Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23332 del 24/08/2021

Cassazione civile sez. lav., 24/08/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 24/08/2021), n.23332

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5191-2019 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. B.

TIEPOLO, 4, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI SMARGIASSI,

rappresentata e difesa dagli avvocati VINCENZO VITAGLIANO, FRANCESCO

ANDRETTA;

– ricorrente –

contro

LA VILLA DELLE GINESTRE S.R.L., in persona del legale rappresentante

pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIOVANNI LIMATOLA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 6805/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 30/10/2018 R.G.N. 387/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2021 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCO ANDRETTA;

udito l’avvocato GIOVANNI LIMATOLA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 30 ottobre 2018, la Corte d’appello di Napoli ha respinto il reclamo avverso la decisione del Tribunale di Nola che, confermando quanto statuito nella fase sommaria, aveva disatteso le domande proposte da M.G. nei confronti della società a responsabilità limitata Villa delle Ginestre volte ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice nonché la reintegra e il risarcimento del danno.

1.1. Il giudice di secondo grado, condividendo l’iter argomentativo del primo giudice, ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare comminato e, segnatamente, costellate di riscontri logici e fattuali le numerose irregolarità ascritte alla reclamante, in quanto ampiamente dimostrate dalla documentazione allegata agli atti, nonché dalle dichiarazioni sommarie assunte nel corso delle indagini penali svolte sulle medesime vicende oggetto del giudizio.

1.2. La Corte quindi, considerata la natura dell’attività di direttrice amministrativa svolta e, pertanto, il ruolo apicale rivestito, ha reputato giustificata e proporzionata la sanzione estrema irrogata, alla luce delle gravi inadempienze, consistenti sostanzialmente, nel ripetuto ed abituale artificioso aumento delle somme riportate sui cedolini paga, con conseguente arbitrario accrescimento della retribuzione spettante alla M.; ha, quindi, escluso la configurabilità di un licenziamento ritorsivo, nonché la allegata tardività della contestazione.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.G., affidandolo a cinque motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, Villa delle Ginestre s.r.l.

2.2. La parte ricorrente ha presentato memorie ex art. 378 c.p.c.

3. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1322 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 41 del CCNL Sanità Privata AIOP personale non medico, del 23/11/2004, per aver la Corte considerato ordinatori i termini di avvio del procedimento disciplinare.

1.1. Con il secondo motivo, si allega ancora la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell’art. 41 CCNL Sanità Privata AIOP personale non medico, del 23/11/2004, per aver la Corte considerato tempestiva la contestazione disciplinare del (OMISSIS).

1.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7,L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 3 e 4, come modificati dalla L. n. 92 del 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver posto a fondamento della decisione fatti non oggetto di contestazione disciplinare.

1.4. Con il quarto motivo, si deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7,L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 3 e 4, come modificati dalla L. n. 92 del 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non aver considerato tutte le circostanze del caso concreto per affermare la proporzionalità tra l’inadempimento del lavoratore e la sanzione.

1.5. Con il quinto motivo, si allega la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver la Corte omesso l’esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, relativamente alla prova documentale delle effettive retribuzioni percepite, emergenti dagli estratti di conto corrente bancario della ricorrente rispetto alle risultanze dei cedolini paga, con conseguente omessa valutazione della concreta condotta tenuta dalla ricorrente circa la indisponibilità per la stessa degli strumenti per redigere i cedolini stessi, di esclusiva pertinenza del legale rappresentante dell’azienda.

2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati.

2.1. Giova premettere che, per costante giurisprudenza di legittimità, nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti siano molto laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (ex plurimis, Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 12193 del 2020).

Non contrasta con tale declinazione del principio di immediatezza quanto affermato dalla richiamata Cass. n. 12193 del 2020, nella quale si precisa, infatti, come evidenziato dalla stessa parte ricorrente nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c. che l’imprenditore è tenuto a portare a conoscenza del lavoratore fatti contestati non appena gli stessi gli appaiono “ragionevolmente sussistenti”, e si aggiunge, richiamando la giurisprudenza anteatta, che nel valutare l’immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione.

In particolare, perché il datore sia tenuto alla contestazione, occorre che lo stesso abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, nel bilanciamento con il diritto di difesa del lavoratore (Cass. n. 29627 del 2018).

