Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23341 del 19/09/2019

Cassazione civile sez. III, 19/09/2019, (ud. 05/07/2019, dep. 19/09/2019), n.23341

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1493-2018 proposto da:

M.C.M., M.M., elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo studio dell’avvocato

PIERO FRATTARELLI, rappresentati e difesi dagli avvocati LUCA

CROTTI, FRANCESCO PAOLO LUISO;

– ricorrenti –

contro

S.B. GESTIONE IMMOBILIARE SRL, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO SILVANI

N. 113, presso lo studio dell’avvocato ROSSELLA GRAZZINI,

rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE DONADINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3009/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 24/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

05/07/2019 dal Consigliere Dott. FIECCONI Francesca.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato l’8 gennaio 2018 M.M. e M.C. ricorrono per la cassazione della sentenza n. 3009/2017, depositata il 24/07/2017 dalla Corte d’appello di Milano, concernente il punto della condanna al risarcimento di Euro 2000,00 per lite temeraria ex art. 96 col, c.p.c., disposta in relazione a una controversia instaurata dai ricorrenti nei confronti della società S.B.GESTIONE IMMOBILIARE s.r.l. per ottenere in restituzione una caparra confirmatoria di una locazione immobiliare, pari a Euro 1350,00, versata il 26/04/2011 mediante assegno sottoscritto senza indicazione del beneficiario e consegnato a un agente immobiliare nell’interesse del proprietario, risultato diverso da quello convenuto in giudizio. Il ricorso è affidato a un motivo variamente articolato e la società convenuta ha resistito con controricorso notificato.

2. I ricorrenti hanno convenuto in giudizio la società qui intimata per ottenere la restituzione della caparra versata per l’affitto dell’immobile; il Tribunale di Varese adito rilevava che la società convenuta era carente di legittimazione passiva, in quanto avente causa dalla società proprietaria nell’interesse della quale il mediatore immobiliare aveva agito e ricevuto l’assegno emesso senza indicazione del beneficiario, poi incassato dalla società che al tempo risultava proprietaria dell’immobile. In ragione della rilevata carenza di legittimazione della società convenuta, e constatato il rifiuto dei ricorrenti a conciliare la lite sia nella fase di mediazione cui erano stati avviati obbligatoriamente che in sede giudiziale, il giudice, nel rigettare la domanda, accoglieva la domanda della convenuta di condanna dei ricorrenti per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., comma 1, e per tale motivo la sentenza veniva appellata dai ricorrenti innanzi alla Corte d’appello di Milano. Il giudice di seconda istanza rigettava l’appello, confermando la sentenza per la parte impugnata relativa alla condanna ex art. 96 c.p.c., comma 1, sull’assunto che la parte attrice avrebbe dovuto verificare il soggetto che aveva posto all’incasso l’assegno consegnato al mediatore e che fosse onere della parte che agisce verificare il soggetto titolare dell’immobile all’epoca della consegna della caparra confirmatoria; respingeva anche la lamentela relativa alla quantificazione del danno, giudicando equo l’importo liquidato di Euro 1000,00 all’anno, parametrato alla durata del processo.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 i ricorrenti deducono violazione o falsa applicazione degli artt. 2056 e 1227 c.c., per non avere la Corte considerato il comportamento silente tenuto dalla controparte prima del giudizio nonostante la ricezione formale ante litem della richiesta restitutoria, per poi costituirsi e chiedere ex professo la condanna per lite temeraria; la mancata osservanza dei principi espressi negli artt. 2 e 47 Cost. in relazione ai doveri di solidarietà sociale in ragione del comportamento tenuto nella fase stragiudiziale dalla convenuta; nonchè la violazione dell’art. 96 c.p.c., comma 1, che, avendo natura di illecito aquiliano, non ammette una condanna per lite temeraria in assenza di prova dell’an e del quantum debeatur.

2. Il motivo è inammissibile e infondato per quanto di seguito indicato.

3. L’art. 96 c.p.c., comma 1, che disciplina la lite temeraria prevede una fattispecie risarcitoria con funzione compensativa del danno cagionato dal cd. illecito processuale, derivante dalla proposizione di una lite temeraria. Esso presuppone non solo la soccombenza nel grado di giudizio in cui è disposta, ma qualifica una species di illecito civile riconducibile al genus della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (così Cass. n. 9080 del 15/04/2013). Condizione per il riconoscimento dei danni ai sensi dell’art. 96, comma 1 – a differenza di quanto previsto per la condanna disciplinata dal comma 3, introdotto dalla L. n. 49 del 2009, art. 45, comma 12 – è l’istanza della parte, che deve altresì assolvere all’onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. Sez. U., Ord. n. 7583 del 20/04/2004, Sez.U., Ord., n. 1140 del 19/01/2007).

