Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23281 del 23/10/2020

Cassazione civile sez. II, 23/10/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 23/10/2020), n.23281

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19480/2019 proposto da:

O.S., elettivamente domiciliato in VIA NICOLA SALA 29 –

BENEVENTO, presso l’avv. ROCCO BARBATO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avv. MASSIMILIANO CORNACCHIONE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, IN PERSONA DEL MINISTRO PRO TEMPORE

(OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 14/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere e Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

IN FATTO

O.S., cittadino (OMISSIS), adiva la Commissione territoriale di Caserta per ottenere la protezione internazionale o, in subordine, umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di essere nato e cresciuto nell'(OMISSIS); di avere una compagna e di essere padre di tre figli; di aver perso il padre nel 2012; e di essere espatriato, su consiglio della madre, per non dover avere problemi con uno zio, che aveva preteso da lui la cessione del terreno ereditato dal padre.

La Commissione prima, e il Tribunale di Napoli, poi, rigettavano la domanda. Osservava detto giudice che la vicenda narrata non comportava nè rischio di persecuzione nè trattamento disumano o degradante, non avendo il richiedente descritto episodi di violenza a suo danno, ed anzi avendo riferito che il terreno in questione era coltivato dalla madre senza problemi. Escludeva, altresì, la protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), non versando l’Edo State in una situazione di violenza indiscriminata, e quella umanitaria, poichè non erano stati documentati problemi di salute attuali.

Per la cassazione di tale provvedimento il richiedente propone ricorso, affidato a quattro motivi.

Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 8 e art. 14, lett. c), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 27, comma 1-bis, nonchè, in rapporto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la contraddittorietà ed illogicità della motivazione circa un fatto decisivo, nonchè l’errata od omessa valutazione delle emergenze processuali. Parte ricorrente lamenta che il Tribunale avrebbe omesso di considerare sia le minacce di morte ricevute dal ricorrente, sia la costante violazione dei diritti umani perpetrata in Nigeria. Aggiunge che le prime integrano gli estremi del danno grave per l’esposizione a trattamenti inumani e degradanti, i quali rilevano anche se provenienti da soggetti non statuali.

1.1. – Il motivo è infondato.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), secondo cui responsabili della persecuzione (che legittima il riconoscimento dello status di rifugiato) o del danno grave (che consente la protezione sussidiaria) possono essere anche “soggetti non statuali” (se i responsabili di cui alle lettere a e b dello stesso articolo, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi) va letto e interpretato in una con l’art. 14, lett. b) stesso D.Lgs., che qualifica danno grave la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine.

La stessa nozione di “trattamento inumano o degradante” rimanda all’applicazione di metodi o di procedimenti predeterminati (legali, paralegali o etno-culturali); e dunque ad un fattore efficiente di regola incompatibile con l’azione personale di singoli, mossi da motivazioni estranee a qualsivoglia dimensione superindividuale e privi della forza oppressiva propria delle aggregazioni di soggetti.

“Chi voglia ricomprendere le cosiddette “vicende private” tra le cause di persecuzione o danno grave, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale” – si legge nell’ordinanza n. 9043/19 di questa Corte Suprema – “è costretto a valorizzare oltre misura il riferimento ai “soggetti non statuali” indicati del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), come corresponsabili della persecuzione o del danno grave, insieme allo Stato, ai partiti e alle organizzazioni collettive. Questa tesi non è condivisibile per le seguenti considerazioni: – nella suddetta lett. c) dell’art. 5 i “soggetti non statuali” sono considerati responsabili della persecuzione o del danno grave solo “se (“può essere dimostrato che…”: cfr. art. 6 della direttiva n. 2004/83/CE) i responsabili di cui alle lett. a) e b) (vale a dire lo Stato e le organizzazioni di cui si è detto) non possono o non vogliono fornire protezione”, a fronte, evidentemente, di atti persecutori e danno grave non imputabili direttamente ai medesimi “soggetti non statuali”, ma pur sempre allo Stato o alle menzionate organizzazioni collettive; – del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, come si è detto, non comprende i “soggetti non statuali” tra quelli che possono offrire protezione, ma solo lo Stato, i partiti e le organizzazioni, in linea con il Considerando 19 della direttiva n. 2004/83/CE; analogamente, è significativo che gli atti persecutori – analogamente, è significativo che gli atti persecutori rilevanti sono quelli consistenti prevalentemente in azioni o provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridica, ecc. (art. 7, comma 2), quindi in comportamenti riconducibili o riferibili, di regola, allo Stato o a soggetti e organizzazioni collettive; – una interpretazione che, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai “soggetti non statuali”, faccia assurgere le controversie tra privati (o la mancata o inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE), oltre ad essere poco sostenibile sul piano sistematico; infatti, la protezione internazionale nelle forme del rifugio e in quella sussidiaria, come rilevato da questa Corte (Cass. n. 16362 del 2016), costituisce diretta attuazione del diritto costituzionale di asilo, che è riconosciuto allo straniero al quale sia pur sempre “impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche” (art. 10 Cost.), concetto questo cui sono estranee, in linea di principio, le vicende prive di rilevanza generale e in tal senso private, fermo restando che ai cittadini di paesi terzi e apolidi può essere “concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perchè bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale” dagli Stati membri (Considerando 9 della direttiva n. 2004/83/CE; analogamente, a norma dell’art. 6, comma 4, della direttiva 2008/115/CE, gli Stati membri possono riconoscere ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio sia irregolare un’autorizzazione o un permesso di soggiorno per “motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura”)”.

