Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2333 del 01/02/2011

Cassazione civile sez. III, 01/02/2011, (ud. 29/11/2010, dep. 01/02/2011), n.2333

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27135-2006 proposto da:

G.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GORIZIA

14, presso lo studio dell’avvocato SABATINI FRANCO, che lo

rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APRICALE

31, presso lo studio dell’avvocato VITOLO MASSIMO, rappresentato e

difeso dall’avvocato DURANTE EBERTO giusta delega in calce al

controricorso;

– controricorrente –

e contro

L.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 657/2005 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

emessa il 10/5/2005, depositata il 13/07/2005, R.G.N. 843/2001;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/11/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO SCIORTINO per delega dell’Avvocato

FRANCO SABATINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. Nel marzo del 1984 G.I. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Pescara Pa.Gi. e g., titolari della ditta F.lli Pacifico s.d.f. per sentirli condannare al risarcimento dei danni sofferti a causa dell’esplosione in un suo magazzino di bombole di gas difettose fornitegli dai convenuti. In detto giudizio i convenuti svolgevano domanda di manleva verso un terzo ed interveniva a sua volta altro terzo indicato come responsabile dal terzo chiamato.

Con altro atto di citazione Pi.Co. e L.S., nelle rispettive qualità di inquilino e proprietario dell’immobile adiacente a quello in cui era avvenuta l’esplosione, convenivano in giudizio lo stesso G. e la madre C.A., per sentirli condannare al risarcimento dei danni sofferti. Il G. si costituiva ed allegava che l’esplosione era da ascrivere alla responsabilità della ditta Pacifico.

I due giudizi venivano riuniti ed istruiti con l’espletamento fra l’altro di una c.t.u..

All’esito il Tribunale di Pescara, con sentenza parziale, rigettava la domanda proposta dal G. contro la ditta Pacifico e le domande di garanzia svolge nel primo giudizio. Condannava in via generica invece il G. e la C. al risarcimento dei danni in favore del P. e del L., disponendo il prosieguo del giudizio fra dette parti sul quantum. All’esito di un supplemento della consulenza tecnica e di prova per testi, sull’istanza presentata in data 24 luglio 1993 dai signori P. e L., il Giudice istruttore concedeva, con decreto del 27 luglio successivo, sequestro conservativo fino a concorrenza della somma di L. 150.000.000 sull’immobile del G., in ragione della sua messa in vendita da parte del medesimo. Con successiva ordinanza del 7 agosto 1993 fissava udienza per la trattazione della convalida del sequestro.

Con sentenza del giugno 2001, il Tribunale confermava e convalidava il sequestro, condannava il G. e la C. al pagamento a favore del P. e del L. della somma complessiva di L. 107.116.100, fra cui 92.616.110 per i danni subiti dall’immobile, oltre interessi dalla data dell’esplosione al soddisfo.

p.2. La sentenza veniva appellata dal G. in via principale ed in via incidentale dal P. e dal L.. Con sentenza del 13 luglio 2005 la Corte d’Appello di L’Aquila accoglieva parzialmente l’appello principale riducendo il danno all’immobile ad Euro 19.788,61, nonchè l’appello incidentale sugli accessori degli appellati.

p.3. Contro questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il G. sulla base di due motivi. Ha resistito con controricorso il P., mentre non ha svolto attività difensiva il L..

p.4. Le parti costituite hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione del D.L. 7 ottobre 1994, art. 4, comma 5, conv. in L. 6 dicembre 1994, n. 673 in relazione agli artt. 681 e 683 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Contraddittorietà ed insufficienza della motivazione su più punti della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”.

p.1.1. Il motivo prospetta due censure.

