Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23355 del 19/09/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/09/2019, (ud. 25/06/2019, dep. 19/09/2019), n.23355

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 28975/2012 R.G. proposto da:

HSBC BANK PLC, rappresentata e difesa dall’avv. Corrado Grande e

dall’avv. Massimo Antonini, elettivamente domiciliata presso il loro

studio in Roma, in via XXIV Maggio n. 43.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 18, n. 62/18/12, pronunciata il 7/05/2012,

depositata il 12/06/2012.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale De Renzis Luisa, che ha concluso chiedendo l’accoglimento

del primo motivo di ricorso e il rigetto degli altri;

udito l’avv. Marco Di Siena, per delega dell’avv. Corrado Grande;

udito l’avv. Mattia Cherubini per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. HSBC BANK PLC è una società residente nel Regno Unito, che svolge attività bancaria anche in Italia tramite la succursale di Milano (“HSBC Milano”), la quale, ai fini delle imposte sui redditi, si qualifica come una stabile organizzazione (anche “SO” o “branch”) e concede linee di credito a favore di società e gruppi industriali italiani, compresa (a partire dal 1996) Parmalat Spa.

2. HBSC BANK PLC, con distinti ricorsi, impugnò innanzi alla CTP di Milano due avvisi di accertamento IRPEG, IRAP, per l’annualità 2003, e IRES, IRAP, per l’annualità 2004, che recuperavano a tassazione interessi passivi (Euro 147.634, per il 2003; Euro 143.302, per il 2004) su finanziamenti della “casa madre” a favore della “SO”, e perdite su crediti (Euro 9.609.545, per il 2003, ed Euro 3.330.382, per il 2004), quali componenti negativi indebitamente dedotti dalla stabile organizzazione benchè correlati a ricavi e ad attività riferibili alla “casa madre”.

3. Secondo l’ufficio, la “SO”, sotto il profilo fiscale, è considerata come un’entità autonoma e distinta dalla “casa madre”, sia dall’ordinamento interno sia dall’ordinamento sovranazionale, e, pertanto, conformemente a quanto stabilito dalla Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, art. 7, comma 2, è soggetta al medesimo regime fiscale degli enti indipendenti, con determinate conseguenze dal punto di vista della quantificazione del proprio reddito.

4. La CTP di Milano, con sentenza n. 117/2010, riuniti i ricorsi, li accolse e annullò entrambi gli avvisi ritenendoli privi del “necessario presupposto impositivo”.

5. La CTR della Lombardia, con la sentenza in epigrafe, nel contraddittorio della banca del Regno Unito, ha accolto l’appello dell’Agenzia, disattendendo, innanzitutto, l’eccezione dell’appellata del mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni, Statuto dei diritti del contribuente, ex art. 12, comma 7, riguardante l’avviso di accertamento 2003 (in seguito: “avviso 2003”), sul rilievo che l’atto impositivo dava conto dell’urgenza in considerazione dei ristrettissimi tempi rimasti prima della decadenza dell’azione accertatrice.

Quanto al merito degli accertamenti, con riferimento alla contestazione riguardante gli interessi passivi, la CTR ne ha ritenuta la deducibilità limitatamente a quelli maturati su un importo eccedente il fondo di dotazione figurativo, di Euro 6,3 milioni (pari all’ammontare minimo del capitale iniziale delle banche, secondo le disposizioni di Bankitalia), desumibile dall’art. 7 Convenzione, per garantire il principio di libera concorrenza tra la stabile organizzazione e gli istituti di credito italiani.

Con riferimento alle perdite su crediti, inoltre, la CTR ha premesso che, testualmente: “L’art. 109 T.U.I.R. evoca il principio di correlazione fra costi e ricavi (…) menzionato negli avvisi di accertamento. L’art. 110 T.U.I.R., comma 7, evoca il principio di libera concorrenza.”, per il quale i componenti del reddito, derivanti da operazioni intercompany con società non resistenti nel territorio dello Stato, sono valutati in base al “valore normale” dei beni ceduti e dei servizi ricevuti, ciò che comporta l’equiparazione del trattamento fiscale tra imprese esercenti attività bancaria, con determinazione di un fondo di dotazione figurativo, che mira a non privilegiare le imprese sottocapitalizzate.