Potrebbe obiettarsi che non esiste una definizione di trattamento disumano o degradante che sia accettata a livello universale, pur essendo tale concetto richiamato da più fonti di diritto internazionale; che, nella giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 3 della relativa Convenzione, cui corrisponde l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), tende ad essere interpretato nel senso che anche atteggiamenti statali di mera tolleranza o connivenza rispetto a condotte di privati possono dar luogo a responsabilità dello stato; che nella sentenza Selmouni contro la Francia del 28 luglio 1999, si afferma che la nozione di trattamento disumano o degradante è di natura fluida e deve essere valutata in armonia con il progresso sociale; e che, come si afferma nella sentenza Rumor c/ Italia, 27 maggio 2014, “l’art. 1 della Convenzione, in combinato disposto con l’art. 3, pone in capo agli Stati l’obbligo positivo di assicurare che le persone sottoposte alla loro giurisdizione siano protette da qualsiasi firma di maltrattamento proibito ai sensi dell’art. 3, anche quando tale trattamento è posto in essere da privati (si vedano A. c. Regno Unito, 23 settembre 1998, p. 22, Reports of Judgments and Decisions 1998 VI; Opuz, sopra citato, p. 159; ed Eremia, sopra citato, p. 48). Tale obbligo dovrebbe comprendere l’effettiva protezione, inter alios, di un soggetto, o di soggetti identificati, dagli atti criminali di terzi, nonchè misure ragionevoli per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità erano, o avrebbero dovuto essere, a conoscenza (si vedano, mutatis mutandis, Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, p. 116, Reports 1998 VIII; E. e altri c. Regno Unito, n. 33218/96, p. 88, 26 novembre 2002; e J.L. c. Lettonia, n. 23893/06, p. 64, 17 aprile 2012)” (v. par. 58). Ma è altrettanto vero che ciò è stato affermato con riferimento alla posizione di persone minori d’età o di altri soggetti vulnerabili, come dimostra la stessa sentenza Rumor c/ Italia (relativa ad un caso di maltrattamento di una donna ad opera dell’ex compagno). Persone, tutte, aventi diritto alla protezione dello Stato da gravi violazioni dell’integrità personale, mediante un effettivo deterrente (v. lo stesso par. 58 della sentenza Rumor c/ Italia).

Ma non è questo il caso di specie, vista l’età del ricorrente (nato nel (OMISSIS)) e la ritenuta (sia pure ai diversi fini della protezione sussidiaria) assenza di una sua vulnerabilità.

Dunque, e in conclusione, nell’aderire al citato precedente n. 9043/19 di questa Corte Suprema, va ribadito che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b).

2. – Il secondo motivo deduce, in base dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità del decreto impugnato per omessa pronuncia e per violazione dell’art. 112 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 9, 11 e 17 art. 11, n. 1, lett. e) della direttiva n. 2013/32/UE, relativamente alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria, questa, di contenuto minore, da esaminare in subordine e solo dopo aver escluso quella, di contenuto maggiore, che nella specie non sarebbe stata esaminata.

2.1. – Il motivo è infondato.

Sulla base di un ragionamento paralogico, esso suppone erroneamente che il giudice debba di necessità operare distinte motivazioni di diniego dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria (intendi bene, soltanto per le ipotesi di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a e b), sol perchè questa è succedanea a quella. Per contro, una volta esclusa la pur astratta idoneità di vicende private a consentire la protezione internazionale, è di evidenza solare che la medesima motivazione di diniego regga il rigetto di entrambe le domande. Inesigibile il contrario (pena la nullità della sentenza per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili), il giudice non è tenuto a pedanti iterazioni del medesimo apprezzamento negativo.

