Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23291 del 09/11/2011

Cassazione civile sez. III, 09/11/2011, (ud. 14/10/2011, dep. 09/11/2011), n.23291

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, CIRC.NE TRIONFALE 145, presso lo studio dell’avvocato

PETRARCHINI FABRIZIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BARTOLLINI

ALVARO giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

N.G., BE.GI.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 254/2009 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 16/06/2009 R.G.N. 338/1996;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/10/2011 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ALVARO BARTOLLINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha concluso con il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.D. convenne in giudizio dinanzi al tribunale di Terni N.G. e Be.Gi., esponendo:

Che entrambi i convenuti, nel giugno del 1989, erano stati ascoltati in qualità di testi a suo carico dal pretore di Terni nel corso di un processo penale nel quale esso attore era imputato del reato di lesioni personali in danno di T.M.;

Che, dopo essere stato condannato per il detto reato dal pretore umbro, egli aveva sporto, senza esito, una denuncia a carico dei convenuti per il reato di falsa testimonianza (gli atti del relativo procedimento erano stati, difatti, archiviati per sopravvenuta amnistia);

Che, nel maggio del 1991, chiamati nuovamente a deporre dinanzi al tribunale di Terni sulle circostanze già esposte, entrambi i testi avevano reiterato la falsa testimonianza in suo danno;

Che, pertanto, egli aveva diritto al risarcimento dei danni nella misura di L. 20 milioni. Il giudice di primo grado respinse la domanda. La corte di appello di Perugia, investita del gravame proposto dall’attore, lo rigettò, dopo aver accolto l’istanza di sospensione del giudizio proposta dagli appellati in ragione della pendenza di due giudizi penali relativi alla medesima vicenda, l’uno a loro carico per falsa testimonianza, l’altro a carico del B. per il delitto di calunnia (giudizi poi definiti, rispettivamente, con il proscioglimento del N. e della Be. con formula “perchè il fatto non sussiste” e con la condanna del B.).

La sentenza è stata impugnata da B.D. con ricorso per cassazione sorretto da 5 motivi e illustrato da memoria.

Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è inammissibile.

Con il primo motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per violazione o falsa applicazione degli artt. 651 e 654 c.p.p..

Il motivo – che lamenta una erronea applicazione dei principi del giudicato sui fatti materiali oggetto dell’imputazione di calunnia a carico dell’odierno ricorrente – risulta, prima ancora che infondato nel merito, inammissibile in rito.

La sentenza delle corte territoriale, difatti, si fonda su di una duplice, distinta, autonoma ratio decidendi, avendo il giudice perugino ritenuto, al di là ed a prescindere dall’autorità di cosa giudicata della sentenza penale di condanna del B. per il reato di calunnia, che il coacervo delle risultanze processuali consentisse comunque di escludere, ex se, che gli odierni intimati avessero dichiarato il falso nel processo penale.

E di tale convincimento egli ha fornito esauriente, pur se concisa, motivazione (ff. 8-9 della sentenza di appello). La mancata impugnazione di tale ratio decidendi rende, pertanto, il motivo inammissibile, poichè dal suo (sia pur del tutto ipotetico) accoglimento non potrebbe derivare comunque la auspicata cassazione della pronuncia oggi gravata dinanzi a questa corte.

Con il secondo, terzo e quarto motivo, si denuncia, della sentenza impugnata, a vario titolo e sotto molteplici aspetti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, un vizio di insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

I motivi sono anch’essi, e tutti, irredimibilmente inammissibili.

L’art. 366 bis c.p.c., comma 2 (applicabile, nella specie, ratione temporis) prescrive, difatti, che, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità …. le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

La norma in parola deve essere interpretata, secondo l’insegnamento delle sezioni unite di questa corte, nel senso che, per ciascun motivo volto a denunciare un preteso deficit motivazionale sotto il profilo dell’insufficienza, è necessario che il ricorrente operi una sintesi funzionale all’esame del denunciato vizio da parte del giudice di legittimità: alla luce di dictum di cui a Cass. ss.uu.

20603/07, difatti, il sintagma “chiara indicazione del fatto controverso” in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero “le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione” comportano che la relativa censura debba contenere, al suo interno, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti onde non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Momento di sintesi che, in seno a ciascuno dei suindicati motivi, manca del tutto.

Con il quinto motivo, si denuncia violazione del comma 1, n. 3 c.p.c. per violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Nel procedimento civile per il risarcimento del danno conseguente a reato di falsa testimonianza resa nel processo penale, nel caso in cui gli accusati di falsa testimonianza, con il loro comportamento processuale non mettano in discussione quanto riferito al giudice penale e non contrastino le prove sulla falsità delle loro deposizioni dedotte dalla loro controparte in giudizio, sussiste violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. se il giudice pone a fondamento della decisione non le prove dedotte nel giudizio civile dalle parti, ma soltanto le proprie affermazioni non sorrette da prove, volte a giustificare gli accusati del reato di falsa testimonianza per aver riferito al giudice penale che il fatto sarebbe avvenuto in un momento che lo stesso giudicante civile esclude che il fatto possa essere avvenuto.

Il quesito è patentemente inammissibile.

La sua formulazione, difatti, urta contro tutti i criteri indicati da questa corte regolatrice in subiecta materia, essendo ormai ius receptum il principio secondo il quale il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica unitaria (e non, come nella specie, frammentata o frazionata) della questione, onde consentire alla corte di cassazione l’enunciazione di una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata sulla base di argomentazioni giuridiche attinenti al caso concreto (e non, come nella specie, del tutto fuori fuoco rispetto alla corretta motivazione della corte territoriale, del tutto esente dai vizi logico-giuridici denunciati). Ed è del pari inammissibile il motivo di ricorso sorretto da un quesito (quale quello di specie) la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire (il preteso) errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (Cass. 25-3-2009, n. 7197), onde (Cass. 19-2-2009, n. 4044) il quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a corredo del ricorso per cassazione non può mai risolversi nella generica richiesta (quale quelle di specie) rivolta al giudice di legittimità di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, ma deve investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa di segno opposto: non senza considerare, ancora, che le stesse sezioni unite di questa corte hanno chiaramente specificato (Cass. ss. uu. 2-12-2008, n. 28536) che deve ritenersi inammissibile per violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ. il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi sia accompagnata dalla formulazione di un quesito di diritto che si risolve in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice.

La corretta formulazione del quesito esige, in definitiva (Cass. 19892/09), che il ricorrente dapprima indichi in esso la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico, infine formuli il principio giuridico di cui chiede l’affermazione, onde, va ribadito (Cass. 19892/2007) l’inammissibilità del motivo di ricorso il cui quesito si risolva (come nella specie) in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo.

Nessuno dei suddetti canoni ricostruttivo/espostivi risulta nella specie rispettato.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato nel suo complesso inammissibile.

La disciplina delle spese segue – giusta il principio della soccombenza – come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 1500, di cui Euro 200 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2011

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