Ha condiviso, quindi, i calcoli effettuati negli avvisi di accertamento nei quali, sul rilievo che la branch, che non disponeva del patrimonio di vigilanza (pari ad Euro 45.435.337, determinato in relazione all’entità delle linee di credito concesse a favore di Parmalat Spa) richiesto ad un soggetto indipendente, aveva trasferito alla “casa madre”, sotto forma di interessi passivi sui finanziamenti ricevuti da quest’ultima, il 71,18% dei profitti maturati sul “credito Parmalat”, trattenendo il residuo 28,82%, per il principio di correlazione tra costi e ricavi, ai fini della loro deducibilità fiscale, veniva imputato alla “SO” solo il 28,82% delle “perdite Parmalat”, ammontanti complessivamente, nel biennio 20032004, a Euro 18.174.135.

La CTR, infine, ha confermato la legittimità delle sanzioni amministrative per violazione delle norme tributarie, escludendo l’incertezza obiettiva di queste ultime.

6. HSBC BANK PLC ricorre per la cassazione di questa sentenza, sulla base di dieci motivi, illustrati con una memoria ex art. 378 c.p.c., ai quali l’Agenzia resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, la ricorrente censura la decisione impugnata per avere affermato contra legem la legittimità dell’avviso di accertamento 2003, pacificamente notificato dall’Agenzia senza il rispetto del termine dilatorio di 60 giorni, in ragione dell’urgenza per i “ristrettissimi tempi” rimasti “prima della decadenza dell’azione accertatrice”.

2. Con il secondo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “Violazione dei limiti oggettivi del giudizio tributario per come tracciati dalla giurisprudenza di codesta (…) Corte”, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere disatteso la doglianza della società circa l’indebito ampliamento del thema decidendum, nel corso del giudizio, in quanto l’ufficio, mentre negli atti impositivi aveva fatto valere la violazione dell’art. 7 Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, dell’art. 23 T.U.I.R., in fase contenziosa, invece, aveva dedotto un presunto difetto d’inerenza delle perdite su crediti, ai sensi dell’art. 109 T.U.I.R., comma 5, e, infine, nel giudizio d’appello, aveva richiamato genericamente l’art. 110 T.U.I.R..

3. Con il terzo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 109 T.U.I.R., comma 5, “e segnatamente del principio di inerenza dallo stesso affermato”, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che la parziale indeducibilità degli interessi passivi e delle perdite su crediti trovasse la propria ratio nella violazione del principio d’inerenza dei costi, laddove, invece, tanto gli interessi passivi maturati dalla “SO” nei confronti della “casa madre”, quanto, a maggior ragione, le “perdite Parmalat” erano senz’altro inerenti perchè contraddistinti da un vincolo causale con l’attività (bancaria), produttiva di proventi imponibili (gli interessi attivi), nella misura in cui gli stessi avevano concorso, nelle annualità precedenti, a determinare la base imponibile.

4. Con il quarto motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (un’ulteriore) violazione dell’art. 109 T.U.I.R., comma 5 “e segnatamente del principio di inerenza dallo stesso affermato con riguardo all’affermata parziale indeducibilità degli interessi passivi dovuti da HSBC Milano a valere sui finanziamenti concessi dalla casa madre”, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che l’art. 109 T.U.I.R., comma 5, costituisse la base normativa della parziale indeducibilità dei detti interessi passivi, laddove, come si evince dal suo tenore testuale, lo stesso articolo esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione gli interessi passivi, per i quali il criterio dell’inerenza è soggetto ad una disciplina particolare, dettata dall’art. 96 T.U.I.R., vigente ratione temporis.

