECCHI 3, presso lo studio dell’avvocato CORIGLIANO

CAMPOLITI Giuseppe, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GAUDENZI STEFANO giusta procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE di FAENZA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14, presso lo studio

dell’avvocato BARBANTINI Maria Teresa, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati BELLINI DEANNA, BILOTTI ELISA giusta procura

speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

B.R., R.S., B.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 151/2009 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA del

6/02/09, depositata il 28/09/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/10/2011 dal Consigliere Dott. MAURIZIO MASSERA;

udito l’Avvocato Barbantini Maria Teresa, difensore del

controricorrente che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. CARLO DESTRO che si riporta

alla relazione.

La Corte, letti gli atti depositati:

Fatto

OSSERVA

E’ stata depositata la seguente relazione:

1 – Il fatto che ha originato la controversia è il seguente:

V.L. ha chiesto che venisse dichiarato l’inadempimento di B.N. al contratto di affitto di azienda intercorso tra le parti e che il convenuto fosse condannato al risarcimento del danno conseguente. Il B. ha proposto domanda riconvenzionale e chiamato in giudizio il Comune di Faenza per esserne manlevato con riferimento alla licenza dell’esercizio. Con sentenza depositata in data 28 settembre 2009 la Corte d’Appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale di Ravenna, ha dichiarato che il contratto si era risolto ipso jure per inadempimento dell’affittuaria V., che ha condannato alla corresponsione dei canoni non pagati e al risarcimento del danno.

2 – Il relatore propone la trattazione del ricorso in Camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376, 380 bis c.p.c..

3. – Il primo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112. 160 e 330 c.p.c.; omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

Si assume che “La Corte felsinea non ha speso una sola parola sulla domanda svolta dalla V. con riguardo alla nullità dell’atto di appello spiegato da B.N. nei di lei confronti, sebbene tale domanda richiedesse una statuizione involgendo nullità del procedimento di appello radicato dal B.”.

Dalla sentenza impugnata risulta solo che la V. non si è costituita per resistere all’appello proposto dal B. ed ha impugnato autonomamente la sentenza del Tribunale (i due giudizi sono stati riuniti e decisi dalla sentenza qui impugnata).

La censura è inammissibile poichè pecca di autosufficienza.

Infatti, proprio perchè la questione non è stata trattata dalla sentenza impugnata, al fine di sfuggire alla sanzione di inammissibilità per novità, la ricorrente aveva l’onere – non adempiuto – non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente e in quali termini lo aveva fatto, al fine di consentire alla Corte, che non ha accesso diretto agli atti, di eseguire la necessaria verifica e di trascrivere il testo (Cass. n. 20518 del 2008).

Il secondo motivo adduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 e 1453 c.c., art. 246 c.p.c., nonchè omessa ed erronea valutazione delle risultanze istruttorie.

L’ultima parte della rubrica dimostra l’inammissibilità della censura, in quanto la valutazione delle risultanze istruttorie rientra nella competenza esclusiva del giudice di merito e non può essere sindacata in sede di legittimità poichè implica necessariamente lettura degli atti e documenti di causa e apprezzamenti di fatto. Lo dimostrano le argomentazioni a sostegno che fanno riferimento alla prova testimoniale e alla dichiarazione confessoria della controparte e che ricostruiscono i fatti all’origine della controversia.

Conviene ribadire che il difetto di insufficienza della motivazione è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione; in ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 2272 del 2007).

Inoltre si fa riferimento a documenti (in particolare alla scrittura privata contrattuale) nei cui confronti non è stato rispettato l’art. 366 c.p.c., n. 6.

Infatti è orientamento costante (confronta, tra le altre, le recenti Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. Sez. 3^ n. 22302 del 2008) che, in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 6, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.

In altri termini, il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile. Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1382, 1453, 1486, c.c., artt. 112 e 183 c.p.c..

La doglianza riferisce parte degli atti del giudizio di primo grado per poi asserire che il B. aveva rassegnato con l’atto di citazione in appello le medesime conclusioni, per inferirne che costui non aveva dichiarato di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa contrattualmente prevista. La sentenza impugnata riferisce testualmente che il B. aveva sostenuto in appello che “la risoluzione del contratto era avvenuta di diritto ex art. 1456 c.c., in virtù della clausola risolutiva espressa prevista dal contratto di cui il B. si era avvalso con missiva del 17.11.97” Non risulta, invece, che la V. abbia eccepito in quella sede che la questione rivestisse i caratteri della novità. Si è, comunque, nell’ambito della interpretazione delle domande delle parti che spetta funzionalmente al giudice di merito.

