Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2328 del 29/01/2019

Cassazione civile sez. III, 29/01/2019, (ud. 04/04/2018, dep. 29/01/2019), n.2328

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLIVIERI Stefano – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. AMBROSI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18060/2016 proposto da:

D.P.N., D.P.C., DE.PI.CA. in

proprio e quali eredi di D.P.M., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI QUINZI 5, presso lo studio

dell’avvocato EMANUELE TOMASSI, rappresentati e difesi dall’avvocato

MARIANO GIULIANO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

GENRALI ITALIA SPA. già INA ASSITALIA in persona dei suoi

procuratori speciale Dott. CO.PI. e Dott.

P.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAVALIER D’ARPINO,

31, presso lo studio dell’avvocato ENRICA FERRARI, rappresentata e

difesa dall’avvocato RENATO MAGALDI giusta procura speciale in calce

al controricorso;

– controricorrente –

e contro

C.P., C.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3878/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 25/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/04/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. De.Pi.Ca., C. e N. ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3878/15 del 25 gennaio 2016, della Corte di Appello di Napoli, che – nel respingere il gravame da essi esperito contro la sentenza n. 485/10 del Tribunale di Avellino – ha confermato, per quanto qui ancora di interesse, il rigetto della domanda di risarcimento dei danni da costoro proposta, “iure proprio” e “iure hereditatis”, in conseguenza della morte della loro madre, D.P.M..

2. Dalla lettura della sentenza impugnata emerge che gli odierni ricorrenti adirono il Tribunale avellinese, affinchè si pronunciasse sulla domanda risarcitoria suddetta.

Dal ricorso risulta che la donna, morta il (OMISSIS), ventidue giorni dopo un sinistro stradale (consistito nel suo investimento, mentre era intenta ad attraversare la pubblica via nei pressi delle strisce pedonali), venne ricoverata, nell’immediatezza dell’incidente, presso una struttura ospedaliera, per esserne dimessa otto giorni dopo.

Dalla lettura del ricorso, inoltre, emerge che, incardinato un procedimento penale dalla Procura della Repubblica di Avellino a carico dell’investitore, per il reato di omicidio colposo, lo stesso ebbe a concludersi con provvedimento di archiviazione, in quanto la consulenza tecnica espletata in tale sede dal Pubblico Ministero stabilì l’impossibilità di accertare la causa del decesso, anche in ragione del fatto che l’esame autoptico venne condotto sul cadavere della donna, riesumato dopo otto mesi dalla sepoltura.

Nondimeno, gli odierni ricorrenti – come emerge, nuovamente, non “dalla narrazione fattuale” contenuta nel loro ricorso (e che precede l’illustrazione dei motivi), bensì dalla sentenza impugnata – ebbero ad instaurare controversia civile, di natura risarcitoria, non solo nei confronti dell’investitore ( C.F.) e della di lui moglie, quale proprietaria del veicolo ( C.P.), ma anche dell’assicuratore per la “RCA”, Assitalia-Le Assicurazioni di Italia S.p.a. (oggi Generali Italia S.p.a.), per il ristoro sia dei danni alla salute subiti da D.P.M., sia dei danni da essi lamentati, “iure proprio” e “iure hereditatis”, in relazione al decesso della stessa.

Il giudice di primo grado – con decisione confermata da quello di appello – rigettava la pretesa risarcitoria avanzata “iure proprio e iure hereditatis” dagli attori, in ragione della morte di D.P.M..

3. Avverso la sentenza della Corte partenopea hanno proposto ricorso per cassazione i D.P., sulla base di tre motivi.

3.1. Il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), si articola in due diverse censure.

E’. denunciato, per un verso, “travisamento della prova (non dei fatti) utilizzata in sentenza e contraddetta da uno specifico atto processuale avente carattere di decisività”, ovvero l’elaborato tecnico predisposto – in sede penale – dal consulente del Pubblico Ministero.

Per altro verso, si censura “omessa motivazione in ordine alla rinnovazione della CTU”, quantunque essa, in un simile ambito, presenti carattere “percipiente”.

Si assume, in particolare, che, mentre l’elaborato tecnico predisposto in sede penale (ed espressamente richiamato nella CTU disposta in sede civile) formulasse l’ipotesi di un’emorragia interna, i cui segni si sarebbero manifestatasi già nel corso della degenza della donna, le due pronunce di merito (travisando la portata di tale risultanza probatoria) hanno erroneamente escluso tale eventualità, e con essa la prova del nesso causale tra il decesso della D.P. e l’investimento di cui era stata vittima.

