Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23336 del 19/09/2019

Cassazione civile sez. III, 19/09/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 19/09/2019), n.23336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29170-2017 proposto da:

S.M., IMMOBILIARE MAURIZIA SRL in persona

dell’Amministratore Unico S.A., S.A.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE SANTO 16, presso lo

studio dell’avvocato CARMINE LOMBARDO, rappresentati e difesi

dall’avvocato MICHELE MASSELLA;

– ricorrenti –

contro

ICCREA BANCAIMPRESA SPA, già BANCA AGRILEASING SPA, nella sua

qualità di mandataria, che agisce in persona del Procuratore

Speciale Dott. F.A., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CARLO POMA 4, presso lo studio dell’avvocato MARCO BALIVA, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIA BALIVA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5481/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 24/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/05/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato MICHELE MASSELLA;

udito l’Avvocato MARCO BALIVA.

Fatto

SVOLGIMENTO IN FATTO

1. Con ricorso notificato il 5 dicembre 2017 la Immobiliare Maurizia S.r.l., unitamente ad A. e S.M., suoi fideiussori, impugnano la sentenza numero 2481-2017 della Corte d’appello di Roma, pubblicata il 24 – agosto 2017, laddove ha rigettato l’appello proposto dai ricorrenti condannandoli alle spese in favore dell’appellata Banca Agri Leasing S.p.A., ora I. C. C. R. E. A. Bancalmpresa S.p.A.. Il ricorso è affidato a 5 motivi. La parte intimata ha notificato controricorso nei termini indicati in epigrafe e successive note difensive. Il pubblico ministero ha concluso come in atti.

2. Il giudizio di primo grado è stato avviato nel 2008 dalla banca qui resistente, per ottenere l’accertamento della risoluzione di diritto del contratto di locazione finanziaria, sottoscritto tra le parti relativamente a un investimento immobiliare, per inadempimento della società utilizzatrice qui ricorrente dopo il pagamento della sola prima rata, con condanna dei convenuti al pagamento in via tra loro solidale della somma di Euro 140.522,51, corrispondente ai canoni maturati fino alla data della risoluzione, oltre interessi di mora al tasso convenzionale, calcolati dalla scadenza dei canoni al soddisfo, e all’indennità di occupazione stipulata per ritardata restituzione dell’immobile, ex art. 1591 c.c., pari a Euro 20.000 mensili o in subordine ex art. 2041 c.c. dalla data di risoluzione di diritto all’effettivo rilascio. Nel giudizio di primo grado i convenuti qui ricorrenti si sono costituiti chiedendo il rigetto delle domande o in subordine la condanna tenendo conto del maggior valore dell’immobile per cui è causa, e ciò anche in relazione alle opere edilizie eseguite in base a un mandato senza rappresentanza convenuto con la banca ai fini di consentire all’impresa utilizzatrice la costruzione di un capannone, in tesi non interamente pagate dalla banca. La causa veniva portata in decisione dopo che il giudice aveva respinto le richieste istruttorie dei convenuti, e in particolare una CTU perchè ritenuta esplorativa; in sede di comparsa conclusionale i convenuti, mediante nuovo difensore, formulavano osservazioni riguardo all’inquadramento giuridico del contratto di leasing, da ritenersi quale leasing traslativo anzichè finanziario, cui applicare la differente disciplina di cui all’art. 1526 c.c., ex officio dal Tribunale, e ciò al fine di verificare la validità del contratto, nonchè l’ammissibilità delle domande effettuate da parte attrice. Con sentenza del 7 aprile 2012 il Tribunale di Roma rigettava le eccezioni dei convenuti, ritenendole inammissibili perchè tardive, e dichiarava l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto; per l’effetto, condannava le parti al rilascio del compendio immobiliare oggetto del contratto e al pagamento delle rate scadute, rimaste impagate fino alla data della intimata risoluzione, oltre interessi al tasso contrattualmente convenuto, nonchè al pagamento di Euro 20.000 mensili dalla data di risoluzione del contratto sino al mese di giugno 2009 quale indennità di occupazione dell’immobile costruito sull’area acquisita dalla banca concessa in leasing; il tutto oltre le spese di giudizio.