5. Con il quinto motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 110 T.U.I.R., comma 7, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che su tale norma poggiasse la parziale indeducibilità degli interessi passivi e delle “perdite Parmalat”, trascurando che essa si limita a precisare che il corrispettivo delle operazioni infragruppo intrattenute da un’impresa residente con soggetti esteri deve essere coerente con il “valore normale” delle medesime operazioni, e non è correlata nè ad una funzione di contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese residenti, nè, a maggior ragione, ad una qualche forma di tutela del principio di libera concorrenza.

6. Con il sesto motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (un’ulteriore) violazione e falsa applicazione dell’art. 110 T.U.I.R., comma 7, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che tale norma costituisse la ratio della parziale indeducibilità delle “perdite Parmalat”, omettendo di considerare che: per un verso, quest’ultima società era un soggetto d’imposta fiscalmente residente in Italia, così come la “SO” milanese, mentre l’art. 110 T.U.I.R., comma 7, rinvia, in modo esplicito, a transazioni intercompany con imprese estere; per altro verso, tra le due società non esisteva la necessaria correlazione, qualificabile in termini di controllo, enunciata dallo stesso articolo.

7. Con il settimo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “Omessa, carente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. L’apodittica affermazione della correttezza del metodo di determinazione del fondo di dotazione “figurativo” ai fini fiscali adottato dall’Agenzia delle entrate.”, la ricorrente censura la sentenza impugnata in quanto, sebbene la determinazione del fondo di dotazione figurativo, nel nostro ordinamento, non sia disciplinata da alcuna norma tributaria, non ha esposto le ragioni della ravvisata legittimità del metodo adottato dall’Amministrazione finanziaria per la sua quantificazione.

8. Con l’ottavo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “Omessa, carente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. Le incerte ragioni sottese al disconoscimento (parziale) dell’inerenza degli interessi passivi e delle perdite su crediti.”, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ricondotto la base normativa della parziale indeducibilità degli interessi passivi e delle perdite su crediti alla concorrente violazione dell’art. 109 T.U.I.R., comma 5, dell’art. 110T.U.I.R., comma 7, trascurando che le due norme hanno ambiti applicativi reciprocamente incompatibili ed alternativi, sicchè la congiunta menzione di entrambe le disposizioni è un chiaro indice dell’incertezza dello sviluppo argomentativo della decisione della CTR.

9. Con il nono motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “Omessa, carente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. L’apodittica affermazione della correttezza delle prospettazioni accertative dell’Agenzia delle entrate.”, la ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere indicato, neppure sommariamente, le ragioni per le quali aveva condiviso i calcoli numerici compiuti dall’Agenzia, negando, invece, ogni validità alla tesi della contribuente che avrebbero potuto condurre a risultati assai diversi e ad essa più favorevoli.

10. Con il decimo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere escluso, con riferimento all’applicazione delle sanzioni amministrative, che la fattispecie concreta fosse contraddistinta da profili obiettivi d’incertezza, senza considerare che, in realtà, la vicenda tributaria non era suscettibile di un preciso inquadramento normativo, essendo incerte persino le disposizioni di legge da cui desumere i principi atti a regolarla.

11. Il primo motivo è fondato.

Posto che l’avviso 2003″ è stato notificato il 19/12/2008, prima del decorso del termine dilatorio di sessanta giorni dalla consegna del PVC alla società verificata, avvenuta in data 31/10/2008, costituisce ius receptum che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, comporta l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, ad eccezione dei casi di “particolare e motivata urgenza” (Cass. sez. un. 29/07/2013, n. 18184; in senso conforme: 30/10/2018, n. 27623; 1/10/2018, n. 23700; 1/10/2018, n. 23701; n. 21815/2018; n. 8749/2018; n. 5149/2016).

Questa Corte (Cass. 10/04/2018, n. 8749, cit.), ha avuto modo di precisare che: “In materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la scadenza del termine di decadenza dell’azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell’inosservanza del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha annullato la decisione impugnata che aveva ravvisato detta ragione di urgenza, per l’imminente scadenza del termine per l’esercizio del potere impositivo, nell’irreperibilità del contribuente, stante il generale principio di scissione soggettiva nel perfezionamento delle notifiche).” (conf.: Cass. 5149/2016; 9424/2014).

