Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23288 del 05/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 05/10/2017, (ud. 22/06/2017, dep.05/10/2017),  n. 23288

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4114/2014 proposto da:

A.M.C., C.G., elettivamente domiciliate in

ROMA, VIA F. PAULUCCI DE’ CALBOLI 54, presso lo STUDIO PAPANDREA E

STANISCI, rappresentate e difese dagli avvocati GIUSEPPE

D’ALESSANDRO, GIANCARLO GALESI;

– ricorrente –

contro

F.G., CI.GR., AL.RO., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA NICOLO’ TARTAGLIA 5, presso lo studio

dell’avvocato SANDRA AROMOLO, rappresentati e difesi dagli avvocati

FRANCESCO GAETANO SPATARO, CLAUDIO BELLANTI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1393/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 12/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 22/06/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. A.M.C. e C.G. hanno proposto ricorso per cassazione, contro F.G., Ci.Gr. e Al.Ro., avverso la sentenza n. 1393/2013 con cui la Corte d’Appello di Catania ha riformato la sentenza n. 303/11 emessa in prime cure dal Tribunale di Caltagirone il 28 luglio 2011.

2. Il ricorso è affidato a due motivi.

Gli intimati resistono con controricorso.

3. Essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., nel testo modificato dal D.L. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197 del 2016, è stata formulata dal relatore proposta di definizione del ricorso con declaratoria di inammissibilità ed è stata fissata con decreto adunanza della Corte. Il decreto e la proposta sono stati notificati all’avvocato dei ricorrenti.

4. Non v’è stato deposito di memorie.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. Il Collegio condivide la proposta del relatore.

2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per violazione dell’onere di indicazione specifica di indicazione dei documenti su cui il ricorso si fonda, previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Queste le ragioni.

I ricorrenti fondano le proprie doglianze sulla circostanza che la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto della clausola risolutiva espressa inserita nell'”atto di cessione di diritti immobiliari per servizi sottoposto a clausola risolutiva espressa”.

2.1. Senonchè, si limitano a trascrivere la dicitura della presunta clausola risolutiva, ma nulla dicono in merito all’ubicazione dell’atto in cui la stessa dovrebbe essere contenuta, al fine di consentirne l’esame e l’apprezzamento nell’economia dell’atto stesso ed anzi, nel commentare la clausola, fanno riferimento alle obbligazioni contenute nel paragrafo che la precede, di cui nulla dicono quanto al contenuto.

Com’è noto, l’art. 366 c.p.c., n. 6, richiede, a pena di inammissibilità, “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”. Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha da tempo precisato che “Il ricorrente in Cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando espressamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.” (Cass. n. 22303/2008); “Il soddisfacimento del requisito postula che nel ricorso sia specificatamente indicato l’atto su cui esso si fonda, precisandosi al riguardo che incombe sul ricorrente l’onere di indicare non solo il contenuto di tale atto, trascrivendolo o riassumendolo, ma anche in quale sede processuale lo stesso risulta prodotto. L’inammissibilità prevista dalla richiamata norma, in caso di violazione di tale duplice onere, non può ritenersi superabile qualora le predette indicazioni siano contenute in altri atti, posto che la previsione di tale sanzione esclude che possa applicarsi il principio, applicabile alla sanzione della nullità, del cosiddetto raggiungimento dello scopo, sicchè solo il ricorso può assolvere alla funzione prevista dalla suddetta norma ed il suo contenuto necessario è preordinato a tutelare la garanzia dello svolgimento della difesa dell’intimato, che proprio con il ricorso è posto in condizione di sapere cosa e dove è stato prodotto in sede di legittimità” (Cass. ord. n. 15628/2009).

Orbene, nel caso di specie manca qualsivoglia indicazione in merito tanto al contenuto dell’atto di cessione su cui il motivo di ricorso si fonda per quanto non attiene alla clausola de qua, quanto sulla sua collocazione processuale. Pertanto, in nessun modo si consente alla Corte, se non attraverso una non dovuta attività di ricerca ulteriore rispetto al ricorso e tra l’altro di esito incerto, di avere adeguata contezza del contenuto dell’atto in questione.

Il motivo di ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.

2.2. Il Collegio, in aggiunta al rilievo della proposta del relatore, ritiene che il motivo sarebbe stato comunque inammissibile se, superando – in denegata ipotesi la carenza di osservanza dell’art. 366, n. 6 citato – si fosse potuto procedere ad esaminarne la prospettazione al lume del tenore della sentenza impugnata.