3. La sentenza veniva impugnata dai convenuti per la parte in cui è era stata considerata inammissibile l’applicabilità dell’art. 1526 c.c., e per la parte in cui non era stata rilevata la nullità della clausola contrattuale che imponeva la restituzione del bene e delle rate insolute e a scadere in caso di risoluzione; quale secondo motivo veniva censurato il rigetto dell’istanza di CTU per la valutazione dell’immobile oggetto del contratto di leasing, attesa la prospettata sproporzione tra il vantaggio economico della banca in caso di rilascio dell’immobile e il capitale finanziato con leasing; infine gli appellanti fideiussori lamentavano la nullità della fideiussione per violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 107 e 108 (TUB), in relazione al punto in cui la banca risultava avere facoltà di modifica unilaterale del contenuto del contratto di leasing relativamente ai tassi di interessi moratori, accessori, penale contrattuale ed oneri fiscali cui i garanti erano vincolati.

4. La sentenza di secondo grado confermava la sentenza, in particolare ritenendo corretto il giudizio di inammissibilità della censura in ordine all’invocata riconduzione del contratto sotto la fattispecie del contratto di leasing traslativo, con conseguente richiesta di applicazione dell’art. 1526 c.c., ritenendo che il diverso inquadramento propugnato tardivamente tendeva a introdurre nuovi argomenti non trattati e una nuova domanda riconvenzionale dalla proposizione della quale le parti risultavano decadute, poichè l’applicazione dell’art. 1526 c.c. determina il diritto alla restituzione di quanto pagato per rate di prezzo al netto dell’equo compenso e del risarcimento del danno, e quindi implica una domanda restitutoria formulata tardivamente e, in quanto tale, inammissibile; in ordine al secondo motivo di appello, relativo alla mancata ammissione di una CTU al fine di valutare il valore delle opere costruite dai convenuti in base a un mandato senza rappresentanza, rilasciato ai convenuti da parte della banca concedente, la Corte territoriale confermava il provvedimento di rigetto, anche con riguardo alla richiesta di esibizione di documenti ex art. 210 c.p.c. (riguardante le somme effettivamente messe a disposizione della immobiliare Maurizia da parte della banca) sull’assunto che, da un lato, i documenti erano stati spontaneamente prodotti dalla banca stessa e che, dall’altro, la richiesta di esibizione non era supportata da sufficienti allegazioni da parte dell’istante, e pertanto appariva esplorativa, e ciò anche in relazione al fatto che la banca aveva invece dimostrato i numerosi rimborsi effettuati per la costruzione dell’opera e l’incondizionata accettazione dell’opera da parte della immobiliare al momento della consegna, cui era seguito il verbale di consegna del 29 ottobre 2007 (che segna il momento conclusivo del rapporto di mandato e quello di completamento delle opere); riguardo alla eccepita invalidità della fideiussione, in relazione alla quale le parti appellanti lamentavano che la sentenza di primo grado non si sarebbe pronunciata, la Corte territoriale, confermando la sentenza, rilevava che tali argomentazioni erano state prospettate per la prima volta dagli appellanti solo nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado e dunque erano inammissibili e tardive.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 i ricorrenti deducono violazione o falsa applicazione dell’art. 167, art. 183 c.p.c., comma 5, in relazione alla ritenuta formulazione di domande nuove e quindi inammissibili in sede di giudizio di 10 grado con riguardo alla richiesta di diversa qualificazione giuridica del contratto di leasing prospettato in sede di comparsa conclusionale e replica. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano ex art. 360 c.p.c., nn. 3 – 5 violazione degli artt. 1362-1371 c.c. per omessa interpretazione del contratto e della volontà delle parti e omesso inquadramento giuridico della fattispecie, in quanto nessuna parola è stata spesa dalla Corte d’appello in merito alla qualificazione del contratto che, laddove si tratti di leasing traslativo, richiede l’applicazione della normativa di cui all’art. 1526 c.c.. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano falsa applicazione dell’art. 1458 c.c.; violazione dell’art. 1526 c.c., e omessa valutazione circa l’inquadramento giuridico della fattispecie, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deducendo che, in via residuale, la stessa interpretazione corretta avrebbe dovuto desumersi con riferimento ai criteri di interpretazione funzionale, e quindi tenendo conto della finalità perseguita dalle parti, che era di salvaguardare la parte acquirente a vedere applicato l’art. 1526 c.c. in materia di risoluzione della vendita con riserva di proprietà, trattandosi di un leasing traslativo ove prevale l’interesse dell’utilizzatore all’acquisto della proprietà del bene alla scadenza del contratto, e non quello di disporre e di impiegare il bene fino al termine del contratto, come avviene per i beni fungibili e a veloce obsolescenza.