Nel caso concreto, la CTR non ha fatto corretta applicazione dei precedenti principi di diritto ed ha erroneamente escluso il vizio dell’atto impositivo, notificato senza il rispetto del termine dilatorio ex art. 12, citato comma 7, sul rilievo dell’urgenza del provvedere (indicata nell’avviso) derivante dai ristrettissi termini rimasti prima della decadenza dell’azione accertatrice.

11.1. L’accoglimento di questa censura comporta che, con esclusivo riferimento al ricorso per cassazione avverso l’avviso 2003″, rimangono assorbiti gli altri nove motivi, che verranno esaminati unicamente in relazione all’avviso 2004″.

12. Il secondo motivo – che, per quanto si è appena stabilito (cfr. p. 11.1.), così come i seguenti mezzi d’impugnazione, è esaminato esclusivamente in relazione all’avviso 2004″ – è inammissibile per due diverse e concorrenti ordini di ragioni.

In primo luogo, la doglianza in esso contenuta non soddisfa il requisito dell’autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto l’omessa riproduzione, in seno al ricorso per cassazione, dell’avviso, non permette alla Corte di vagliare su quali basi normative poggiasse l’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria.

In secondo luogo, posto che la censura non fa riferimento alla violazione di alcuna specifica disposizione di legge, ma allude genericamente alla “violazione dei limiti oggettivi del giudizio tributario”, come delineati dalla giurisprudenza di legittimità, occorre dare continuità all’indirizzo della Corte (Cass. 20/09/2017, n. 21819), per il quale il motivo del ricorso per cassazione è inammissibile se, a causa dell’omessa indicazione delle norme di legge che si assumono violate (la cui presenza non costituisce un requisito autonomo e imprescindibile del ricorso, ma è funzionale a chiarirne il contenuto e a identificare i limiti della censura), gli argomenti addotti a sostegno della doglianza non consentono di individuare le norme e i principi di diritto asseritamente trasgrediti, precludendo la delimitazione delle questioni sollevate.

Nella specie, il mero richiamo, contenuto in ricorso, ai limiti oggettivi del giudizio tributario, preclude alla Corte di individuare, senza sostituirsi inammissibilmente alla parte interessata, quale censura sia fatta valere e quale sia l’esatto perimetro delle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità.

13. Il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e l’ottavo motivo, da esaminare congiuntamente per connessione, sono infondati.

La CTR condivide l’assunto dell’ufficio secondo cui la “SO”, sul piano fiscale, è un’entità distinta ed autonoma rispetto alla “casa madre”, i cui redditi, prodotti nel territorio dello Stato, sono assoggettati ad imposta ai sensi dell’art. 23 T.U.I.R., comma 1, lett. e.

Ricorda che, ai sensi dell’art. 7, par. 2, Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con L. n. 329 del 1990), “quando un’impresa di uno Stato contraente svolge la sua attività nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato contraente vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di una impresa distinta e separata svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe e in piena indipendenza dall’impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione.”.

Rimarca che il Commentario OCSE (p. 18.3), in merito al detto art. 7, ha chiarito che la stabile organizzazione deve essere dotata “di una struttura patrimoniale appropriata sia per l’impresa, sia per le funzioni che esercita. Per tali ragioni, il divieto di dedurre le spese connesse ai finanziamenti interni – ossia quelli che costituiscono mere attribuzione di risorse proprie della casa madre – dovrebbe continuare ad applicarsi in via generale.”.

Così delineata la cornice normativa di riferimento, ne trae la conseguenza che la Convenzione ha esteso alla branch il principio di libera concorrenza e, ancora, sull’incontestata premessa che, negli anni di riferimento (2003-2004), quest’ultima aveva svolto la propria attività bancaria, in Italia, senza disporre del fondo di dotazione prescritto da Bankitalia per le banche residenti nello Stato, aderisce all’operato dell’Amministrazione finanziaria che, da un lato, a fini fiscali, ha individuato un “fondo figurativo” imputabile alla “SO”, e, dall’altro, ha ritenuto deducibili solo gli interessi passivi maturati su un ammontare eccedente il capitale figurativo e, ancora, solo le “perdite Parmalat” nella misura corrispondente al profitto dichiarato dalla “SO” in Italia, escludendo, invece, la quota parte di perdite riferibile alla “casa madre”.