La prima concerne il rigetto del motivo di appello che il ricorrente aveva prospettato assumendo che il sequestro conservativo, autorizzato in corso di causa a suo carico con ordinanza del 27 luglio 1993, si sarebbe dovuto dichiarare nullo e/o inefficace sulla base delle seguenti considerazioni: a) ottenuto ed eseguito il sequestro, le controparti – con ricorso del 6 agosto 1993 – avevano chiesto al Giudice istruttore, sul presupposto che lo stesso aveva ritenuto ancora applicabile l’art. 681 c.p.c. e che esso imponeva loro entro cinque giorni dall’esecuzione di chiedere al giudice la fissazione dell’udienza di trattazione di cui all’art. 681 c.p.c., comma 1 di fissarla all’uopo nella stessa udienza del 30 settembre 1993 già fissata per la trattazione della convalida del sequestro stesso; b) a seguito del ricorso, il Presidente del Tribunale di Pescara, sostituitosi al Giudice istruttore per detto atto, provvedeva in conformità con decreto del 7 agosto successivo, assegnando termine per la notificazione fino al 20 settembre 1993; c) il decreto non veniva, però, notificato ed all’udienza del 30 settembre ne dava atto lo stesso procuratore dei sequestranti, chiedendo la concessione di un nuovo termine per la notifica al ricorrente, ove esso, comparendo non avesse inteso discutere comunque; d) il difensore del ricorrente impugnava e contestava quanto dedotto ex adverso e nulla osservava sulla richiesta di fissazione di una nuova udienza con concessione di nuovo termine per la trattazione della convalida e del merito, riservandosi ogni controdeduzione in quella sede.

L’illustrazione della censura, dopo tali deduzioni, riferisce immediatamente di seguito che con il primo motivo di appello era stata dedotta la nullità e/o inefficacia del sequestro nel termine perentorio di cui all’art. 681 c.p.c., non prorogabile nemmeno sull’accordo delle parti, e che le controparti replicarono che la nullità andava eccepita e che, in ogni caso per la presenza delle parti all’udienza del 30 settembre 1993, si era determinata sanatoria per raggiungimento dello scopo.

Si sostiene, di seguito, che erroneamente la Corte territoriale avrebbe disatteso il motivo di appello affermando che gli artt. 681 e 6893 c.p.c. erano stati abrogati dalla L. n. 353 del 1990, art. 89 a decorrere dal 1 gennaio 1993 e che, dunque, non erano applicabili al sequestro. L’errore della Corte aquilana deriverebbe dal non avere considerato la norma del D.L. n. 571 del 1994, art. 4, comma 5, convertito in L. n. 673 del 1994, secondo cui “la L. 26 novembre 1990, artt. 74, 75, 76, 77, 85 e 86, n. 353, e successive modifiche ed integrazioni, si applicano, in quanto compatibili, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto; tutti i sequestri anteriormente autorizzati perdono la loro efficacia se con sentenza, anche non passata in giudicato, è rigettata l’istanza di convalida ovvero è dichiarato inesistente il diritto a cautela dal quale erano stati concessi”. Essa, valutata congiuntamente con la salvezza dell’efficacia dei decreti legge dello stesso contenuto inutilmente reiterati in precedenza ed i cui effetti furono fatti salvi il motivo non lo dice, ma la salvezza fu disposta dall’art. 1, comma 2, introdotto dalla legge di conversione e riguardo il D.L. 14 febbraio 1994, n. 105, art. 4, comma 5 entrato in vigore il 16 febbraio 1994 (art. 17) e decaduto il 17 aprile 1994; il D.L. 14 aprile 1994, n. 235, art. 4, comma 5 entrato in vigore il 18 aprile 1994 (art. 17) e decaduto il 17 giugno 1994; il D.L. 18 giugno 1994, n. 380, art. 4, comma 5 entrato in vigore il 18 giugno 1994 (art. 20) e decaduto il 17 agosto 1994; il D.L. 8 agosto 1994, n. 493, art. 4, comma 5 entrato in vigore, il 12 agosto 1994 (art. 21) e decaduto il 11 ottobre 1994. Decreto-Legge, quest’ultimo, reiterato, appunto, dal su citato D.L. n. 571 del 1994, convertito nella L. n. 673 del 1994.

aveva determinato l’effetto della perdurante applicazione degli artt. 681 e 683 c.p.c, ai sequestri autorizzati alla data di entrata in vigore del primo dei detti DD.LL., cioè il D.L. n. 105 del 1994, entrato in vigore il 16 febbraio 1994.

p.1.2. La censura appare inammissibile per difetto di interesse e comunque infondata.

