Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23266 del 05/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 05/10/2017, (ud. 09/05/2017, dep.05/10/2017),  n. 23266

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7566-2015 proposto da:

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CITTADINO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO CITTADINO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

COLGATE PALMOLIVE ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 32,

presso lo studio dell’avvocato LUCIANO TAMBURRO, che la rappresenta

e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3973/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/09/2014 R.G.N. 5659/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/05/2017 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SCARNATI RAFFAELE per delega orale Avvocato

CITTADINO ANTONIO;

udito l’Avvocato TAMBURRO LUCIANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza in data 10/09/2014 la Corte d’Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale di Velletri n. 1580/2013, ha rigettato il ricorso di L.G., addetto a lavori ausiliari presso il laboratorio microbiologico della Colgate Palmolive Italia S.r.l., avverso il licenziamento intimatogli dalla Società a seguito del giudizio di parziale idoneità alle mansioni da ultimo svolte di livello E3, certificato dall’Asl il 26/10/2010, con prescrizioni di sicurezza a carico della datrice.

Nella lettera di licenziamento la Società, preso atto della sopraggiunta parziale inidoneità del L., aveva dato conto di aver compiuto una ricerca, sull’intera struttura aziendale e sull’intero organigramma per verificare la possibilità di un repechage, al cui esito negativo si era ritenuto che non vi fosse altra scelta che quella di licenziare il dipendente.

Il giudizio d’appello ha confermato la sentenza del Tribunale, nell’accertare che essendo stata riconosciuta una parziale idoneità lavorativa limitatamente allo svolgimento di lavori ausiliari presso il laboratorio microbiologico, esclusivamente per la “dispensazione di terreni di coltura”, ciò equivaleva sostanzialmente ad affermare l’esistenza di un’inidoneità permanente all’esercizio della prestazione, poichè la porzione di mansione ritenuta ancora effettivamente erogabile dal lavoratore era meramente residuale rispetto alla mansione da ultimo svolta, e di così modesta entità, da non giustificare l’impiego di un’unità esclusivamente assegnata. Poichè le risultanze del giudizio di merito, incontestate dal ricorrente, avevano condotto ad accertare che le mansioni residue non si rivelavano di per sè sufficienti, quantitativamente e qualitativamente, a costituire una posizione lavorativa senza alterare l’organizzazione aziendale, la Corte d’Appello ha ritenuto assolto da parte della datrice l’onere probatorio connesso al tentativo di “repechage” (fallito).

Avverso tale sentenza interpone ricorso in Cassazione L.G. con un’unica censura, cui resiste con controricorso Colgate Palmolive Italia s.r.l.

Entrambe le parti hanno depositato memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 codice di rito.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di ricorso la sentenza gravata è censurata per violazione dell’art. 112 c.p.c., l’art. 115 c.p.c. e art. 416 c.p.c., comma 2 e art. 421 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per omessa pronuncia sulla domanda o, in subordine, per travisamento dei fatti oggetto del giudizio, avendo considerato l’onere della prova a carico del ricorrente e ritenuto, erroneamente non contestata da quest’ultimo, la dedotta inapplicabilità della procedura del “repechage” da parte della Società.

Il ricorrente denuncia che le sue allegazioni avrebbero inequivocabilmente dimostrato che, al momento dell’intimazione del licenziamento, egli era capace di svolgere l’attività lavorativa, così come attestato dalle visite mediche di verifica dell’idoneità, compresa quella del 25/10/2010, in base alla quale la datrice si era risolta a licenziare, il cui contenuto riguardava soltanto le prescrizioni di sicurezza a suo carico, tra cui: non porre il lavoratore nella condizione di dover superare kg. sei di peso, consentirgli di mantenere la posizione eretta per non più di un’ora, evitare che tenesse movimenti ripetitivi per oltre un minuto, esporlo a temperature o a rumori soltanto entro limiti prestabiliti, regolarne il sedile affinchè venisse mantenuta una posizione ergonomica con appoggio degli avambracci sul piano del bancone. Le stesse circostanze non sarebbero poi state mai smentite dalla controparte, la quale nella memoria difensiva avrebbe, in più punti, riconosciuto di essersi sempre attenuta alle prescrizioni dei medici competenti, con ciò asseverando il giudizio tecnico di parziale idoneità.

Dovendo considerarsi questo il thema decidendum e probandum e non, invece, quello della sopravvenuta inidoneità psicofisica del ricorrente, essendosi basata la sentenza sull’inattuabilità di qualsiasi forma di “repechage”, e sulla mancata contestazione di tale assunto da parte del lavoratore, la Corte d’Appello avrebbe omesso di pronunciarsi in ordine al petitum;

essendosi basata la sentenza sull’inattuabilità di qualsiasi forma di “repechage”, e sulla mancata contestazione di tale assunto da parte del lavoratore, la Corte d’Appello avrebbe omesso di pronunciarsi in ordine al diritto di questi a svolgere le mansioni assegnategli fino al momento del licenziamento, vista la sua dichiarata idoneità.