1.1. I primi tre motivi vanno trattati congiuntamente in quanto tra loro collegati.

1.2. Il primo motivo è inammissibile poichè non si confronta con una delle due ragioni di rigetto della pretesa.

1.3. La Corte ha rigettato il motivo di impugnazione ritenendo che la qualificazione del contratto prospettata tardivamente dai convenuti in realtà tendeva a introdurre – in sede di comparsa conclusionale – argomenti fattuali e domande riconvenzionali mai avanzate nel giudizio di primo grado, in ciò confermando la pronuncia di primo grado circa l’inammissibilità di una nuova deduzione che, non presuppone solamente la risoluzione e l’obbligo di rilascio del bene, ma anche il diritto alla restituzione di quanto pagato in eccesso per rate di prezzo al netto dell’equo compenso per la detenzione e del risarcimento del danno; in ogni caso ha ritenuto che nel caso concreto la questione non si pone poichè l’utilizzatore ha versato solo una rata dei canoni scaduti e, una volta intimata la restituzione del bene, è stato richiesto il pagamento di quanto maturato per rate scadute sino alla data dell’intimata risoluzione di diritto, non potendosi ammettere che la sussunzione del rapporto contrattuale in altra fattispecie comporti una nuova domanda restitutoria.

1.4. Corrisponde a un principio consolidato che le domande delle parti vadano individuate non secondo il solo esame delle conclusioni, ma secondo tutta la materia del contendere. Una determinata conclusione, se non ha altro intento che quello di opporre una controdifesa alle difese del convenuto, e non ha in sè la richiesta di attribuzione di un bene della vita (o, comunque, del conseguimento di un determinato effetto utile) diverso da quello inizialmente richiesto con la domanda introduttiva, ma appare come mezzo per il conseguimento del bene inizialmente richiesto, non assume il carattere di domanda, bensì di semplice eccezione (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 700 del 14/03/1974). L’interpretazione della pretesa spetta al giudice del merito, il quale deve accertarne la portata sulla base sia della sua formulazione letterale sia, come sopra detto, del suo contenuto sostanziale, in relazione alle finalità perseguite dalla parte ed al provvedimento richiesto in concreto, desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio. Entro tale ambito, il giudice del merito ha il potere – dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un “nomen juris”, anche diverso da quello indicato dalle parti, purchè non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio tra le parti (v.a Sez. 2, Sentenza n. 5005 del 14/10/1985 (Rv. 442349 – 01); Sez. 2, Sentenza n. 23215 del 17/11/2010). Il sindacato sull’operazione interpretativa anzidetta è quindi consentito alla Corte di Cassazione nei limiti istituzionali del controllo di legittimità.