4. Sotto il profilo del dedotto vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 il motivo è inammissibile, trattandosi di deduzione in violazione dell’art. 348 ter c.p.c. (doppia sentenza conforme). Osserva la Corte che tali motivi sono stati dedotti in riferimento a una sentenza che, nel rigettare l’appello, ha condiviso le valutazioni in fatto e in diritto esposte dal tribunale, senza aggiungere elementi fattuali di rilievo che sarebbe stato onere dei ricorrenti indicare. Trattandosi di un appello introdotto con citazione notificata il 4 luglio 2014, al caso specifico deve essere applicata la norma di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), e pertanto il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016), sicchè il sindacato di legittimità del provvedimento impugnato è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 26097 del 11/12/2014).

5. Sotto il profilo della violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3 della norma di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1, il motivo è infondato.

6. La Corte di merito ha motivato le ragioni della condanna per lite temeraria dando rilievo alla condotta processuale negligente tenuta dai ricorrenti non solo nell’intentare, ma soprattutto nel persistere, in una controversia senza avere previamente accertato se la parte processuale convenuta in giudizio corrispondeva a quella che aveva incassato l’assegno e risultava proprietaria al tempo della consegna della caparra al mediatore, giudicando equo l’importo risarcitorio liquidato dal giudice in relazione alla durata del procedimento.

7. L’art. 96 c.p.c., comma 1, consente di colpire condotte che, nel quadro di applicazione art. 2043 c.c., comporterebbero responsabilità risarcitoria. Dunque il requisito dell’ingiustizia, nel bilanciamento degli interessi in gioco, sussiste quando l’agire del danneggiante sia caratterizzato dal requisito di temerarietà della lite, ravvisabile nella coscienza dell’infondatezza o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza, e non solo nella semplice prospettazione di tesi giuridiche errate (v. Cass. n. 15629/2010). Il danno da responsabilità aggravata per lite temeraria è costituito infatti dal pregiudizio strettamente determinato dal processo, e non dall’ipotetica lesione del diritto di cui nel processo di cui si controverte, in cui è dunque ricompreso quello da violazione del termine di ragionevole durata del processo per una lite che si sarebbe potuta facilmente evitare, ove imputabile alla parte stessa (Sez. 1, Sentenza n. 24359 del 15/11/2006; Cass. 24360/2006; 23322/2005).

8. Il comportamento silente tenuto dalla controparte non legittimata passivamente prima della lite non ha alcun peso nella valutazione comparativa dei comportamenti assunti dalle parti processuali, poichè la parte attrice è il soggetto precipuamente tenuto a verificare il titolare passivo della pretesa prima di intraprendere la lite e, comunque, non appena viene eccepita processualmente la carenza di legittimazione. Com’è noto, la legitimatio ad causam si ricollega al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data – la verifica, anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo (con il solo limite della formazione del giudicato interno sulla questione) e, in via preliminare al merito, della coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (Cass. Sez. U., 13/03/2018 n. 7925/2019; Cass., Sez. U, 9 febbraio 2012, n. 1912). Pertanto il giudice ha tratto argomenti presuntivi della responsabilità dal comportamento processuale tenuto dagli attori che hanno non solo inutilmente intrapreso, ma consapevolmente continuato, una lite nonostante il rilievo della carenza di legittimazione effettuato prontamente dalla parte convenuta in sede processuale.

9. Anche sotto il profilo del rispetto degli obblighi di buona fede e di solidarietà non assume rilievo il comportamento silente tenuto dalla parte convenuta che ha ricevuto la richiesta restitutoria prima della lite poichè, come sopra detto, in ragione del comportamento silente di una parte non legittimata passivamente i ricorrenti avrebbero dovuto a maggior ragione attivarsi per verificare se vi fossero le condizioni per agire nei suoi confronti.

10. Sotto il profilo della applicazione delle regole probatorie in materia di illecito aquiliano, infine, non risulta che i giudici di merito siano incorsi nelle violazioni riferite, posto che la temerarietà della lite è stata ravvisata nella coscienza dell’infondatezza o nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta coscienza, e dunque con valutazioni di merito adeguate alla fattispecie in esame, anche con riferimento al quantum debeatur che è stato correttamente misurato in relazione alla durata della lite.

11. Conclusivamente il ricorso è infondato.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna la società resistente alle spese, liquidate in Euro 1.200,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 5 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2019

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