3.2. Con il secondo motivo è dedotta – ai sensi, congiuntamente, dell’art. 360 c.p.c., comma 1 nn. 3) e 5) – “violazione di legge” (e, segnatamente, dell’art. 2043 c.c., artt. 40 e 41 c.p., nonchè degli artt. 2728 e 2729 c.c., “sub specie” di omesso ricorso a parametri presuntivi ed indiziari) ed “omessa motivazione” in ordine all’accertamento del nesso causale.

Nella sostanza, i ricorrenti si dolgono del fatto che il giudice di appello (come già quello di prime cure) avrebbe disatteso la regola di accertamento del nesso causale, propria del sistema della responsabilità civile, ovvero quella “del più probabile che non”.

In particolare, la sentenza impugnata – nel recepire le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, a sua volta riportatosi a quelle della consulenza disposta in sede penale – non avrebbe tenuto del fatto che l’indagine tecnica sull’eziologia del decesso, svolta nell’ambito del procedimento incardinato innanzi alla Procura della Repubblica di Avellino per l’accertamento dell’eventuale responsabilità del C. per il reato di omicidio colposo, era stata compiuta alla stregua della regola di giudizio di certezza processuale “al di là del ragionevole dubbio”, e dunque diversa da quella (“più probabile che non”) operante in sede civile.

3.3. Infine, il terzo motivo ripropone – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – doglianze relative alla identificazione dei danni risarcibili ed alla loro quantificazione, rimaste assorbite nella decisione di ambo i giudici di merito, avendo essi escluso la responsabilità dei C. per il decesso della D.P..

4. Ha resistito la società Generali Italia con controricorso, per chiedere che l’avversaria impugnazione venga dichiarata inammissibile o comunque rigettata.

5. La controricorrente ha presentato memoria, ribadendo le proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso è inammissibile, sotto plurimi profili.

6.1. Esso, infatti, non soddisfa il requisito richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), non recando un’idonea esposizione dei fatti di causa, dato che, in particolare, nulla è riferito sulle difese della convenuta, nè sullo svolgimento del giudizio di primo grado e sulle ragioni della sentenza resa all’esito di esso e sul tenore dell’appello proposto dagli odierni ricorrenti.

Ciascuna di tali indicazioni, sebbene da darsi in modo sommario, era, nondimeno, necessaria.

Difatti, è stato già affermato da questa Corte che il requisito costituito dalla esposizione sommaria dei fatti, essendo considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione idonea garantire al giudice di legittimità “di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia ed oggetto di impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata” (Cass. Sez. Un., sent. 18 maggio 2006, n. 11653, Rv. 588760-01). La prescrizione del requisito “risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato” (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2003 n. 2602, Rv. 560622-01). Stante tale funzione, per soddisfare il requisito “de quo” occorre che il ricorso per cassazione rechi “l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria” (eccezioni e difese delle quali non vi è invece menzione nel ricorso), “lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni” (del pari del tutto carente nel caso di specie), “le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito” (Cass. Sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2015, n. 1926, Rv. 634266-01).

Resta inteso, infine, che detto requisito “deve essere assolto necessariamente con il ricorso e non può essere ricavato da altri atti, quali la sentenza impugnata o il controricorso, perchè la causa di inammissibilità non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo, peraltro, riferibile ad un unico atto” (Cass. Sez. 6-3, ord. 22 settembre 2016, n. 18623, Rv. 642617-01).

6.2. A quanto appena rilevato – che inficia di inammissibilità il ricorso nel suo complesso – vanno aggiunti ulteriori rilievi che attengono, invece, ai suoi singoli motivi.

6.2.1. Con riferimento al primo motivo, esso è inammissibile, innanzitutto, laddove censura un supposto “travisamento della prova”.

6.2.1.1. Vero è, come assumono i ricorrenti, che se “la denuncia di travisamento del fatto – che costituisce motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. e non di ricorso per cassazione – è incompatibile con il giudizio di legittimità perchè implica la valutazione di un complesso di circostanze che comportano il rischio di una rivalutazione del fatto non consentita al giudice di legittimità”, resta, nondimeno, inteso “che diversa da quest’ultima emergenza è l’ipotesi del travisamento della prova che implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale”; evenienza, quest’ultima, che ricorre solo quando “l’informazione probatoria riportata ed utilizzata dal giudice per fondare la decisione sia diversa ed inconciliabile con quella contenuta nell’atto e rappresentata nel ricorso o addirittura non esista” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 25 maggio 2015, n. 10749, Rv. 635564-01).