Il difetto di interesse emerge per il fatto che, essendo la censura relativa a vizi relativi alla vecchia disciplina del procedimento cautelare a dire del ricorrente applicabile ed essendo quel procedimento, anche anteriormente alla riforma di cui all’art. 669- bis e ss. c.p.c. ed all’introduzione del procedimento cautelare uniforme, strumentale alla tutela cognitiva piena di merito, conforme alla natura della tutela cautelare, la doglianza avrebbe potuto avere un senso solo ai fini della statuizione sulle spese del giudizio di merito o della responsabilità ai sensi dell’art. 96 c.p.c., tanto più in quanto la misura cautelare venne concessa nel corso della causa di merito.

In particolare, essendo stato nella specie riconosciuto il diritto a cautela del quale il sequestro venne concesso e, dunque, essendo escluso ogni rilievo dell’art. 96 c.p.c., comma 2, la doglianza avrebbe potuto trovare giustificazione:

a) o in una pretesa relativa alle spese del giudizio di convalida, in quanto esso ebbe corso, e nel presupposto di una soccombenza quanto ad esso e, se del caso, in una pretesa di risarcimento ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1 (in termini, per qualche riferimento si veda Cass. n. 1219 del 1989 e n. 12177 del 2000);

b) oppure ai sensi e per gli effetti dell’applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 1 (cioè dell’esclusione della ripetizione delle spese sostenute dalla controparte vittoriosa in relazione al procedimento di sequestro) o del suo comma 2 (cioè come ragione per una parziale compensazione delle spese del giudizio di merito).

La censura non prospetta in alcun modo che la pretesa erroneità della valutazione della Corte territoriale abbia inciso sotto qualcuno degli indicati profili ed in particolare sotto quello dell’art. 92 c.p.c. e dell’art. 96 c.p.c., comma 1. Ed anzi nella memoria parte ricorrente adombra che alla statuizione chiesta a questa Corte avrebbe interesse perchè il riconoscimento dell’inefficacia del sequestro sarebbe funzionale “al fine di esperire eventuale azione di danno”, in tal modo, peraltro, “confessando” l’inammissibilità del motivo. Non senza che tale intenzione non debba essere denunciata come giuridicamente impossibile, posto che una simile azione di danno, derivante dall’inosservanza delle regola procedimentale del sequestro, non sarebbe esperibile al di fuori del presente giudizio di merito.

Al riguardo si rileva che è stato già deciso che “la regola di cui all’art. 96 c.p.c., comma 2, (ma anche quella di cui al comma 1) non è una regola sulla competenza, ma sulla proponibilità dell’istanza volta ad ottenere il riconoscimento della responsabilità aggravata.

Infatti, nell’affidare al giudice avanti al quale si è agito o resistito (comma 1) ed a quello che ha compiuto l’accertamento l’inesistenza del diritto (comma 2) il compito di essere investito dell’istanza, la legge non sancisce una regola di competenza, cioè non si preoccupa di indicare avanti a quale giudice si può esercitare un’azione di cui l’istanza è espressione, ma disciplina un fenomeno che si colloca all’interno di un processo già pendente e che si esprime nell’esercizio da parte del litigante di un potere all’interno di esso – quello di formulazione di un’istanza (e non della proposizione di un’azione) – il cui esercizio impone al giudice di provvedere sull’oggetto della richiesta, la quale, dunque, è strettamente collegata e connessa all’agire od al resistere in giudizio. Ne discende che il potere di rivolgere l’istanza, essendo previsto come potere endoprocessuale collegato e connesso all’azione od alla resistenza in giudizio, se un processo in cui l’azione o la resistenza riguardo alla pretesa sostanziale vi è stata, non può essere considerato (salvo il caso eccezionale che il suo esercizio sia rimasto precluso in quel processo da ragioni attinenti alla stessa sua struttura e non dipendenti dalla inerzia della parte: per questa affermazione si veda Cass. n. 1861 del 2000) come potere successivamente esercitabile al di fuori del processo e, quindi, in via consequenziale suscettibile di essere esercitato avanti ad altro giudice, cioè in via di azione autonoma. Quando lo fosse, allora, appare evidente che non ricorrerebbe una situazione di esercizio di un’azione davanti ad un giudice diverso da quello che sarebbe competente, bensì, a monte, l’esercizio di un’azione per un diritto non previsto dall’ordinamento, il quale appunto prevede il diritto di vedersi liquidare il danno da responsabilità aggravata (nelle due ipotesi previste dai due commi dell’art. 96) soltanto come diritto espressione del diritto di azione (inteso come diritto di agire e di resistere in giudizio) esercitato in un processo a tutela della situazione giuridica soggettiva principale che vi sia dedotta e, quindi, come diritto che di tale situazione è amminicolo e che, conseguentemente, lo è anche dell’azione con cui essa è fatta valere in via attiva o passiva”. (Cass. 9297 del 2007 e, sulla sua falsariga, da ultimo, Cass. n. 18344 del 2010).