In conclusione, la Commissione regionale ritiene che l’accertamento dell’Amministrazione finanziaria poggiasse su due solide regole di diritto, quali la correlazione tra costi e ricavi (ex art. 109 T.U.I.R.) e il principio di libera concorrenza (art. 110 T.U.I.R., comma 7).

A giudizio di questa Corte di legittimità, a differenza di ciò che assume la banca britannica, il processo decisionale seguito dalla CTR non collide con alcuno dei canoni giuridici che la Commissione ha correttamente enunciato; difatti, nel rispetto delle disposizioni convenzionali tra Italia e Regno Unito e del principio della libera concorrenza, i criteri di determinazione dei redditi imponibili delle “SO” debbono essere omogenei rispetto a quelli che valgono per le imprese residenti nello Stato.

Ai fini della determinazione del reddito imputabile di una “SO”, occorre che questa abbia una struttura patrimoniale appropriata in relazione all’attività svolta, al pari di un’impresa autonoma e indipendente che svolge attività analoghe, nelle medesime condizioni.

In presenza di una branch bancaria sottocapitalizzata, la deducibilità dei componenti negativi (compresi gli interessi passivi, per i quali l’art. 96 T.U.I.R., reca una disciplina speciale), secondo i criteri dettati dall’art. 109 T.U.I.R., impone di adottare dei correttivi che, nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria ha individuato in un “fondo di dotazione figurativo”, con riferimento al quantum degli interessi passivi deducibili, e nell’esistenza (anch’essa figurative ed ipotetica) di un patrimonio di vigilanza (parametrato all’ammontare delle linee di credito concesse), con riferimento al quantum delle “perdite Parmalat” imputabili, rispettivamente, alla “SO” e alla “casa madre”.

In particolare, diversamente da quanto prospetta la contribuente, il riferimento, da parte della CTR, in primo luogo, al Commentario OCSE, e, quindi, all’art. 109 T.U.I.R. e all’art. 110 T.U.I.R., comma 7 (a prescindere dall’imprecisione derivante dall’omessa menzione dell’art. 96 T.U.I.R., che reca una disciplina speciale per gli interessi passivi), è conforme a diritto.

Innanzitutto, questa Corte (Cass. 17/04/2019, n. 10706; 28/07/2006, n. 17206), ha affermato che il Commentario OCSE, pur non avendo valore normativo, costituisce, comunque, una raccomandazione diretta ai Paesi aderenti alla medesima organizzazione (Cass. 28/07/2006, n. 17206).

Dal secondo punto di vista (art. 109), è il caso di rammentare che, per consolidato orientamento della Corte (Cass. 30/05/2018, n. 13588), il principio d’inerenza del costo, ai fini della sua deducibilità, è stato ricondotto, sul piano normativo, al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.), art. 109, comma 5 (in precedenza, art. 75 T.U.I.R., comma 5,) che stabilisce che: “Le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.”.

Con l’unica, necessaria precisazione, irrilevante sul versante della verifica dell’eventuale violazione di legge, che il giudizio sull’inerenza del costo, più che evocare quella stretta correlazione tra costi e ricavi, alla quale allude la CTR, va rapportato all’oggetto sociale dell’impresa, nel senso che esso è deducibile se è funzionale alle singole attività sociali o, comunque, se apporta all’impresa un’utilità, obiettivamente determinabile e adeguatamente documentata.

L'”inerenza”, infatti, non integra un nesso tra costo e ricavo, ma si sostanzia nella correlazione tra costo e attività d’impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile.

