Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2332 del 03/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 03/02/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 03/02/2020), n.2332

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13096/2018 R.G. proposto da:

M.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Barone, con

domicilio eletto in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria

civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 4641/17

depositata il 13 novembre 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 dicembre

2019 dal Consigliere Guido Mercolino.

Fatto

RILEVATO

che M.L., cittadino del Bangladesh, ha proposto ricorso per cassazione, per quattro motivi, avverso la sentenza del 13 novembre 2017, con cui la Corte d’appello di Napoli ha parzialmente accolto il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 4 gennaio 2017 dal Tribunale di Napoli, dichiarando ammissibile la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente, ma rigettandola nel merito;

che il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 5, e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 27, comma 1-bis, censurando la sentenza impugnata per aver fondato il proprio convincimento esclusivamente sulla credibilità soggettiva di esso richiedente, senza attivare i propri poteri istruttori officiosi per accertare la situazione reale del suo Paese di origine;

che il motivo è inammissibile, in quanto, riflettendo l’inadempimento del dovere di cooperazione istruttoria incombente al giudice ai fini della valutazione delle dichiarazioni rese dal richiedente, non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, nell’esaminare la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, non si è pronunciata in ordine alla credibilità delle predette dichiarazioni, avendo rilevato da un lato il difetto di specificità delle censure proposte dall’appellante, non accompagnate dalla narrazione della sua vicenda personale, dall’altro l’inidoneità del riferimento alla situazione generale del Bangladesh a giustificare l’applicazione della misura richiesta, in assenza dell’allegazione di atti di persecuzione riconducibili al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7;

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e 11, e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, osservando che, nell’escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della situazione d’insicurezza esistente in Bangladesh, per effetto della quale in caso di rimpatrio egli rischia di subire atti di violenza rispetto ai quali le autorità statuali non sono in grado di offrire protezione;

che il motivo è infondato, risultando la decisione conforme al principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente, e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, in virtù dell’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica (cfr. Cass., Sez. I, 21/11/2018, n. 30105; Cass., Sez. VI, 10/05/2011, n. 10177);

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, senza tenere conto della situazione politico-sociale esistente in Bangladesh, caratterizzata da violenza indiscriminata e diffusa che coinvolge l’intero territorio, nè delle gravi violazioni dei diritti umani risultanti dalle principali fonti d’informazione;

che il motivo è fondato, in quanto, nel ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata si è limitata ad escludere che le forti tensioni politiche in atto nel Bangladesh, manifestatesi in attentati e violente repressioni delle forze governative nei confronti degli appartenenti al partito nazionalista di opposizione, abbiano dato luogo ad una situazione di conflitto interno diffuso, senza indicare le fonti d’informazione dalle quali ha tratto tale convincimento;

che, in tema di protezione internazionale, questa Corte ha più volte affermato che il riferimento alle “fonti informative privilegiate”, contenuto nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve essere interpretato nel senso che è onere del giudice specificare la fonte in concreto utilizzata e il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, in modo tale da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità di tale informazione rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (cfr. Cass., Sez. I, 22/05/ 2019, n. 13897; 17/05/2019, n. 13449; Cass., Sez. VI, 26/04/2019, n. 11312);

che, nell’affermare che la predetta situazione di tensione non interessava l’appellante, la cui storia personale risultava caratterizzata da mere difficoltà economiche, non avendo egli partecipato alla vita politica del Paese, la Corte di merito non ha tenuto conto delle indicazioni della giurisprudenza comunitaria, vincolanti per il giudice di merito, secondo cui, nelle situazioni di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato, il requisito della individualità della minaccia grave alla vita o alla persona, prescritto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, non è subordinato alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato al conflitto in modo specifico, a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, in quanto la sua esistenza può dipendere anche dal grado di violenza raggiunto dagli scontri, da cui possa dedursi che il mero rientro nel Paese d’origine determinerebbe un rischio concreto per la vita del richiedente (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 30/01/2014, n. 285/12, Diakitè; 17 febbraio 2009, in C-465/07, Elgafaji; Cass., Sez. VI, 2/04/2019, n. 9090; 31/05/2018, n. 13858; Cass., Sez. I, 30/07/2015, n. 16202);

che con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della situazione politico-economico-sociale del Bangladesh;

che il motivo è inammissibile, risolvendosi nella generica insistenza sulla situazione generale d’instabilità politico-sociale del Bangladesh, la cui valutazione, in assenza di uno specifico collegamento con la situazione personale del richiedente anteriore all’abbandono del Paese di origine, non potrebbe in alcun caso assumere portata determinante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, risultando di per sè inidonea ad evidenziare una condizione di vulnerabilità soggettiva;

che infatti, come ripetutamente affermato da questa Corte, la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata non già alla situazione generale del Paese di origine, ma a quella personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681);

che la sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dal motivo accolto, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello Napoli, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

dichiara inammissibili il primo ed il quarto motivo di ricorso; rigetta il secondo motivo; accoglie il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2020

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