p.1.3. Peraltro, la sentenza impugnata, nell’escludere il rilievo delle norme degli artt. 681 e 683 c.p.c. in relazione al sequestro autorizzato nel corso del giudizio di cui è processo, non ha errato in alcun modo e non ha errato in particolare nel senso ipotizzato dalla censura, cioè disattendendo i principi desumibili dalla norma del D.L. n. 571 del 1994, art. 4, comma 5, convertito nella L. n. 673 del 1994.

E’ sufficiente osservare che questa norma non era in alcun modo applicabile al procedimento di sequestro di cui trattasi. Infatti, essendo esso iniziato, sia pure come procedimento incidentale ad un giudizio di cognizione piena anteriormente pendente, con un’istanza in corso di causa del 24 luglio 1993, risultava interamente soggetto alla disciplina del nuovo procedimento cautelare uniforme di cui all’art. 669-bis e segg.. Infatti, ai sensi della L. n. 353 del 1990, art. 92, comma 1, primo inciso, nel testo sostituito dalla L. n. 477 del 1992, art. 2, comma 5 quelle norme (introdotte dagli artt. 74, 75, 76, 77, 85 e 86, che sono appunto quelli che hanno inserito nell’ordinamento le nuove disposizioni sul cd. “processo cautelare uniforme”), e così pure la correlata abrogazione delle norme degli artt. 681 e 683 c.p.c., disposta dalla stessa L. n. 353 del 1990, art. 89 entrarono in vigore il 1 gennaio 1993 e, dunque, erano già vigenti al momento di instaurazione del procedimento di sequestro ed avrebbero dovuto essere applicate, con la conseguenza che del tutto erroneamente il Tribunale in primo grado diede corso all’applicazione delle norme vecchie e dello stesso giudizio di convalida. E’ appena il caso di rilevare che è vero che lo stesso art. 92, comma 1, secondo inciso (come modificato dal D.L. n. 571 del 1994, art. 6) dispose che ai giudizi pendenti al 1 gennaio 1993 le disposizioni entrate in vigore il 1 gennaio 1993 non trovassero applicazione, là dove si dispose l’applicabilità ad essi delle norme anteriormente vigenti fino al 30 aprile 1995. Ma tale disposizione, in relazione alle norme disciplinatoci del procedimento cautelare o di singoli procedimenti cautelari, come gli artt. 681 e 683, non era da intendersi come riferita esclusivamente ai giudizi a cognizione piena, bensì ai giudizi cautelari, quali oggetto di disciplina di quelle norme. La genericità del riferimento ai “giudizi”, senza alcuna aggettivazione, infatti, era idonea ad essere intesa come abbracciante lo specifico giudizio cui le norme fatte entrare in vigore il 1 gennaio 1993 si riferivano. Di modo che per le norme in discorso il riferimento non poteva che riguardare procedimenti cautelari ante causam o iniziati in corso di causa di merito, già pendenti al 1 gennaio 1993. Ne deriva che ad un procedimento cautelare introdotto in una causa di merito pendente al 1 gennaio 1993 successivamente a tale data trovavano applicazione le norme dell’art. 669-bis e segg. e le abrogazioni di norme relative a specifici procedimenti cautelari fatte entrare in vigore a quella data.

