Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23255 del 15/11/2016

Cassazione civile sez. II, 15/11/2016, (ud. 30/09/2016, dep. 15/11/2016), n.23255

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Muro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6824/2012 proposto da:

LUDOMARI SRL IN LIQUIDAZIONI, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DI VILLA EMILIANI 24, presso lo studio dell’avvocato

ENRICO DE ROSSI, che la rappresenta e difende giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.M.T., R.A., R.S.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA A. FARNESE 7, presso lo

studio dell’avvocato CLAUDIO BERLITI, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ALESSANDRO COGLIATI DEZZA, in virtù di

procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

CONDOMINIO DI (OMISSIS), G.M., + ALTRI OMESSI

– intimati –

e contro

F.L., C.A., F.R., F.S.,

M.O., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA UGO OJETTI 16,

presso lo studio dell’avvocato LUCIANO FANTI, rappresentati e difesi

dall’avvocato DANIELA SPANO’ in virtù di procura a margine del

controricorso;

– ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 3976/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/09/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/09/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Enrico De Rossi per la ricorrente, l’Avvocato

Alessia Cascioli per delega dell’Avvocato Cogliati Dezzi e

l’Avvocato Daniela Spanò per i controricorrenti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto dei

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 05/04/1995 la LU.DO.MA.RI. s.r.l. in liquidazione, premesso di essere proprietaria dell’appartamento sito in (OMISSIS) facente parte del relativo complesso immobiliare condominiale, conveniva in giudizio il Condominio dello stabile e la signora Ga.En., locataria del suddetto appartamento, chiedendo fosse accertato l’assunto diritto di proprietà ed ordinato il rilascio dell’immobile da parte di chi lo occupava o possedeva.

Costituitosi in giudizio, il Condominio di (OMISSIS) eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva in quanto l’appartamento in questione era sempre stato ritenuto di proprietà comune ed era quindi necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini. Assumeva il convenuto Condominio che gli amministratori succedutisi nel tempo avevano sempre avuto la disponibilità dell’appartamento, che era stato adibito ad alloggio del portiere, e che i relativi oneri condominiali erano sempre stati ripartiti tra i condomini, compresa la società attrice, in base alle tabelle millesimali delle quote di proprietà, atteso che all’appartamento in questione non era stata attribuita caratura nelle tabelle di proprietà.

Intervenivano in giudizio, ex art. 105 c.p.c., commi 1 e 2, F.N. e M.O. i quali, dopo aver esposto di aver avuto una controversia con la LU.DO.MA.RI. s.r.l. conclusasi il 13/02/1974 con una transazione cui era stato allegato un nuovo regolamento condominiale predisposto dalla società, con il quale si sostituiva il precedente e si riconosceva la proprietà comune dell’appartamento de quo adibito ad abitazione del portiere, confermavano quanto sostenuto dal Condominio in ordine alla ripartizione degli oneri relativi all’appartamento e che lo stesso non si vedeva attribuito alcun millesimo della caratura delle proprietà.

Concludevano gli intervenuti chiedendo fosse riconosciuto il loro diritto di comproprietà pro quota sull’appartamento oggetto del giudizio, con ordine al competente Conservatore dei RR.II. di procedere alle relative trascrizioni.

Autorizzata l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini ed assolto l’incombente da parte degli intervenuti F.N. e M.O., con successivi atti di intervento si costituivano S.M.T., R.S., R.A., P.R., Pe.St., Po.It., C.A., G.A. e D.P.A. i quali facevano proprie le deduzioni e le conclusioni del F. e della M..

Espletata l’istruttoria, con sentenza n. 30717/04 del 13/10/2004, depositata il 15/11/2004, il Tribunale di Roma, Sezione stralcio in composizione monocratica, riconosceva la proprietà comune del controverso appartamento sulla base della manifestazione di volontà della LU.DO.MA.RI. s.r.l. di cui al nuovo regolamento condominiale del 1974, e conseguentemente rigettava la domanda della stessa, la condannava alle spese del giudizio, dichiarava la suddetta proprietà comune dell’appartamento ed ordinava al competente Conservatore dei RR.II. di eseguire le relative trascrizioni.

Proponeva appello la LU.DO.MA.RI. in liquidazione deducendo che il primo decidente aveva errato nella individuazione dell’immobile oggetto di causa in quanto quello indicato nel regolamento condominiale del 1971 non era quello di cui all’interno (OMISSIS) della palazzina (OMISSIS); che il Tribunale aveva errato nel ritenere che le fosse opponibile il nuovo regolamento condominiale del 1974 in quanto non approvato da tutti i condomini, con la conseguenza che l’appartamento era rimasto di sua proprietà e ne chiedeva legittimamente la restituzione dopo la cessazione della destinazione ad abitazione del portiere; che era stata erroneamente accertata la proprietà dell’appartamento in capo al Condominio passivamente non legittimato e che era stata erroneamente accolta la domanda degli intervenuti in causa nonostante l’azione derivante dal nuovo regolamento condominiale del 1974 fosse prescritta e non fosse maturata l’usucapione, non essendo sufficiente a costituire il diritto di proprietà comune il mero pagamento degli oneri dell’appartamento ripartiti sulla base delle tabelle millesimali.

