Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23265 del 18/09/2019

Cassazione civile sez. II, 18/09/2019, (ud. 27/05/2019, dep. 18/09/2019), n.23265

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10005-2015 proposto da:

Q.G., T.M. e T.V.,

rappresentati e difesi dall’Avvocato GABRIELE FERABECOLI LUIGI ed

elettivamente domiciliati presso il suo studio in ROMA, VIA

TRIONFALE 5637;

– ricorrenti –

contro

M.M., MI.CO. e C.M., rappresentati e

difesi dall’Avvocato ANTONIO ALIMENTO, ed elettivamente domiciliati

presso il suo studio in ORIA (BR), VIA TORRE SUSANNA 18;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 663/2014 della CORTE d’APPELLO di LECCE,

depositata il 1.10.2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/05/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 20.7.2001 Q.G., T.M. e T.V. convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Brindisi, Sezione Distaccata di Francavilla Fontana, M.M., MI.CO. e C.M. esponendo: che con scrittura privata del 5.5.1999 Q.G. aveva promesso di acquistare, per sè o per persona da nominare, da M.M. e Mi.Co. una porzione di fabbricato da realizzare nel centro abitato di (OMISSIS), in base a progetto approvato e concessione edilizia; che con successiva scrittura privata del 20.11.1999 le medesime parti si accordavano per la vendita di altra porzione di fabbricato; che i promittenti venditori si obbligavano a prestare le garanzie di legge, con previsione della fine dei lavori il 30.5.2000; che la promissaria acquirente versava i corrispettivi contrattualmente dovuti, salvo sospenderli nel luglio 2000 perchè, contrariamente a quanto pattuito, i promittenti venditori non avevano ultimato l’opera alla data suddetta; che il 16.2.2001 veniva rogato l’atto di vendita con il quale Q.G. acquistava da M.M., Mi.Co. e C.M. il diritto di usufrutto sugli immobili oggetto dei preliminari e T.M. e T.V. la nuda proprietà degli stessi, con immissione nel possesso materiale e giuridico dell’immobile; il residuo corrispettivo dovuto veniva regolato con l’emissione di quattro assegni per un importo complessivo di Lire 25.000.000 e di un ulteriore assegno, senza data, per un importo di Lire 60.000.000, con l’intesa verbale che al 30.9.2001 le parti avrebbero rinegoziato l’obbligazione con dilazione della stessa; che il bene presentava vizi e difformità tali da incidere sull’idoneità della cosa all’uso convenuto e da diminuire in maniera apprezzabile il suo valore; in particolare, le unità vendute erano state realizzate in difformità rispetto alle autorizzazioni amministrative ed erano, di conseguenza, prive dei certificati di agibilità e abitabilità.

Ciò premesso, gli attori esperivano l’actio quanti minoris, chiedendo che somma di Lire 60.000.000, ancora da versare a saldo del corrispettivo, fosse portata in compensazione per i vizi e le difformità riscontrati.

Si costituivano in giudizio i convenuti, i quali eccepivano preliminarmente che il rogito notarile del 16.2.2001 avesse travolto i precedenti accordi e che le parti fossero decadute dalla denuncia dei vizi, ex art. 1495 c.c. poichè, contrariamente a quanto dedotto in citazione, le doglianze già formulate in sede stragiudiziale non erano mai state ritenute fondate dai venditori; nel merito richiamavano quanto già replicato, con nota del 16.5.2001, alle contestazioni formulate dagli attori in data 5.5.2001; chiedevano, in via riconvenzionale, il pagamento della somma di Lire 60.000.000 indicata nell’assegno privo di data, per il quale negavano che vi fosse mai stata intesa di dilazione.

Espletata CTU, interrogatorio formale delle parti e prova per testi, con sentenza n. 291/2010, depositata in data 6.12.2010, il Tribunale di Brindisi – Sezione Distaccata di Francavilla Fontana, accoglieva la domanda attorea riducendo il prezzo degli immobili oggetto di compravendita fino alla concorrenza di Euro 30.987,42 (pari a Lire 60.000.000); rigettava la domanda riconvenzionale dei convenuti diretta a ottenere il pagamento della somma di Lire 60.000.000 ancora dovuta dagli attori per l’acquisto dell’immobile; condannava i convenuti alle spese di lite. In particolare, il Giudice di primo grado rilevava che la pretesa fatta valere dagli attori si fondava sulla consegna di un bene immobile privo delle concessioni edilizie, che erano state oggetto di pattuizione e che dovevano ritenersi necessarie affinchè il bene compravenduto potesse assolvere alla sua funzione; riteneva, pertanto, sussistente un’ipotesi di consegna di aliud pro alio, specie per l’impossibilità di ottenere il certificato di abitabilità.