In altri termini, la norma della L. n. 353 del 1990, art. 92, comma 1, secondo inciso (e successive modifiche), là dove escludeva l’applicabilità fino al 30 aprile 1995 delle norme della stessa legge entrate in vigore il 1 gennaio 1993 ai sensi del primo inciso dello stesso comma 1, con riguardo ai giudizi pendenti a tale data, in riferimento alle norme di detta legge relative al procedimento cautelare uniforme di cui all’art. 669-bis e segg. ed alle norme abrogatrici di norme di specifici procedimenti cautelari andava intesa nel senso che la pendenza del giudizio dovesse riguardare il procedimento cautelare e, quindi, un procedimento cautelare iniziato ante causam prima del 1 gennaio 1993 oppure un procedimento cautelare iniziato prima di quella data nell’ambito di un giudizio di merito già pendente. Si deve escludere, invece, che una domanda cautelare proposta dopo il 1 gennaio 1993 nel corso di una causa di merito già pendente a quella data fosse soggetta alle norme cautelari anteriori alla L. n. 353 del 1990.

Essendo, dunque, anche le domande cautelari, proposte dopo il 1 gennaio 1993 nel corso di cause di merito già pendenti a quella data, soggette alle regole del procedimento cautelare uniforme, ne deriva che a sua volta il D.L. n. 571 del 1994, art. 4, comma 5, nel disporre che “la L. 26 novembre 1990, n. 353, artt. 74, 75, 76, 77, 85 e 86 e successive modifiche ed integrazioni, si applicano, in quanto compatibili, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto” intese alludere ai procedimenti cautelari iniziati ante causam o nel corso di causa di merito prima del 1 gennaio 1993 perchè solo essi erano rimasti soggetti alla disciplina anteriore alla L. n. 353 del 1990. Ne deriva ancora che la previsione per cui “tutti i sequestri anteriormente autorizzati perdono la loro efficacia se con sentenza, anche non passata in giudicato, è rigettata l’istanza di convalida ovvero è dichiarato inesistente il diritto a cautela dal quale erano stati concessi” concerneva i sequestri autorizzati prime o dopo l’inizio della causa di merito anteriormente al 1 gennaio 1993.

In tal senso – corrispondente all’avviso espresso a suo tempo da buona parte della dottrina – si dissente da quanto sembrerebbe ipotizzare Cass. n. 3489 del 2004 in motivazione.

p.1.4. La seconda censura proposta con il primo motivo – relativa all’esclusione da parte della Corte territoriale della fondatezza sull’apprezzamento del periculum in mora al momento della concessione del sequestro e, quindi, di una condizione di sua legittimità, risulta inammissibile per difetto di interesse per la stessa ragione indicata a proposito del primo motivo (mancanza di correlazione ad una pretesa sulle spese o ai sensi dell’art. 96 c.p.c.). E ciò preclude di entrare nel merito di essa.

p.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, nonchè “omessa e/insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia”.

Vi si censura la sentenza impugnata là dove ha disatteso il terzo motivo di appello, con il quale il ricorrente aveva lamentato che la somma liquidata a favore dei danneggiati per il costo delle spese di ripristino dell’immobile sulla base della c.t.u. e del supplemento ad essa era correlata non al ripristino dello stesso nello status quo ante, che, come riconosciuto dallo stesso supplemento, era, al momento dell’evento, di notevole vetustà e di pessimo stato di conservazione e manutenzione, bensì ad una radicale ristrutturazione ed ammodernamento, sì da determinare una locupletazione, per il che l’importo da risarcire doveva essere ridotto del 20/30%, in applicazione del principio “compensatio lucri cum damno” giacchè i danneggiati, una volta eseguiti i lavori avrebbero avuto a disposizione non un immobile in pessimo stato di manutenzione e conservazione, ma un immobile radicalmente ristrutturato, ammodernato e ricondotto ad una ottimale situazione statico-strutturale.