3. – Il terzo motivo allega, in base dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e art. 14, lett. c) e 8 D.Lgs. n. 25 del 2008, nonchè la contraddittorietà della motivazione su di un fatto decisivo “e/o comunque per non avere il Collegio di prime cure tenuto in debita considerazione le dichiarazioni del richiedente e/o comunque per la mancata o errata valutazione di risultanze processuali”. Deduce parte ricorrente che la circostanza per cui il richiedente non corra alcun pericolo in una parte del Paese d’origine non può sorreggere il rigetto della domanda di protezione internazionale, poichè la facoltà alternativa del trasferimento interno, consentita dall’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, non è stata recepita dal legislatore nazionale. Lamenta, ancora, parte ricorrente, che è mancata ogni indagine sulla situazione socio-politica del Paese d’origine e di quello di transito (la Libia), e che non risultano indicati i relativi report consultati.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

In disparte la mescolanza di profili diversi e tra loro incompatibili (violazione di legge e motivazione contraddittoria), per di più inammissibilmente estesi alla pretesa insufficienza motivazionale (non più denunciabile ai sensi dell’art. 360 nuovo testo c.p.c., n. 5) e all’errata valutazione delle risultanze processuali (di per sè insindacabile in sede di legittimità); ciò a parte, la censura attribuisce al provvedimento impugnato una carenza inesistente. Il decreto del Tribunale ha indicato a sostegno della propria valutazione le COI (acronimo di Country of Origin Information) EASO (European Asylum Support Office) del giugno 2017 e dell’ottobre del 2018 (v. pag. 7 decreto impugnato), che escludono la zona dell’Edo State dai conflitti armati con il gruppo terroristico di (OMISSIS).

Pertanto, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (n. 26728/19).

Nella specie, parte ricorrente contrappone genericamente lo stesso rapporto EASO del 2017 e il sito Viaggiare Sicuri del Ministero degli Affari Esteri (v. pag. 10 del ricorso), che sconsigliano assolutamente i viaggi nel nord-est della Nigeria (Stati del Borno, Yobe e Adamawa) “e nel centro sud e sud est”, e in generale nelle maggiori città, permanendo su tutto il territorio della Nigeria “il rischio di episodi di violenza o di rapimenti, con finalità terroristiche o a scopo estorsivo”. Solo che tale richiamo (i) non è testuale ma riassuntivo, sicchè non può apprezzarsene l’esattezza; (ii) non è più aggiornato (quanto al report EASO) di quelli posti a base del decreto impugnato; (iii) contempla un sito ((OMISSIS)) che persegue una finalità diversa (assistenza dei connazionali all’estero) da quella delle fonti qualificate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; (iv) e soprattutto confonde la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, minaccia che legittima la protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), con il generico rischio Paese, riferito al suo generale grado di (in)sicurezza interna. Per contro, la norma da ultimo citata, nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12) predica che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; e che il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.

Quanto, infine, alla lamentata omessa considerazione della situazione del Paese di transito (la Libia), va osservato: a) che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (nn. 2355/20 e 30105/18); b) nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale Paese (nn. 31676/18 e 2861/18).

Nella specie, parte ricorrente non ha nè esposto specifiche ragioni di protezione internazionale con riferimento al Paese di transito, nè tanto meno allegato di dover rimpatriare, in ipotesi di diniego della protezione, in Libia o necessariamente tramite il territorio libico.

4. – Col quarto motivo è rappresentata, in rapporto dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 34, art. 10 Cost., art. 6, par. 4, della direttiva UE 115/08, nonchè della direttiva n. 95/11, e degli artt. 112 e 116 c.p.c., e in rapporto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa o quanto meno insufficiente motivazione circa un punto decisivo, “e/o comunque per non avere il Collegio di prime cure tenuto in debita considerazione le dichiarazioni del richiedente e/o comunque per la mancata o errata valutazione di risultanze processuali”. Sostiene parte ricorrente che il Tribunale, nel respingere la domanda di protezione umanitaria, ha mancato di esaminare l’esistenza dei requisiti previsti dal D.Lgs. n. 286 del 1998 e dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 34, segnatamente l’avvenuta integrazione del richiedente in Italia e la sua vulnerabilità estrema, per le persecuzioni subite in Nigeria e i maltrattamenti sofferti in Libia.

4.1. – Anche tale motivo è inammissibile.

In disparte, pur in tal caso, la medesima mescolanza inestricabile di profili diversi, al pari di quanto affligge il terzo mezzo d’impugnazione, si rileva che la critica si esaurisce nell’apodittica affermazione che il ricorrente si sarebbe integrato nella società italiana, senza, però, addurre alcuna decisiva e discussa circostanza di fatto, il cui esame il Tribunale avrebbe omesso, tale non essendo il solo esercizio di attività lavorativa in Italia (cfr. n. 4455/18); e nell’altrettanto generica affermazione che il richiedente non avrebbe in patria un luogo dove far ritorno.

Per il resto, il mezzo consta di considerazioni generali sulla natura della protezione umanitaria e della mera ripetizione, nei punti salienti, della vicenda narrata dal richiedente.

5. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

6. – Nulla per le spese, non avendo il Ministero dell’Interno svolto attività difensiva.

7. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2020

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