Con riferimento all’art. 110 T.U.I.R., comma 7, infine, questa Corte ha affermato che: “In tema di reddito d’impresa, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, va inteso come attuativo del principio di libera concorrenza, esclusa ogni qualificazione dello stesso come norma antielusiva, sicchè la valutazione del valore normale delle operazioni poste in essere postula l’esame della loro sostanza economica, in una prospettiva di comparazione con analoghe operazioni effettuate tra imprese indipendenti e in libera concorrenza (…)” (Cass. 15/11/2017, n. 27018; conf.: 29/01/2019, n. 2387).

In altri termini, da questo punto di vista, è giuridicamente inappuntabile la pronuncia della CTR che, nel pieno rispetto dell’art. 7 Convenzione tra Italia e Regno Unito, del Commentario OCSE, dei criteri sulla deducibilità dei componenti negativi del reddito d’impresa e del principio di libera concorrenza, ha reputato legittima l’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria che – conformandosi al canone giuridico per il quale, in ogni Stato, vanno tassati gli utili che si ritiene che la “SO” avrebbe conseguito se avesse assunto la configurazione di un’impresa distinta, svolgente attività identica o analoga, in condizioni identiche o analoghe, e in piena indipendenza dalla “casa madre” – ai fini del calcolo del reddito imponibile, ha quantificato il capitale figurativo congruo della branch correlandolo agli indici di capitalizzazione delle banche italiane e all’entità dei finanziamenti erogati a Parmalat Spa.

Nel presente la materia è disciplinata dall’art. 152 T.U.I.R., in tema di “Reddito di società ed enti commerciali non residenti derivante da attività svolte nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione.” che, nell’attuale formulazione, è stato introdotto dal D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 7, comma 1, lett. b), che non ha efficacia retroattiva (e, perciò, non è applicabile al caso di specie) e che, al comma 2, prevede che: a) la “SO” si considera entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività, in condizioni identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati; b) il fondo di dotazione riferibile alla “SO” è determinato in piena conformità ai criteri definiti in sede OCSE, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati.

14. Il settimo e il nono motivo, da esaminare congiuntamente per connessione, sono parzialmente fondati, nei termini sotto precisati.

Occorre premettere che la ricorrente adduce il vizio della sviluppo motivazionale della sentenza impugnata perchè, per un verso, in assenza di una norma tributaria che disciplini il fondo di dotazione figurativo, si è reputato acriticamente corretto il metodo seguito dall’Amministrazione per quantificarlo; per altro verso, sono stati condivisi i calcoli compiuti dall’Agenzia, senza spiegare le ragioni per le quali è stata ritenuta valida la tesi erariale e, per converso, è stata disattesa l’impostazione difensiva della contribuente, che avrebbe potuto condurre ad un risultato a quest’ultima più favorevole.

Osserva la Corte che, in effetti, fermo restando quanto asserito dal giudice d’appello sul criterio di determinazione del capitale figurativo (cfr. p. 13), tuttavia, la trama argomentativa della sentenza è estremamente vaga e carente in quanto la CTR non spiega i motivi che l’hanno indotta a condividere il calcolo concreto del capitale figurativo effettuato dall’Amministrazione finanziaria, poggiante, come si è detto, sui medesimi parametri (indici di capitalizzazione) richiesti da Bankitalia agli istituti di credito residenti nel territorio dello Stato, anche in relazione ai finanziamenti Parmalat.

15. Il decimo motivo è assorbito per effetto dell’accoglimento dei motivi precedenti.

16. Alla stregua di queste considerazioni, con riferimento all'”avviso 2003″, accolto il primo motivo del ricorso e assorbiti tutti gli altri; con riferimento all'”avviso 2004″, accolti il settimo e il nono motivo, rigettati il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e l’ottavo motivo, dichiarato inammissibile il secondo motivo e assorbito il decimo motivo, la sentenza è cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, alla quale è demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

la Corte accoglie, in relazione all'”avviso 2003″, il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti gli altri motivi; accoglie, in relazione all'”avviso 2004″, il settimo e il nono motivo, rigetta il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e l’ottavo motivo, dichiara inammissibile il secondo motivo e assorbito il decimo motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2019

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