L’illustrazione del motivo è fatta riportando testualmente il tenore con cui il terzo motivo di appello era stato articolato (pagg. 14- 16), quindi riproducendo fino alla pagina 27 una parte della c.t.u., nella prima parte della pagina 28 una parte del supplemento alla c.t.u. relativa all’impossibilità di procedere alla compensano, e, quindi, la motivazione della sentenza impugnata, che, dopo avere ricordato che gli appellati eccepirono “che il cattivo stato di manutenzione il CT lo aveva rilevato non nel 1979, ma dopo circa 20 anni, per cui l’assunto del G. non poteva essere accolto”, ha osservato che “Sulla tematica, la Corte, al di là di tale notazione degli appellati, osserva che, come appare pacifico in giurisprudenza, il principio della compensatio lucri cum damno, che ha fondamento nella norma contenuta nell’art. 1223 c.c., trova applicazione quando sia il danno che il vantaggio siano conseguenza immeditata e diretta dello stesso fatto, il quale abbia in sè l’idoneità a produrre ambedue gli effetti (cfr. Cass. n. 10218/94):

circostanza, come è evidente, che non ricorre nel caso di specie, dove danno e vantaggio sono riconducibili a situazioni diverse”.

Dopo di che si dice che “dalla lettura del sopra trascritto motivo di appello si rileva come al di là del riferimento all’istituto (di origine giurisprudenziale) della compensano lucri cum damno, evocata con riferimento alla C.T.U., l’attuale ricorrente aveva fatto questione di entità del danno tenuto contro del valore dell’immobile anteriormente al verificarsi dello scoppio della bombola di gas.

Aveva sostenuto infatti il ricorrente medesimo che il danno risarcibile consiste nella somma di danaro pari alle spese necessarie per ricondurre l’immobile danneggiato allo stato (ed al valore) che esso presentava prima del verificarsi dell’evento dannoso”. Da tanto si desume, in buona sostanza, che il motivo non prospettava una questione di compensatio lucri cum damno, ma faceva “questione … di quantificazione del danno ad effettuarsi, ai sensi dell’art. 1223 c.c., con riferimento alla effettiva perdita patrimoniale subita dal proprietario dell’immobile in quanto conseguenza diretta ed immediata del fatto illecito”. Se ne fa discendere che la motivazione della Corte territoriale avrebbe eluso il motivo di appello.

p.2.1. Il motivo, là dove addebita alla Corte aquilana di avere frainteso il terzo motivo di appello è smentito dallo stesso tenore di quest’ultimo, che non fa alcun riferimento all’art. 1223 c.c. e fa riferimento espresso come s’è detto alla compensano lucri cum damno.

Non solo: se pure si seguisse il ragionamento del ricorrente e si addebitasse alla Corte territoriale di essersi occupata a torto della compensano mentre doveva sindacare la rispondenza del danno liquidato a quanto effettivamente costituente danno in relazione allo stato dell’immobile al momento del fatto, la constatazione dell'(ipotetico) errore della stessa Corte non renderebbe erroneo il dispositivo sul punto della sentenza impugnata, atteso che questa Corte dovrebbe constatare, proprio attraverso la lettura del motivo di appello l’inammissibilità dello stesso per difetto di specificità ai sensi dell’art. 342 c.p.c., posto che in esso non solo non si fa alcuno preciso riferimento alle analitiche voci di danno riconosciute dalla c.t.u. per evidenziare quali e come dovessero essere ridimensionate, postulandosi del tutto apoditticamente una riduzione equitativa del 20/30%, ma, inoltre, omettendosi ogni considerazione del significato del rilievo del c.t.u. (testualmente riportato come parte del motivo di appello riprodotto nel ricorso) che vennero tralasciati nella stima del danno “i lavori atti ad un eventuale risanamento igienico- funzionale”. Onde il motivo di ricorso – a tutto voler concedere – potrebbe soltanto giustificare una correzione della motivazione nel senso della inammissibilità del detto motivo di appello.

p.3. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.

p.4. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro tremilacinquecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 29 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2011

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