Nella relatività del concetto di immediatezza della contestazione, va sottolineato che deve sì darsi conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa), ma quest’ultima costituisce una valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. n. 16841 del 2018).

Occorre evidenziare, in merito, che già da epoca risalente, questa Corte ha affermato che i requisiti della immediatezza e tempestività condizionanti la validità del licenziamento per giusta causa sono compatibili con un intervallo temporaneo, quando il comportamento del lavoratore consti di una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione globale ed unitaria da parte del datore di lavoro (Cass. n. 4150/1986; in terminis, Cass. n. 4346/1987).

A conferma di tale impostazione, questa Corte ha osservato che il principio dell’immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello statuto lavoratori, preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro (Cass. n. 1145 del 19/01/2011; Cass. n. 21795 del 14/10/2009, Cass. n. 6523 del 20/07/1996).

In argomento, già Cass. n. 412/1990, precisava che non è preclusa al giudice la valutazione di pregressi comportamenti del lavoratore, i quali non configurino autonome o concorrenti ragioni di recesso, ma rappresentino soltanto circostanze meramente confermative – sotto il profilo psicologico e con riguardo alla personalità del lavoratore – della gravità dell’addebito contestato e dell’adeguatezza del provvedimento sanzionatorio.

Le considerazioni anzidette operano anche nel caso in cui i comportamenti disciplinarmente rilevanti siano stati contestati non subito dopo il loro verificarsi ma in ritardo ed anche quando la loro contestazione sia avvenuta solo unitamente al fatto ultimo da sanzionare (Cass. n. 11410/93 cit.; Cass. n. 3835/1981).

2.2. Non mutano tali considerazioni nel caso di specie, ove si inserisce una norma di contrattazione collettiva, l’art. 41 del CCNL per le aziende sanitarie, a mente del quale, posto che i provvedimenti disciplinari devono essere adottati in conformità della L. n. 300 del 1970, art. 7 e delle procedure ivi stabilite, nonché del rispetto, da parte del datore di lavoro, dei principi generali di diritto vigenti in materia di immediatezza, contestualità ed immodificabilità della contestazione disciplinare, si conviene che “comunque, la contestazione disciplinare deve essere inviata al lavoratore non otre termine di trenta giorni dal momento in cui gli organi direttivi sanitari ed amministrativi delle Strutture di cui all’art. 1 del presente contratto hanno avuto effettiva conoscenza della mancanza commessa”. Il provvedimento non potrà più essere adottato soltanto in caso di ritardo nell’irrogazione del licenziamento rispetto alle giustificazioni rese dal lavoratore.

Deve, infatti, osservarsi che, come già rilevato in sede di legittimità (cfr., sul punto, Cass. n. 24529 del 2015), in un assetto disciplinare contrattualizzato, gli effetti decadenziali possono verificarsi solo in presenza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale, ovviamente, precisiamo in questa sede, nel rispetto dei principi generali in tema di immediatezza della contestazione, che, come già accennato e come si preciserà in prosieguo, nel caso di specie risultano congruamente rispettati.

D’altro canto, come già chiarito da Cass. n. 22930 del 2016, soltanto in caso di regolamento contrattuale che preveda espressamente una comminatoria di decadenza per l’ipotesi di superamento del termine previsto dalle parti, si può ipotizzare la natura perentoria del medesimo che, invece, di regola, come nella specie, deve reputarsi ordinatorio.

Inconferente il richiamo di parte ricorrente alle pronunzie di questa Corte secondo cui la contrattazione collettiva è abilitata anche ad introdurre un termine perentorio per l’esercizio del potere disciplinare atteso che nessun dubbio sussiste in ordine a tale possibilità e, purtuttavia, la valutazione concreta della specie in esame induce ad escludere, sulla base della stessa lettera della disposizione contrattuale, che le parti abbiano inteso introdurre un termine perentorio per l’esercizio di quel potere.

