Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23291 del 15/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 15/11/2016, (ud. 14/09/2016, dep. 15/11/2016), n.23291

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8436/2014 proposto da:

S.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO

IACOBELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO CAROZZA,

giusta delega in atti;

– ricorrente

contro

LA GARDENIA BEAUTY S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GEROLAMO BELLONI 88, presso lo studio dell’avvocato DANIELA DAL BO,

che la rapprsenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5575/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 03/01/2014 r.g.n. 25/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/09/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato CAROZZA DOMENICO;

udito l’Avvocato DAL BO DANIELA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza pubblicata il 3.1.14 la Corte d’appello di Napoli dichiarava inammissibile, per violazione dell’art. 434 c.p.c., il gravame di S.A. contro la sentenza n. 5510/12 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che ne aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimatole il 21.4.10 dalla S.p.A. La Gardenia Beauty.

Alla lavoratrice era stato addebitato l’aver illegittimamente accreditato sulla propria fidelity card i bonus fedeltà maturati da terzi acquirenti presso l’esercizio commerciale della società.

Per la cassazione della sentenza ricorre S.A. affidandosi a quattro motivi.

La S.p.A. La Gardenia Beauty resiste con controricorso.

Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c..

Nelle more uno dei difensori della società controricorrente – avv. Giulio Prosperetti – ha fatto pervenire dichiarazione di rinuncia al mandato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 434 e 437 c.p.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto generico l’appello proposto dalla lavoratrice, nonostante che le censure investissero espressamente le ragioni del rigetto della domanda da parte del primo giudice e che esse, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, fossero ammissibili in quanto non contenenti nuove allegazioni in fatto.

Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., nn. 3 e 5 e art. 416 c.p.c., comma 3, art. 115 c.p.c. e artt. 2700 e 2709 c.c., nonchè omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui la gravata pronuncia, sostanzialmente invertendo l’onere della prova, ha erroneamente ritenuto la legittimità del licenziamento in base al tenore della lettera di giustificazione della lavoratrice redatta in occasione del procedimento disciplinare a suo carico.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 158 CCNL settore commercio in relazione agli artt. 1362, 1363, 1367 e 1369 c.c. e agli artt. 3 e 24 Cost., nonchè omesso esame dell’eccepita tardività del licenziamento, comunicato il 21.4.10 e, quindi, oltre il termine massimo di 15 giorni dalle giustificazioni (risalenti al 23.3.10) previsto dal contratto collettivo.

Con il quarto motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1 e art. 2119 c.c. e di omesso esame dell’eccepita mancanza di pubblicità, ai fini disciplinari, degli obblighi derivanti dal regolamento aziendale della fidelity card e della vip card.

2- Il primo motivo è fondato.

Si premetta che la sentenza impugnata, dichiarata in dispositivo e in motivazione l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi, nondimeno in motivazione ha speso anche alcune considerazioni sul merito della vicenda.

Queste ultime, proprio perchè incompatibili con l’affermata inammissibilità del gravame, hanno il valore di mere motivazioni ad abundantiam, in quanto tali inidonee ad onerare la parte soccombente di loro specifica impugnazione.

Valga a riguardo il consolidato insegnamento di questa S.C. secondo il quale, ove il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si sia spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia poi impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (cfr., ex aliis, Cass. n. 17004/15; Cass. n. 15234/07; Cass. S.U. n. 3840/07).

Si premetta altresì che, in base all’insegnamento delle S.U. di questa S.C., il giudice di legittimità ha il potere/dovere di verificare anche d’ufficio la validità degli atti processuali, ossia la loro conformità al relativo modello legale (cfr. Cass. S.U. n. 8077/12).

Ciò precisato, nel caso in esame non può dirsi che l’appello della lavoratrice (trascritto sia nella sentenza impugnata che nel ricorso) fosse privo dei requisiti formali prescritti dagli artt. 342 e 434 c.p.c., anzi, conteneva precise e analitiche confutazioni delle ragioni decisionali esposte dal Tribunale.

In particolare, negava che la lettera di giustificazioni (su cui si era basato il primo giudice, che non aveva svolto alcuna istruttoria) contenesse una confessione del fatto addebitato e che dello stesso fosse stata raggiunta la prova, che la lavoratrice avesse l’onere di contestare la documentazione prodotta dalla società, che la dipendente non potesse acquistare il numero di cosmetici di cui alla lettera di contestazione, che il regolamento aziendale della fidelity card e della vip card fosse stato portato a sua conoscenza e che non fosse necessaria l’affissione in azienda del c.d. codice disciplinare, che l’infrazione contestata rientrasse nel novero di quelle per cui la contrattazione collettiva prevedeva la sanzione espulsiva (considerata, altresì, la mancanza di precedenti disciplinari a carico della lavoratrice), che la contestazione fosse tempestiva etc..

Nè può dirsi che l’appello vada redatto quasi come un “progetto alternativo di sentenza”, secondo quel che si legge nella pronuncia impugnata e che è stato ventilato da alcuni iniziali commenti alla novella degli artt. 342 e 434 c.p.c., contenuta nel D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012.

Invero, l’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone all’appellante di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare l’idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata (cfr. Cass. n. 2143/15).

Nè – infine – l’inammissibilità del ricorso può derivare dall’asserita novità delle difese svolte dalla appellante, vuoi perchè l’inammissibilità d’un atto per difformità dal modello legale di riferimento è cosa diversa dalla pretesa violazione delle preclusioni di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2 (che, lungi dal determinare l’inammissibilità dell’appello, può semmai cagionarne il rigetto nel merito), vuoi perchè tale norma vieta nuove domande od eccezioni (o nuove allegazioni in fatto), ma non anche nuove difese in diritto, in quanto tali spendibili in ogni stato e grado del giudizio.

Si formula, quindi, il seguente principio di diritto:

L’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni dell’appellante abbiano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto a mò di “progetto alternativo di sentenza”, ma impone all’appellante medesimo di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame agli specifici capi della sentenza impugnata e ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, in modo da esplicitare l’idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata”.

3- L’accoglimento del primo motivo assorbe la disamina dei restanti.

4- In conclusione, accolto il primo motivo ed assorbite le ulteriori censure, si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli che, attenendosi al principio di diritto sopra formulato, dovrà esaminare nel merito i motivi di gravame proposti da S.A..

PQM

La Corte:

accoglie il primo motivo, dichiara assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016

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