1.5. La giurisprudenza in materia di leasing ha più volte affermato che l’applicazione in via analogica della disciplina dettata in tema di risoluzione per inadempimento del contratto ex art. 1526 c.c. opera in riferimento al leasing traslativo, e che una volta che il rapporto contrattuale sia stato in tal senso qualificato essa è inderogabile, comportando in linea generale, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni corrisposti salvo il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, tale da remunerare il solo godimento e non ricomprendervi anche la quota destinata al trasferimento finale di essi, oltre al risarcimento dei danni (in tale senso, v. Cass., sez. 3, ordinanza n, 18326/2018, non massimata; Cass. Sez. 3 12/09/2014, n. 19272; Cass. Sez. 3 27/09/2011, n. 19732; Cass. Sez. 3 29/03/1996, n. 2909). In tale ambito, è stato quindi chiarito che le clausole che attribuiscono alla società concedente il diritto di recuperare, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, l’intero importo del finanziamento, e in più la proprietà e il possesso del bene, non possono attribuire alla società concedente vantaggi maggiori di quelli di cui essa avrebbe avuto diritto in caso di adempimento, potendosi pertanto configurare un assetto convenzionale manifestamente eccessivo rispetto all’interesse del creditore, valutabile entro la cornice dell’art. 1384 c.c.. In particolare, nel valutare se la “penale” sia manifestamente eccessiva, il controllo da parte del giudice consiste nel comparare il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente con il margine di guadagno che egli si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto; al fine di evitare che clausole nel contratto di leasing traslativo attribuiscano al concedente vantaggi eccessivi, sono state quindi indicate anche correzioni che consentono all’utilizzatore inadempiente una volta restituito l’intero importo del finanziamento – o il diritto di recuperare la proprietà e disponibilità del bene oggetto di leasing in termini prestabiliti e precisi, oppure il diritto di imputare il valore del bene alla somma dovuta in restituzione delle rate a scadere, ove così le parti abbiano convenzionalmente stabilito, sempre che le relative scelte siano concordate e non rimesse all’arbitrio dell’una o dell’altra di esse (Cass. 17/01/2014 n. 888; Cass. Sez. 3 13/01/2005, n. 574)

1.6. La stessa L. 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per la concorrenza e il mercato) al comma 136 ha disciplinato la materia de qua in maniera unitaria, considerando la funzione concreta del contratto di leasing, senza più ricorrere alle diverse categorie giurisprudenziali di cui sopra, ma in sostanza recependo l’elaborazione giurisprudenziale, sopra riferita, relativa al cd. leasing traslativo. Difatti nella legge si indica che “per locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario, iscritto nell’albo di cui al testo unico di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 106 si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto”. La normativa de qua precisa anche che “alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo. In base al comma 138, in caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore (ai sensi del comma 137), il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonchè le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente”.

1.7. Da tutto quanto sopra osservato deve concludersi, quindi, che al giudice sia dato in ogni caso il potere di ridurre in via equitativa l’indennità pattuita dalle parti per la risoluzione del contratto di leasing, al di là del nomen iuris del contratto di leasing indicato convenzionalmente, tenendo conto della causa concreta del contratto, della utilitas ricevuta dalla res e del risarcimento dovuto per l’inadempimento una volta intervenuta la risoluzione del contratto e la restituzione del bene.

1.8. Nell’ipotesi in esame la Corte di merito ha ritenuto, invece, che la diversa sussunzione del rapporto di leasing finanziario, così come convenuto, in altro tipo contrattuale corrispondente al leasing traslativo conduca a costruire una realtà giuridica e fattuale non dedotta e allegata inizialmente dalla parte convenuta, rivelandosi inammissibile, e tale affermazione, alla luce di quanto sopra detto, non è concettualmente corretta. Purtuttavia, risulta corretta la ulteriore deduzione della Corte di merito, ove ha sottolineato che la diversa sussunzione del rapporto contrattuale in altra fattispecie non avrebbe potuto comportare l’ingresso di una nuova domanda in via riconvenzionale, posto che l’interesse dei convenuti era di resistere alla pretesa dell’attore, limitata alla sola richiesta di pagamento dei canoni scaduti sino alla data di intimata risoluzione di diritto, alla restituzione del bene e al pagamento dell’indennizzo convenuto per l’utilizzo del capannone.

1.9. In effetti l’art. 1526 c.c., nei contratti di cd. leasing traslativo coinvolge l’indennizzo comprensivo dei canoni scaduti e a scadere una volta che il bene è stato rilasciato al concedente, mentre nel caso in esame il pagamento è stato preteso solo in relazione ai canoni scaduti previsti per l’immobile acquistato dalla concedente, concernenti solo una parte dell’investimento finanziato, oltre l’indennizzo per l’occupazione del capannone costruito sull’immobile a spese della concedente. Invero, non è possibile richiedere l’accertamento giudiziale di una diversa situazione giuridica, pretermessa o anche solo negata dal giudice, se non si prospetta l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non altrimenti conseguibile senza l’intervento del giudice. Il processo difatti non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti pregiudizievoli per la parte, ipotetici o futuri, non collegati alla pretesa in concreto fatta valere (Sez. 2,sentenza n. 2057 del 24/01/2019; Sez. L, Sentenza n. 6749 del 04/05/ 2012).