Per il resto la ricorrente non dimostra che la sentenza impugnata abbia deciso le questioni di diritto in modo difforme dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (art. 360 bis c.p.c., n. 1).

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1382, 1383, 1591 c.c., nonchè omessa ed erronea valutazione delle risultanze istruttorie.

La questione è l’avvenuto riconoscimento al B. dell’ammontare dei canoni maturati e non corrisposti e della penale.

Al motivo in esame si attagliano le considerazioni svolte con riferimento ai precedenti. La ricorrente non dimostra che la sentenza impugnata abbia deciso le questioni di diritto in modo difforme dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e le argomentazioni addotte implicano apprezzamenti e valutazioni che esondano dai limiti del sindacato di legittimità.

Il quinto motivo rappresenta violazione e falsa applicazione degli artt. 92, 112, 324 e 336 c.p.c., nonchè omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Si censura l’argomentazione della Corte d’Appello secondo cui la chiamata in causa del Comune di Faenza da parte del B. fu determinata dalla pretesa della V. e, quindi, la condanna della medesima alla rifusione delle spese sebbene non avesse avanzato alcuna domanda in primo grado, nè formulato alcuna censura in appello nei confronti del Comune.

La sentenza impugnata ha deciso conformemente all’orientamento della Corte di Cassazione (Sez. 3^, 21 marzo 2088, n. 7674), secondo cui le spese sostenute dal terzo chiamato in causa su istanza di parte o d’ufficio, quando non ricorrano giusti motivi per la compensazione, sono legittimamente poste a carico dell’attore soccombente, a nulla rilevando che questi non abbia formulato domanda alcuna nei confronti dello stesso terzo evocato in giudizio.

La V. non offre elementi per mutare tale orientamento (art. 360 bis c.p.c., n. 1).

4.- La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti;

La V. e il Comune di Faenza hanno presentato memorie; il Comune di Faenza ha chiesto d’essere ascoltato in camera di consiglio;

5.- Ritenuto:

che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella Camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione, ad eccezione di quelli relativi al quinto motivo, in relazione al quale è andato in contrario avviso;

che le argomentazioni addotte con la memoria dalla V. non sono condivisibili in ordine ai primi quattro motivi e non superano i rilievi contenuti nella relazione; per quanto riguarda, in particolare, la notificazione dell’atto di appello, questa Corte ha ribadito (Cass. n. 17391 del 2009; Cass. n. 21291 del 2007) che la notifica dell’atto di impugnazione (nella specie dell’appello) effettuata a mani della persona “addetta al ritiro”, in luogo diverso da quello indicato dal procuratore domiciliatario e pur in assenza di alcuna indicazione negli atti processuali, in cui non risulti nemmeno un’eventuale comunicazione all’Ordine degli avvocati da parte del destinatario, deve ritenersi perfettamente valida, dovendosi privilegiare il riferimento personale su quello topografico, in quanto, ai fini della notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 330 c.p.c., l’elezione di domicilio presso lo studio del procuratore assume la mera funzione di indicare la sede di questo ed è priva di una sua autonoma rilevanza; è invece fondato il quinto motivo per la determinante ragione che la Corte territoriale ha modificato il regime delle spese di primo grado che, nei riguardi del Comune di Faenza, il Tribunale aveva posto a carico di entrambi ( V. e B.) in ragione della metà, pur in assenza della necessaria impugnazione specifica da parte del B.; occorre, quindi, ripristinare la statuizione del primo giudice, mentre non vi sono ragioni per modificare il regolamento delle spese nel giudizio di appello; l’accoglimento parziale del ricorso, infondato nel resto, consiglia la compensazione delle spese del giudizio di cassazione, visti gli artt. 380 bis e 385 cod. proc. civ..

P.Q.M.

Accoglie il quinto motivo, rigetta gli altri. Cassa in relazione al motivo accolto e, pronunciando nel merito, dispone che le spese del giudizio di primo grado in favore del Comune di Faenza facciano carico alla V. e a B.N. nella misura del 50% ciascuno; fermo il resto. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2011

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