Contro la sentenza proponevano appello i soccombenti in base a tre motivi: l’avere il Tribunale erroneamente valutato le dichiarazioni testimoniali da cui si poteva desumere la prova che la trasformazione del vano garage in tavernetta era avvenuta solo per iniziativa e a spese degli appellati, conclusione confermata dai rilevi del CTU; l’avere il Tribunale erroneamente ritenuto la sussistenza di un’ipotesi di consegna di aliud pro alio, basandosi sulla mancanza del certificato di abitabilità, senza approfondire la causa di tale mancanza e i soggetti responsabili, non potendosi parlare di consegna di aliud pro alio a fronte di una situazione di fatto ben nota agli acquirenti per averla essi stessi concretizzata; il non poter trovare applicazione l’art. 1453 c.c., in tema di obblighi risarcitori del contraente inadempiente, bensì l’art. 1495 c.c. sulla garanzia per i vizi della cosa venduta, che, tuttavia, non era dovuta dai venditori per effetto della riconoscibilità e, anzi, della piena conoscenza dei vizi da parte degli acquirenti.

Si costituivano gli appellati chiedendo il rigetto del gravame poichè infondato in fatto e in diritto.

Con sentenza n. 663/2014, depositata in data 1.10.2014, la Corte d’Appello di Lecce accoglieva il gravame e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda avanzata dagli appellati e accoglieva la domanda riconvenzionale, proposta dagli appellanti, condannando gli appellati al pagamento della somma di Euro 30.987,42, oltre interessi legali dal 30.10.2001 al saldo, dichiarando compensate le spese di entrambi i gradi di giudizio. In particolare, la Corte d’Appello riteneva che dalle dichiarazioni testimoniali fosse emerso che la trasformazione del vano garage in tavernetta fosse avvenuta a cura e spese dei promissari acquirenti, che avrebbero potuto accedere liberamente all’immobile avendone le chiavi, pur non essendone ancora proprietari; per cui se la difformità dell’immobile rispetto alla concessione edilizia, che aveva reso impossibile il rilascio della licenza di abitabilità, era stata determinata dagli attori-appellati, in loro favore non poteva essere riconosciuto alcun danno risarcibile, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1.

Avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione Q.G., T.M. e T.V. sulla base di due motivi, illustrati da memoria; cui resistono M.M., Mi.Co. e C.M. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1227,1453 e 1460 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″”, là dove la Corte d’appello erroneamente ha attribuito alla circostanza che i lavori fossero stati commissionati dai ricorrenti (anche se il cantiere era ancora nella piena proprietà e disponibilità dei resistenti) la capacità di rendere gli stessi unici responsabili del danno, che il Tribunale aveva ritenuto risarcibile, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1. Viceversa, come affermato dal Giudice di primo grado, doveva escludersi che le difformità potessero essere ascritte a fatto degli attori, residuando ogni responsabilità in capo ai convenuti. Anche ove i ricorrenti avessero fatto realizzare alcune delle modifiche che rendevano l’immobile privo dei requisiti necessari per ottenere il certificato di abitabilità, ciò non fa comunque venire meno la responsabilità dei venditori per la consegna di aliud pro alio, anche perchè i venditori-costruttori (come riconosciuto dalla Corte di merito) avevano consentito ai promissari acquirenti di operare gli interventi che determinavano le irregolarità edilizie. Risulta, pertanto, erroneo il richiamo all’art. 1227 c.c., comma 1, poichè la responsabilità per l’impossibilità di ottenere il certificato di abitabilità era dei venditori, essendo dunque applicabile il disposto di cui all’art. 1453 c.c. Pertanto, nel giudizio di secondo grado non sono stati correttamente presi in esame i profili di inadempimento dei resistenti, che avrebbero portato a un riconoscimento della loro esclusiva responsabilità ex art. 1218 c.c. o, quantomeno, a una corretta applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1, comportante una ponderata graduazione delle diverse responsabilità e la diminuzione del risarcimento in favore dei ricorrenti, ma non la sua esclusione.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – La Corte d’Appello muove dal corretto richiamo ai principi giurisprudenziali consolidati, secondo cui, nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito essenziale, poichè incide sull’attitudine del bene ad assolvere la sua funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità, per cui, il mancato rilascio della licenza di abitabilità integra inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio, adducibile da parte dell’acquirente in via di eccezione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, a meno che egli non abbia rinunciato al requisito dell’abitabilità o esonerato comunque il venditore dall’obbligo di ottenere la relativa licenza (Cass. n. 1514 del 2006; cfr. Cass. n. 23157 del 2013; Cass. n. 1701 del 2009). E rileva come tale esplicita rinuncia, nella specie, non vi fosse stata, benchè (come anche desumibile dalle dichiarazioni rese dagli attori in sede di interrogatorio formale), questi ultimi fossero del tutto consapevoli di acquistare un immobile nel quale la trasformazione di un garage in tavernetta non fosse giuridicamente regolare.