Nella valutazione di diritto che il giudice di legittimità può espletare circa l’arco temporale intercorso tra la scoperta dell’illecito disciplinare e la sua contestazione (limitata al se possa incorrersi in violazione del diritto di difesa secondo Cass. n. 23446 del 2018), va, segnatamente, evidenziato come la Corte abbia motivato in modo perfettamente conforme al principio secondo cui il recesso datoriale e le preliminari contestazioni, ove ricorra una giusta causa di licenziamento basata su condotte aventi rilievo disciplinare, debbano essere immediate, ossia cronologicamente vicine alla effettiva conoscenza della commissione del fatto nella sua massima estensione e gravità.

Nondimeno, il giudice di secondo grado ha evidenziato come, nel caso di specie, ad una prima relazione del tecnico incaricato, nella quale era stato dato atto che lo stesso aveva difficoltà a reperire tutta la documentazione necessaria rispetto all’incarico ricevuto, proprio per effetto del ritardo nella consegna della documentazione stessa da parte del Direttore amministrativo della clinica – la M. – era seguita una seconda relazione, datata (OMISSIS), inclusiva degli statini paga, da cui emergevano le alterazioni e contraffazioni recepite dalla contestazione disciplinare del (OMISSIS).

Appuntandosi proprio su tale arco temporale – (OMISSIS) – le censure di parte appellante, la Corte ha affermato congruamente e conformemente ai primo giudice, non solo il carattere ordinatorio del termine di trenta giorni, ma, segnatamente, la decorrenza dello stesso dalla conoscenza effettiva dei fatti da parte degli organi direttivi, sanitari ed amministrativi, non potendo l’accertamento dei fatti e la compiuta valutazione degli stessi da parte degli organi a ciò deputate farsi “meccanicamente” coincidere con il giorno del deposito della relazione tecnica da parte del rag. V., “dovendosi reputare ragionevole ed in linea con l’elasticità con cui va inteso il principio di immediatezza della contestazione, che la lettura e l’esame di tale relazione da parte degli organi direttivi e deliberativi della società resistente abbia comunque richiesto un sia pur minimo intervallo di tempo”.

La Corte ha, per tale via, offerto compiuta attuazione al principio secondo cui l’immediatezza è un concetto relativo, nel senso che la valutazione di essa deve tener conto della complessità del fatto e degli accertamenti nonché della complessità della struttura organizzativa dell’impresa datrice di lavoro perché è sempre ammissibile un lasso temporale più o meno lungo liberamente valutabile dal giudice, tra la conoscenza del fatto e l’avvio della procedura disciplinare: tale ultima valutazione, si ripete, che, al di fuori dei casi di pretesa lesione del diritto di difesa, in quanto di merito – sicuramente non ipotizzabile nel caso di specie – deve ritenersi incensurabile in sede di legittimità.

3. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente, per ragioni di ordine logico – sistematico, sono inammissibili.

3.1. Giova premettere che, come hanno precisatole Sezioni Unite di questa Corte (SU n. 34469 del 27/12/2019), non solo sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione nei ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alia loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione. Al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.

D’altra parte, è consolidato il principio secondo cui i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 13/11/2018).

3.2. Come più volte affermato da questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. n. 15517 del 2020) la proposizione, mediante ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso, risolvendosi in un “non motivo”.

L’esercizio del diritto di impugnazione, infatti, può considerarsi avvenuto in modo idoneo solo qualora i motivi con i quali è esplicato si traducano in una critica alla decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, da considerarsi in concreto e dalle quali non possano prescindere, dovendosi pertanto considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il motivo che difetti di tali requisiti.

Nel caso di specie, va evidenziata la genericità della doglianza contenuta nel terzo motivo di ricorso, con cui si censura la pronunzia di secondo grado per aver posto a fondamento della decisione fatti disciplinari non oggetto di contestazione.

Parte ricorrente, infatti, con una formulazione perplessa del motivo, allega il riferimento compiuto dalla Corte a quanto riportato dal tecnico ma essa stessa, poi, precisa come la Corte abbia chiarito che dei vari punti richiamati dal tecnico, erano state indicate con lettera da a) ad f) le somme indebitamente percepite per le infrazioni il cui ai punti 4), 5), 7), 9), 10) e 11) censurando il ragionamento decisorio in ordine alla proporzionalità.