Nell’ipotesi che occupa, tuttavia, il denunciato travisamento addebitato alla CTU espletata in sede civile e, tramite il recepimento delle conclusioni ivi rassegnate, alle due pronunce dei giudici di merito – non investe affatto una “informazione probatoria” contenuta in uno “specifico atto processuale”, qui, in ipotesi, costituito dall’elaborato peritale predisposto nel procedimento penale. Il documento in questione, infatti, lungi dal riferire in termini certi l’esistenza di un’emorragia a carico di D.P.M. formulava una semplice ipotesi, fornendo, così, un elemento valutativo e non, dunque, un’informazione probatoria certa, da potersi ritenere “diversa e inconciliabile” con quella posta a fondamento della sentenza.

6.2.1.2. Del pari inammissibile è il motivo in esame laddove lamenta la mancata rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio da parte del giudice di appello. Rilievo, questo, che si impone alla stregua del principio secondo cui “il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 23 marzo 2017, n. 7472, Rv. 644826-01).

6.2.2. Egualmente inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso.

La censura è articolata, nuovamente, in punto di recepimento della CTU, la quale, a propria volta, avrebbe acriticamente fatto proprie le conclusioni dell’elaborato peritale predisposto in sede penale, senza, però, che nè l’ausiliario del giudice, nè le due decisioni intervenute in sede civile abbiano considerato la diversità esistente tra i due criteri (“oltre ogni ragionevole dubbio” e “più probabile che non”) previsti, quanto all’accertamento del nesso causale, nei due diversi settori del diritto.

Il motivo, tuttavia, non soddisfa i requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), non essendo riprodotte in ricorso le parti esatte della consulenza tecnica d’ufficio, disposta in sede civile, che evidenzierebbero tale acritica adesione agli esiti della relazione peritale in sede penale e, soprattutto, l’omessa considerazione delle peculiarità proprie della ricostruzione del nesso eziologico tra il fatto illecito e l’evento dannoso tipiche della responsabilità civile. Nè, d’altra parte, i ricorrenti hanno indicato “come” e “quando”, nel corso del giudizio di merito, essi abbiano denunciato il vizio da cui la consulenza civile risulterebbe affetta, ciò che nuovamente integra il già segnalato profilo di inammissibilità del motivo. Difatti, è principio affermato da questa Corte quello secondo cui la critica “della sentenza che recepisca le conclusioni della CTU non può limitarsi al rilievo di una insufficienza dell’indicazione delle ragioni del detto recepimento”, dovendo il ricorrente indicare – a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – “il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività””, ciò che è da escludersi qualora, come avvenuto nel caso in esame, nella “articolazione delle censure” non venga specificatamente indicato in quale parte la CTU “non si sia fatta carico di esaminare e confutare i rilievi di parte, limitandosi la ricorrente a giustapporre le proprie valutazioni (…) alle conclusioni dei consulenti”, senza che siano “precisati i passaggi della consulenza nella quale siano mancati l’esame e la confutazione dei rilievi di parte” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18391, non massimata).

Infine, è appena il caso di notare come, a superare il “deficit” di autosufficienza del motivo in esame, non può valere la circostanza che al ricorso siano state allegate sia la consulenza civile che quella penale, essendosi in questo modo soddisfatta solo la condizione di procedibilità prevista dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4). Opera, al riguardo, il principio secondo cui, il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere “di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile” (Cass. Sez. 6-3, ord. 28 settembre 2016, n. 19048, Rv. 642130-01).

6.2.3. Infine, è inammissibile anche il terzo motivo.

Esso pretende di veicolare questioni relative alla natura e quantificazione del danno risarcibile, rimaste superate – per assorbimento – dalla sentenza impugnata, avendo essa escluso la possibilità di ravvisare il nesso causale tra la condotta di investimento di D.P.M. ed il suo successivo decesso.

Ad “an debatur” escluso, dunque, le censure che investono profili attinenti al “quantum debeatur” risultano non correlarsi in alcun modo alla “ratio decidendi” della sentenza impugnata, sicchè deve farsi applicazione del principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico dei ricorrenti, liquidandole come da dispositivo.

8. A carico dei ricorrenti, attesa la declaratoria di inammissibilità della proposta impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando De.Pi.Ca., C. e N. a rifondere a Generali Italia S.p.a. le spese del presente giudizio, liquidate in Euro 8.600,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 4 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2019

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