Ciò premesso, tuttavia, la Corte di merito rileva altresì che, quanto alle pretese risarcitorie degli originari attori, emergeva (dal contesto probatorio acquisito) che la trasformazione di un garage in tavernetta fosse avvenuta a cura e spese dei promissari acquirenti. E poichè la difformità dell’immobile rispetto alla concessione edilizia (derivante dalla predetta trasformazione del garage in tavernetta) che ha reso impossibile, senza una preventiva procedura di regolarizzazione, il rilascio della licenza di abitabilità era stata determinata dagli stessi attori, la Corte distrettuale osserva che in favore di questi ultimi (in quanto unici responsabili del danno) non possa essere riconosciuto alcun risarcimento ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1. Ciò in quanto, là dove la causa autonoma ed esclusiva del danno dedotto in giudizio sia ascrivibile al comportamento colposo degli stessi danneggiati, va esclusa qualsiasi responsabilità risarcitoria del venditore per la mancata consegna del certificato di abitabilità (sentenza impugnata, pagine 8-10).

1.3. – Trattasi di motivazione adeguata e coerente, rispetto alla quale vale il consolidato principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1227,1453 e 1460 c.c., nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”, per avere la Corte di merito omesso l’esame di un fatto decisivo, ritenendo che il Tribunale avesse liquidato solo gli importi relativi alla trasformazione del seminterrato, riconducendo solo a tale trasformazione l’impossibilità di ottenere il certificato di abitabilità. Viceversa, il Giudice di primo grado, condividendo le risultanze della CTU, aveva evidenziato come fosse l’opera edilizia nel suo intero ad essere stata edificata con anomalie.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Va rilevato al riguardo che, in disparte il rilievo della genericità delle deduzioni indicate, non meglio specificate, che renderebbe comunque l’omissione priva di decisività, la censura (così come formulata) non concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondarlo, bensì la mera valutazione di deduzioni difensive, non inquadrabile in quanto tale nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (Cass. sez. un. 8053 del 2014; cfr. Cass. n. 27415 del 2018; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).

2.3. – A ciò va aggiunto che è principio, altrettanto consolidato, quello secondo cui i requisiti di contenuto e forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, debbano essere assolti necessariamente con il ricorso e non possano essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla stessa indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 2018; conf. Cass. n. 20694 del 2018). Il ricorrente ha, dunque, l’onere (che nella specie non risulta esser stato assolto) di indicare nel ricorso il contenuto rilevante dello stesso, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 5478 del 2018; Cass. n. 22576 del 2015; n. 16254 del 2012); potendo solo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso) (Cass. n. 17168 del 2012). Il ricorrente dunque deve indicare – mediante anche la trascrizione, ove occorra, di detti atti nel ricorso – la risultanza che egli asserisce essere decisiva e non valutata o insufficientemente considerata, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).

Nella specie, i ricorrenti – pur facendo ripetutamente riferimento alle argomentazioni ed agli esiti della esperita CTU non ne hanno riportato il contenuto necessario e sufficiente onde poterne valutare la asserita più corretta diversa interpretazione, limitandosi a trascriverne inidonei non coerenti stralci (talvolta di poche parole), interpolati dalle argomentazioni di parte.

3. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2019

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