Concludeva chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza con l’accoglimento della domanda proposta in primo grado.

Si costituiva il Condominio di (OMISSIS) e, dopo aver ribadito la sua carenza di legittimazione passiva, deduceva che in effetti il Tribunale gli aveva erroneamente attribuito la proprietà dell’appartamento oggetto del contendere, che avrebbe invece dovuto essere attribuita ai singoli condomini pro quota, e concludeva chiedendo il rigetto di tutte le domande proposte nei confronti del Condominio stesso.

Si costituivano anche M.O., F.R., F.L. e F.S., la prima in proprio e quale erede di F.N. e gli altri solo nella qualità di eredi del F., i quali eccepivano l’infondatezza dei motivi d’appello, ribadivano le proprie deduzioni e richieste di cui al primo grado e proponevano a loro volta appello incidentale per il mancato accoglimento della domanda di riconoscimento della loro comproprietà proposta in riconvenzionale davanti al Tribunale.

Si costituivano altresì S.M.T., R.S. e R.A. le quali eccepivano l’infondatezza del primo motivo d’appello per essere sempre stato certo quale fosse l’appartamento oggetto del contendere e che da sempre, col pieno consenso della società appellante, era stato adibito ad abitazione del portiere dello stabile, eccepivano poi la piena opponibilità della manifestazione di volontà espressa dalla stessa appellante nel secondo regolamento di condominio, aggiungendo che in ogni caso la proprietà del bene era stata usucapita.

Si costituivano altresì C.A., Ca.Im., Co.Si. e Co.Da. che a loro volta instavano per il rigetto del gravame.

Nella contumacia degli altri condomini appellati, la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 3976 del 28 settembre 2011, dichiarava che l’appartamento oggetto di causa era di proprietà comune dei proprietari delle unità immobiliari costituenti il complesso condominiale in (OMISSIS), in proporzione alle carature millesimali, ordinando al Conservatore di procedere alla relativa trascrizione.

Quanto al primo motivo di appello, con il duale la società evidenziava che il Tribunale aveva ravvisato l’identità dell’appartamento oggetto di causa, con quello invece adibito ad alloggio del portiere nel primo regolamento del 1971, osservava che si trattava di errore irrilevante in quanto l’oggetto del contendere era stato sempre riferito all’individuazione della proprietà dell’appartamento di cui alla palazzina (OMISSIS) interno (OMISSIS).

In relazione al secondo motivo di appello, concernente la pretesa inopponibilità all’appellante del secondo regolamento di condominio, in quanto non approvato e sottoscritto da tutti i condomini, rilevava che a seguito dell’impugnazione del primo regolamento di condominio del 1971, sempre predisposto alla società originaria unica proprietaria del complesso immobiliare, da parte dei condomini F.N. e M.O., venne sottoscritta una transazione con la quale si prevedeva che per effetto di un nuovo regolamento di condominio, allegato alla stessa transazione, l’appartamento oggetto di causa veniva adibito ad alloggio del portiere, senza più alcuna riserva di proprietà in favore della venditrice, come invece avvenuto nel primo regolamento. Il regolamento de quo è stato approvato all’unanimità dei presenti nel corso di una successiva assemblea condominiale, ma sebbene non risulti sottoscritto da tutti i condomini nè trascritto, da allora ha avuto sempre compiuta esecuzione.

Alla luce di tali circostanze, con il trasferimento delle singole unità immobiliari si è avuto anche il trasferimento pro quota delle parti comuni, e senza che successivi regolamenti possano avere la possibilità di costituire, modificare o estinguere alcun diritto soggettivo dei singoli condomini, potendo al più avere un’efficacia ricognitiva.

Orbene ad avviso della Corte distrettuale il trasferimento pro quota in favore dei singoli codomini dell’unità adibita a casa del portiere non è avvenuta con il regolamento del 1974, in quanto trattandosi di bene rientrante tra quelli comuni ex art. 1117 c.c., tale trasferimento era avvenuto già all’atto della stipula degli atti di compravendita.

Doveva poi ritenersi che gli effetti della transazione intervenuta tra la società ed alcuni condomini si ripercuotesse anche a favore degli altri comproprietari.