1.10. La censura, in definitiva, è inammissibile laddove non tiene conto della ragione equilibratrice per cui la giurisprudenza, e il legislatore da ultimo, in taluni casi di leasing finanziario concernente – definito appunto come traslativo ove non vi sia l’interesse della concedente ad ottenere la restituzione dell’immobile al termine del contratto, acquistato esclusivamente in funzione di garanzia della restituzione del finanziamento concesso all’utilizzatore ai fini dell’acquisto del bene nel suo interesse -, applica l’art. 1526 c.c. al fine di evitare un eccessivo arricchimento della parte venditrice che, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, ottenga in restituzione non solo il bene, ma anche l’intero finanziamento, con aggiunta degli interessi moratori e di penali.

1.11. Alla luce di quanto detto, deve correggersi la motivazione del giudice di merito ove ha ritenuto inammissibile la sussunzione del contratto entro la cornice del leasing traslativo; purtuttavia, la censura si rivela inammissibile laddove ha mancato di contrastare in maniera sufficiente la sentenza ove ha ritenuto che la diversa sussunzione implicherebbe una domanda restitutoria tardivamente formulata. Questo argomento deve invero essere parzialmente corretto poichè, in riferimento alla sussunzione del contratto sotto la fattispecie del contratto di leasing traslativo, è in realtà mancata la dimostrazione di un interesse concreto e attuale, ex art. 100 c.p.c., a far valere in tale sede processuale gli “effetti restitutori” dell’art. 1526 c.c., atteso che la richiesta di risarcimento era limitata alle rate di pagamento del leasing scadute e all’indennizzo di occupazione, calcolati sino alla data della intimata risoluzione del rapporto, e non aveva coinvolto le rate a scadere e altre forme di risarcimento, di cui la concedente non poteva chiedere tardivamente un accertamento negativo, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito.

1.12. I restanti motivi sono assorbiti da quanto sopra detto.

2. Con il 4^ motivo ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 i ricorrenti deducono violazione dell’art. 2697 c.c. in merito al rigetto della richiesta di consulenza tecnica sul valore delle opere svolte per costruire il capannone ritenuta esplorativa.

2.1. La censura è inammissibile sotto il profilo dell’art. 366 c.p.c., n. 4 poichè il motivo, non correlato alla motivazione resa, non considera concretamente le ragioni di rigetto della pretesa in relazione alla mancata allegazione probatoria circa i fatti su cui svolgere l’indagine peritale che la sorreggono, e da esse non può prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4. (Cass. SU n. 7074 del 2017).

3. Con il 5^ motivo ex art. 360 c.p.c., n. 3 i ricorrenti deducono violazione dell’art. 167 e dell’art. 183 c.p.c., laddove vengono ritenute tardive, e considerate come domande nuove, le osservazioni sollevate in sede di comparsa conclusionale e replica circa la nullità del contratto fideiussorio stipulato dai ricorrenti, in relazione alla facoltà lasciata alla banca di modificare unilateralmente l’oggetto del contratto principale garantito, in violazione degli artt. 117-118 TUB.

3.1. La censura è inammissibile sotto il profilo dell’art. 366 c.p.c., n. 4 poichè la lettura del motivo, non apparendo correlato alla motivazione, non considera concretamente le ragioni di rigetto della pretesa in relazione alla mancata tempestiva indicazione delle clausole contrattuali che avrebbero consentito alla banca di mutare unilateralmente l’oggetto del contratto principale garantito – in violazione degli artt. 117 e 118 Testo Unico Bancario -, determinando una nullità trasmessa al contratto accessorio di fideiussione. In riferimento al ricorso per Cassazione la deduzione di una censura in termini generici, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. SU n. 7074 del 2017).

4. Conclusivamente il ricorso è inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore della parte resistente.

P.Q.M.

La Corte,

dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti, in via tra loro solidale, alle spese, liquidate in Euro 12.000,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2019

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