Orbene, rilevato che anche nel quarto motivo di ricorso si denunzia la violazione delle medesime disposizioni legali sotto il profilo del difetto di considerazione di tutte le circostanze del caso concreto da cui desumere la proporzionalità tra l’inadempimento del lavoratore e la sanzione comminata, va premesso che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 13411 del 2020) ai fini della valutazione di proporzionalità è sicuramente necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.

La valutazione compiuta dalla Corte al riguardo, immune da vizi logici, deve ritenersi incensurabile in sede di legittimità proprio per aver attinto alle concrete modalità di perpetrazione degli illeciti ed alla fattuale e concreta verifica operata dal consulente, né può in questa sede tornarsi ad esaminare aspetti di dettaglio quali scatti di anzianità e superminimo, rimborso spese non documentate e spese indennità chilometriche, anticipazione TFR ecc. senza addurre in qual modo una diversa valutazione di tali singoli aspetti avrebbe potuto condurre ad una diversa valutazione della proporzionalità della sanzione comminata alla luce delle risultanze complessive raggiunte.

D’altro canto, per costante giurisprudenza di legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 20335 del 2017, con particolare riguardo alla duplice prospettazione del difetto di motivazione e della violazione di legge) il vizio relativo all’incongruità della motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante e sussiste solo quando il percorso argomentativo adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata effettuata in un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza.

Attiene, invece, alla violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa: nel caso di specie, pur avendo la parte ricorrente fatto valere una violazione di legge, in realtà mira ad ottenere una rivisitazione del fatto inammissibile in sede di legittimità chiedendo una diversa valutazione delle risultanze istruttorie che, invece, è di esclusiva spettanza del giudice di merito essendo rimesso esclusivamente al giudice di secondo Grado, il quale, come anzidetto, ha peraltro motivato in modo del tutto immune da vizi logici in ordine alla gravità dei comportamenti ascritti ed alla proporzionalità della sanzione comminata.

Va poi rilevato che, secondo l’insegnamento di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 13534 del 2019 nonché, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (ex piurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).

Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).

Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.

Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della inconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).

Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonché a giurisprudenza ivi citata).

Tale distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018).

E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

Nel caso di specie, parte ricorrente, pur veicolando la censura per il tramite della violazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mira con evidenza ad ottenere una rivisitazione nel merito, inammissibile in sede di legittimità.

3.3 Con riguardo al quinto motivo con cui si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, relativamente alla prova documentale delle effettive retribuzioni percepite risultanti dagli estratti conto della ricorrente rispetto ai cedolini e circa l’omessa valutazione dell’indisponibilità per la ricorrente degli strumenti per effettuare i pagamenti dei cedolini, di competenza del solo legale rappresentante dell’azienda, va rilevato che si tratta, ancora una volta, di censura di fatto, inammissibile in sede di legittimità.

Non può non rammentarsi come, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le piu recenti, Cass. n. 23940 del 2017).

Nel caso di specie, la Corte ha chiarito in modo compiuto circa le risultanze probatorie poste a fondamento della decisione precisando come la mole e la gravità degli illeciti contestati e provati o ammessi fosse tale da non lasciare alcun dubbio circa la consapevole partecipazione della ricorrente alla loro commissione, precisando che se vi fosse stato concorso del legale rappresentante nella commissione dei falsi, esso sarebbe stato comunque esulante dalla competenza di accertamento della Corte, apparendo in ogni caso la consapevolezza delle azioni commesse dalla M. a suo esclusivo vantaggio fra cui l’attribuzione della qualifica di dirigente, l’anticipazione del tfr, la “fruizione di un trattamento retributivo clamorosamente gonfiato”.

La Corte ha, d’altro canto affermato con chiarezza di non aver ritenuto di accedere all’acquisizione di ulteriore documentazione, in particolare con riguardo alle buste paga della M., non essendo mai state le voci in contestazione sulle stesse negate dalla ricorrente la quale, anzi, le aveva ammesse e giustificate in vario modo nei diversi stadi dell’accertamento condotto.

Rilevato, quindi, che si tratta di valutazioni di fatto, e che la motivazione deve ritenersi del tutto immune da vizi logici, essa risulta, anche sotto tale profilo, sottratta al sindacato di legittimità.

4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso va respinto.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.250,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2021

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