Invero, all’esito emergerebbe che la prospettazione del motivo non risulta in alcun modo correlata alla motivazione della sentenza impugnata e, dunque, dovendo il motivo di ricorso per cassazione, come ogni motivo di impugnazione, necessariamente risolversi in una critica alla motivazione della sentenza impugnata, risulterebbe inammissibile per inidoneità allo scopo (da ultimo, recentemente, Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017).

Invero, mentre nella illustrazione del motivo si sostiene che la corte territoriale avrebbe violato la logica dell’applicazione della regula iuris che si deve applicare allorquando le parti, con clausola risolutiva espressa, hanno individuato un certo inadempimento come giustificativo della risoluzione, così sottraendo al giudice la possibilità di apprezzane l’importanza alla stregua dell’art. 1455 cod. civ., la lettura della sentenza palesa che a corte territoriale, riferendo che la clausola prevedeva come prestazione quella relativa a “tutti i servizi e l’assistenza per la cura della casa e della persona (necessari) per tutti i bisogni della vita”, ha inteso che l’obbligazione al cui inadempimento la clausola ricollega la risoluzione non poteva essere intesa – come si era prospettato a fondamento della domanda – come concernente il non dover essere l’assistita lasciata sola 24 ore su 24, cioè sia di giorno che di notte vita natural durante, bensì, alla stregua del criterio esegetico della buona fede, nel senso che la presenza presso il domicilio fosse ricollegata e “necessaria per la cura della persona e per i bisogni di vita della beneficiaria e ciò con specifico riferimento alle di lei condizioni personali al tempo in cui siffatta reclamata modalità di assistenza sia venuta a mancare”.

Ebbene, in tal modo la corte territoriale ha proceduto ad un’esegesi del contenuto della clausola diretta ad individuare l’obbligazione cui l’effetto risolutivo era ricollegato e il motivo di ciò si disinteressa, sicchè appare anche chiaro come e perchè si sia astenuto dal riferire il contenuto della clausola risolutiva, invece individuato dalla sentenza impugnata.

3. Inoltre, si rileva, conforme alla proposta del relatore, un’ulteriore causa di inammissibilità con riferimento al secondo motivo di ricorso, con cui si fa valere il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, al di fuori dei casi in cui ne è consentita la proponibilità.

Tale motivo, infatti, non deduce la violazione del detto paradigma secondo i parametri individuati da Cass., Sez. Un. nn. 8053 e 8054 del 2014, in quanto non lamenta che sia stato omesso l’esame di un fatto nei termini da tali decisioni individuati.

Invero nell’esposizione del motivo i ricorrenti, dopo aver riferito la capitolazione probatoria testimoniale articolata in primo grado con la memoria ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5, ed avere detto che il primo giudice non l’ammise, ma ammise solo la prova la articolata sotto il n. 4 dell’atto di citazione, deducono che, essendo stato per loro favorevole l’esito del giudizio di primo grado, fondato sul mancato assolvimento dell’onere della prova da parte de resistenti, era mancato il loro interesse a dolersi della mancata ammissione della prova di cui alla detta memoria. Sostengono, quindi, che, avendo “ritenuto non sufficiente il compendio probatorio”, il giudice di appello, “avrebbe dovuto ammettere i testi, non potendo addossare ai ricorrenti la colpa della mancata ammissione da parte del giudice di primo grado”.

3.1. Ebbene, tale assunto non è riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo la ricostruzione datane dalle Sezioni Unite.

Non solo: imputa in realtà alla Corte territoriale di avere commesso una violazione di norma del procedimento, atteso che in buona sostanza addebita alla Corte di non avere proceduto come doveva procedere: senonchè non solo non individua quale sia stata tale norma, ma, la prospettazione risulta anche priva di pregio, ove si intenda il motivo alla stregua di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013. Infatti, è da rilevare che, di fronte al rifiuto del primo giudice di ammettere le prove, parte ricorrente, costituendosi in appello, avrebbe dovuto svolgere, pur essendo vittorioso, appello incidentale condizionato censurando la valutazione di inammissibilità. Un onere della Corte territoriale di ammettere le prove sarebbe stato configurabile solo se tale appello fosse stato proposto e fosse stato fondato.

4. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna le ricorrenti alla rifusione alle resistenti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro millecinquecento, oltre Euro duecento per esborsi, le spese generali al 15% e gli accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 22 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2017

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