Il motivo presenta elementi d’inammissibilità, ed è, inoltre, infondato.

L’elemento d’inammissibilità concerne l’erronea prospettazione della censura di omessa motivazione per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3. Come questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato, l’ipotesi in cui si lamenta l’omesso esame di una domanda va tenuta distinta da quella in cui se ne censura l’interpretazione da parte del giudice di merito, vertendosi in tema di mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato solo nella prima ipotesi. In tal caso, la parte ricorrente avrebbe un onere di prospettazione di un siffatto vizio quale error in procedendo, tale da radicare in capo al Giudice di legittimità il potere-dovere di procedere direttamente all’esame degli atti di causa e, in particolare, delle istanze e delle deduzioni delle parti (Cass. n. 1170/2008; Cass. n. 26598/2009).

Va confermato, perciò, il costante orientamento di questa Corte secondo cui la sentenza del giudice di merito, il quale non esamini e non decida una questione oggetto di specifica doglianza, è ricorribile in Cassazione per omessa pronuncia solo con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4 (tra le altre cfr. anche Cass. n. 178/2008); nella diversa ipotesi in cui il giudice abbia preso in considerazione la questione e l’abbia risolta senza giustificare, o non giustificando adeguatamente la decisione assunta, il vizio sarebbe denunciabile con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 nella “nuova” e più rigida formulazione.

Nel caso in esame il ricorrente si duole di presunte omissioni e di deficienze valutative delle evidenze probatorie emerse nel giudizio di merito; perciò, in sostanza, il ricorso si pone al di fuori dell’art. 360, n. 3, poichè risolvendosi nella richiesta di una nuova interpretazione del contenuto della domanda, pone a questa Corte una richiesta di accertamento del fatto o del suo apprezzamento tipicamente rimesso al giudice del merito.

Il motivo di censura, oltre che inammissibile per le ragioni sopra richiamate, è altresì infondato.

La sentenza gravata ha, infatti, esattamente individuato il thema decidendum, che ha ritenuto consistere non già – come auspicato da parte ricorrente – in un’omessa pronuncia sulla domanda di reintegrazione di un lavoratore parzialmente idoneo alla mansione assegnata, bensì nella legittimità del licenziamento di un lavoratore con idoneità fisica limitata alla specifica mansione di addetto ai lavori ausiliari presso il laboratorio microbiologico, esclusivamente “per la dispensazione di terreni di coltura”, che, in quanto meramente residuale, non era stata ritenuta sufficiente a far apprezzare alla Società un’utilità della prestazione capace di giustificare la conservazione del posto di lavoro. Nessuna doglianza può essere mossa a una siffatta motivazione, che esprime con chiarezza e coerenza logico-argomentativa la posizione della Corte territoriale in merito all’accertamento del fatto.

Quanto alla contestazione del ricorrente circa la presunta erroneità nella distribuzione degli oneri probatori in merito alla possibilità del “repechage” da parte del giudice d’Appello, la doglianza va parimenti ritenuta infondata.

Si afferma che la Società resistente avrebbe avuto l’onere di dimostrare l’inidoneità del lavoratore, contestando i precedenti medici d’idoneità certificati – con prescrizioni – dall’Asl, e impugnando al Tar il provvedimento di riforma del giudizio d’inidoneità permanente con riconoscimento in capo al ricorrente delle mansioni specifiche di addetto ai lavori ausiliari presso il laboratorio microbiologico, esclusivamente per la dispensazione di terreni di coltura, provvedimento su cui si era basato il licenziamento. Insistendo sulla legittimità dell’accertamento dell’idoneità del ricorrente, la doglianza si rivela, però, scarsamente focalizzata sul thema decidendum così come individuato dalla Corte territoriale, e non mostra di cogliere la vera chiave di lettura prospettata dal giudice d’Appello.

Questi ha imputato al lavoratore di non aver mai contestato che la specifica mansione di addetto ai servizi ausiliari per la sola “dispensazione di terreni di coltura” fosse insufficiente, di per sè, a costituire una posizione lavorativa senza alterare l’organizzazione aziendale, ed ha di conseguenza ritenuto raggiunta, da parte della datrice, la prova dell’impossibilità del “repechage”.

Anche sotto questo profilo, dunque, la Corte ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali in materia, ritenendo non soddisfatto da parte del lavoratore l’onere di allegazione circa la sufficienza della mansione specifica “residua” e, invece, assolto il diverso onere, a carico del datore, di dimostrare l’insussistenza di mansioni pari o equivalenti che potessero giustificare il mantenimento in servizio del lavoratore.

Il ricorso è infondato e, pertanto, va rigettato.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento nei confronti della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Udienza, il 9 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2017

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