In ogni caso, anche a voler negare la portata ricognitiva del regolamento del 1974, in ogni caso alla data di proposizione del giudizio di primo grado ed anche alla data di cessazione del servizio di portineria (giugno 1994), erano comunque maturati i tempi per l’usucapione della proprietà in capo ai singoli condomini.

Quanto al terzo motivo di appello, riteneva effettivamente che andasse corretto il dispositivo della sentenza gravata, occorrendo riconoscere che l’acquisto) della proprietà del bene era avvenuto da parte dei singoli condomini e non anche ad opera del condominio. Infine, nell’esaminare il quarto motivo di appello, circa l’erroneo accoglimento della domanda avanzata dai condomini intervenuti nel corso del giudizio, richiamava le precedenti argomentazioni in ordine alla validità ed efficacia del regolamento condominiale del 1974, e reputava che le stesse fossero idonee a sopportare anche la fondatezza della domanda in tal senso proposta, con il conseguente rigetto del motivo di appello.

Per la cassazione della sentenza della corte distrettuale ha proposto ricorso la LU.DO.MA.RI S.r.l., sulla base di un motivo.

S.M.T., R.S. e R.A. hanno resistito con controricorso.

M.O., F.R., F.L. e F.S., quali eredi di F.N., e C.A. hanno resistito con controricorso proponendo ricorso incidentale sulla base di un motivo. Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa fase.

Nell’imminenza dell’udienza la ricorrente ha depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente rileva la Corte che il ricorso, sebbene relativo all’impugnazione di una sentenza che imponeva la partecipazione al giudizio di tutti i condomini, non risulta essere stato notificato nei confronti di tutti i soggetti che hanno preso parte al precedente giudizio di merito, non essendo stato infatti notificato anche nei confronti di M.S..

E’ bensì vero che nella specie si versa in un caso di litisconsorzio necessario, anche nel grado di impugnazione, per cui sarebbe indispensabile l’impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti; con la conseguenza che dovrebbe disporsi, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, a cui il ricorso non è stato in precedenza notificato.

Senonchè, occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass. 17 giugno 2013 n. 15106; Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2008, n. 26373; Cass. Sez. 3, 7 luglio 2009, n. 15895; Cass., Sez. 3, 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., Sez. 3, 23 dicembre 2009, n. 27129).

In applicazione di detto principio, essendo il presente ricorso (per le ragioni che andranno ad esporsi nel prosieguo) prima, facie infondato, appare superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle detta parte, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.

2, Con l’unico motivo del ricorso principale articolato in più punti si denunzia l’omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su fatti decisivi per il giudizio, nonchè la violazione e erronea applicazione della normativa in tema di acquisto e trasferimento di proprietà immobiliari individuali e condominiali (artt. 922, 934 c.c., art. 1117 c.c., n. 2, artt. 1325, 1350, 1376, 1418 e 1158 c.c.).

In primo luogo la ricorrente evidenzia che effettivamente la domanda di rilascio avanzata aveva ad oggetto l’appartamento sito nella palazzina (OMISSIS), interno (OMISSIS), che è immobile distinto da quello ubicato nella palazzina (OMISSIS) ed individuato come interno (OMISSIS).

Il giudice di primo grado aveva in realtà confuso i due appartamenti, i quali nel corso degli anni erano stati adibiti ad alloggio del portiere, in relazione al diverso contenuto dei regolamenti condominiali redatti nel tempo.

Tuttavia, non può condividersi l’assunto della Corte distrettuale circa la sostanziale irrilevanza della confusione.

Ed, infatti, la società aveva costruito il complesso immobiliare oggetto di causa, divenendo proprietaria di tutte le unità immobiliari realizzate, e nell’alienare gli appartamenti edificati, essendosi riservata la possibilità di redigere il regolamento condominiale, aveva provveduto a tanto con regolamento del 1971, regolarmente trascritto, con il quale si prevedeva che fosse adibito a casa del portiere l’immobile ubicato nella palazzina (OMISSIS), del quale però se ne riservava proprietà esclusiva.

Emerge quindi che a tale data era questo l’immobile destinato a casa del portiere e quindi solo a tale appartamento poteva applicarsi la presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c..

L’appartamento di cui alla palazzina int. (OMISSIS) era invece rimasto in proprietà esclusiva della società costruttrice, nè poteva per lo stesso trovare applicazione la previsione di cui all’art. 1117 c.c..

A seguito della impugnativa del regolamento condominiale del 1971 proposta da alcuni condomini, era intervenuta transazione con la quale la società provvedeva a redigere un nuovo regolamento, che individuava come alloggio del portiere, e di proprietà comune, l’appartamento che è invece oggetto del presente giudizio, ma tale regolamento era approvato dall’assemblea del 31/1/1975, ma non all’unanimità, nè risultava essere stato sottoscritto da tutti i condomini, nè successivamente trascritto.

