Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23336 del 09/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 09/11/2011, (ud. 06/10/2011, dep. 09/11/2011), n.23336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’Avvocato GIAMMARIA PIERLUIGI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.L., T.A., B.R., domiciliate in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentate e difese dagli avvocati SCARTABELLI CARLO,

ROBERTA BECHI, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1273/2006 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 12/10/2006 R.G.N. 720/04 + altri;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/10/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega GIAMMARIA PIERLUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per il rigetto per T.,

B., inammissibilità per I..

Fatto

Con separati ricorsi al Tribunale, giudice del lavoro, di Pistoia, regolarmente notificati, I.L., B.R. e T. A., assunte dalla società Poste Italiane s.p.a. con contratti a tempo determinato, stipulati in differenti date a decorrere da luglio 1997, per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali ovvero per sostituzione di personale assente per ferie, rilevavano la illegittimità dell’apposizione del termine ai contratti in questione di talchè, essendo state le assunzioni illegittime, i contratti si erano convertiti in contratti a tempo indeterminato. Chiedevano pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto ai predetti rapporti di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione degli stessi in contratti a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.

Il Tribunale adito, con separate sentenze, in accoglimento delle domande, dichiarava la illegittimità della clausola di apposizione del termine ai contratti in questione.

Avverso tali sentenze proponeva appello la società Poste Italiane s.p.a. sostenendo la legittimità della apposizione del termine sulla base della contrattazione collettiva che, progressivamente, aveva dato atto dell’esistenza di un complesso procedimento di ristrutturazione in corso, ed escludendo che la validità della causale del termine in questione fosse stata assoggetta ad alcuna limitazione temporale da parte di accordi successivi a quello del 25.9.1997.

La Corte di Appello di Firenze, proceduto alla riunione delle cause, con sentenza depositata in data 12.10.2006, rigettava gli appelli proposti rilevando che i contratti in questione erano stati stipulati prima del giugno 1998, cioè nella piena vigenza contrattuale dell’art. 8 del CCNL 1994, di talchè sia la decisione impugnata (che si fondava sulla normativa successiva a tale data) che le censure dell’appellante apparivano decisamente non conferenti al thema decidendum; e rilevava altresì che la motivazione del Tribunale si basava sulla illegittimità dei contratti a termine per superamento della quota percentuale prevista dalla contrattazione autorizzatoria come limite del ricorso a tale forma contrattuale di lavoro subordinato, evidenziando che sul punto la società appellante non aveva svolto alcuna censura.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Poste Italiane s.p.a con tre motivi di impugnazione.

Resistono con controricorso le lavoratrici intimate.

La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (1362 c.c. e segg.) e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (con riferimento alla quota massima percentuale ed all’interpretazione dell’art. 8 CCNL 1994 e dell’art. 25 CCNL 2001, commi 3 e 4) – art. 360 c.p.c., n. 3.

In particolare rileva che la Corte territoriale aveva effettuato una interpretazione dei suddetti articoli assolutamente erronea e fuorviante in relazione al calcolo della percentuale dei lavoratori che potevano essere assunti a tempo determinato.

Col secondo motivo di ricorso lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.c. ed ai sensi degli artt. 421 e 437 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In particolare rileva che la Corte territoriale aveva rigettato l’appello della società sul non corretto presupposto che la mancata dimostrazione da parte della stessa del rispetto della normativa prevista dal CCNL applicato valesse a confermare il mancato rispetto della percentuale specifica nel caso specifico.

Col terzo motivo di ricorso la società lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto; nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4).

La ricorrente osserva che erroneamente la Corte territoriale aveva disatteso la richiesta della società di valutare l’aliunde perceptum, al fine di dedurre i ricavi conseguiti dalle lavoratrici e che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa, aggiungendo che la percezione da parte del lavoratore di altre somme dopo l’interruzione della funzionalità di fatto del rapporto non poteva che essere genericamente dedotta dalla società.

Posto ciò osserva innanzi tutto il Collegio che in corso di causa è stato depositato un verbale di conciliazione in sede sindacale in data 5.11.2008 fra la società ricorrente e la dipendente I. L. concernente la presente controversia, debitamente sottoscritto dalla lavoratrice interessata, oltre che dal rappresentante delle Poste Italiane s.p.a.; dal suddetto verbale di conciliazione risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge.

Il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso nei confronti della lavoratrice sopra indicata in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nei momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278).

In definitiva il ricorso nei confronti della I. deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse;

tenuto conto del contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti, si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le stesse le spese del giudizio di cassazione.

Per quel che riguarda la posizione delle altre due dipendenti, osserva invero il Collegio che i primi due motivi di ricorso sono inammissibili.

Ha rilevato invero la Corte territoriale, con riferimento alla questione relativa alla illegittimità del termine apposto ai contratti in parola per la mancata prova della osservanza del limite percentuale di assunzioni rispetto all’organico dei dipendenti stabili, che sul punto nessuna censura era stata svolta dalla società appellante in relazione alle statuizioni del primo giudice, di talchè tale questione non poteva essere ulteriormente esaminata dalla Corte di merito.

Avverso siffatta affermazione, concernente l’assenza di gravame sul punto, nessuna specifica censura è stata sollevata dalla società con il proposto ricorso per cassazione, avendo la ricorrente censurato l’impugnata sentenza sotto il profilo della non corretta interpretazione da parte della Corte d’appello della normativa in parola e della erronea affermazione circa la mancata dimostrazione del rispetto della percentuale prevista da tale normativa nella fattispecie concreta; per contro la società ricorrente avrebbe dovuto specificamente impugnare il capo della sentenza in cui la Corte territoriale aveva affermato la mancanza di gravame in relazione all’assunto del primo giudice circa l’illegittimità del termine per la mancata prova della osservanza del limite percentuale suddetto, allegando l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di appello e riportando nel ricorso il contenuto della specifico motivo di gravame.

Entrambi i motivi vanno pertanto dichiarati inammissibili stante, per come detto, la mancanza di censura in ordine alla ritenuta assenza di gravame sulla specifica questione.

E del pari inammissibile è il terzo motivo di ricorso.

Osserva il Collegio che, trattandosi di ricorso avverso una sentenza depositata il 12.10.2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”.

Nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis: Cass. SS.UU., 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360; Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che il nuovo requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ovvero nella richiesta di declaratoria di una astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità, ma è per contro indispensabile che il quesito di diritto, inteso quale punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio di diritto generale, sia esplicitamente riferito alla lite in oggetto, anche attraverso concreti riferimenti al caso specifico, di talchè sia individuabile il carattere risolutivo rispetto alla controversia concreta, altrimenti risolvendosi nella richiesta di una astratta affermazione di principio.

Siffatta ipotesi si è verificata nel caso di specie ove si osservi che la formulazione del quesito relativo al motivo suddetto si appalesa in buona parte estranea alle argomentazioni sviluppate e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato.

La evidente genericità del quesito rende inammissibile il motivo.

In definitiva il ricorso proposto nei confronti di B.R. e di T.A. va rigettato.

A tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento nei confronti delle predette delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di I. L. e compensa tra le parti le spese di giudizio; rigetta il ricorso nei confronti di B.R. e di T.A.; condanna la ricorrente alla rifusione nei confronti delle stesse delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2011

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