La conseguenza di tale situazione, a detta della ricorrente, è che l’immobile è rimasto di sua proprietà, sebbene gratuitamente concesso in comodato al condominio per l’esercizio del servizio di portierato, così che una volta cessato tale servizio, legittimamente poteva pretenderne il rilascio.

Il trasferimento della proprietà in favore dei condomini presupponeva, infatti, l’adesione unanime di tutti i condomini.

Inoltre non potrebbe nemmeno invocarsi l’usucapione, in quanto l’utilizzo del bene ad alloggio del portiere si è avuto solo dopo l’adozione della Delib. Assembleare 31 gennaio 1975, laddove la missiva inoltrata dalla società al condominio nel novembre del 1994, con la quale si chiedeva la restituzione dell’immobile, aveva prodotto l’interruzione del termine per usucapire.

La sentenza gravata non si sarebbe attenuta ai principi consolidati della giurisprudenza in terna di individuazione dei beni comuni di cui all’art. 1117 c.c., senza verificare che l’appartamento oggetto di causa non era adibito a casa del portiere al momento della nascita del condominio.

L’errore commesso ha indotto la corte di merito, altrettanto erroneamente, ad affermare che con gli originari atti di compravendita i condomini avessero acquistato i diritti pro quota anche sull’immobile di cui alla palazzina int. (OMISSIS).

Inoltre sarebbe erronea la decisione dei giudici romani laddove reputano che con l’atto di transazione e con la successiva redazione del nuovo regolamento, gli altri condomini abbiano acquistato la comproprietà dell’alloggio del portiere, posto che nella transazione avevano agito solo alcuni condomini, e non anche in rappresentanza degli altri, e che il regolamento nuovo, che appunto individuava come casa del portiere l’immobile di cui all’int. (OMISSIS), non era stato approvato dall’unanimità dei condomini.

Infine appariva altrettanto erronea la decisione di ritenere comunque realizzata l’usucapione, non essendo maturato il termine ventennale all’uopo previsto.

3. Con un unico motivo di ricorso incidentale M.O., anche in proprio, e F.R., F.L. e F.S., quali eredi di F.N., e C.A. lamentano che la Corte distrettuale avrebbe omesso di indicare la quota millesimale di loro spettanza sull’appartamento oggetto di causa, il che impedirebbe di poter procedere alla trascrizione della sentenza a loro favorevole.

4. Il ricorso principale è infondato e deve essere rigettato.

Indubbiamente colgono nel segno le critiche della ricorrente alla decisione gravata nella parte in cui ha ritenuto del tutto irrilevante la corretta identificazione del bene adibito a casa del portiere all’epoca della nascita del condominio, sul presupposto che nel presente giudizio, essendo controversa unicamente la proprietà dell’immobile di cui all’int. (OMISSIS) della palazzina (OMISSIS), non rilevasse che invece ab origine era diverso l’appartamento adibito a casa del portiere.

Nel caso di specie, come emerge dalla ricostruzione dei fatti compiuta dalla sentenza gravata, e non oggetto sul punto di contestazione, la ricorrente, nella qualità di costruttrice ed unica proprietaria del complesso immobiliare, nell’alienare le singole unità immobiliari, dando vita in tal modo al condominio, negli atti di vendita si era riservata il diritto, venendone con ciò delegata, a redigere il regolamento condominiale (facoltà questa della quale, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, è peraltro lecito dubitare; si veda ex multis Cass. n. 7359/1992, per la quale, l’obbligo genericamente assunto nei contratti di vendita delle singole unità immobiliari di rispettare il regolamento di condominio che contestualmente si incarica il costruttore di predispone, come non vale a conferire a quest’ultimo il potere di redigere un qualsiasi regolamento, così non può valere come approvazione di un regolamento allo stato inesistente, in quanto è solo il concreto richiamo nei singoli atti di acquisto ad un determinato regolamento già esistente che consente di ritenere quest’ultimo come facente parte per “relationem” di ogni singolo atto; conf. Cass. n. 2742/2012; Cass. n. 3140/2005).

Tuttavia nel provvedere a tale attività, discostandosi dagli impegni presi, individuava come casa del portiere l’immobile ubicato nella palazzina (OMISSIS), int. (OMISSIS), aggiungendo altresì che se ne riservava la proprietà esclusiva.

Trattasi pacificamente di immobile diverso per ubicazione e conformazione da quello oggetto di causa, e che in ragione della destinazione in concreto ricevuta, era suscettibile di rientrare nel novero dei beni comuni ex art. 1117 c.c., n. 2.

Tuttavia proprio la riserva di proprietà effettuata dalla società che contravveniva agli impegni che sarebbero stati presi con i singoli acquirenti, ha determinato la reazione giudiziaria di alcuni condomini, i quali avevano appunto lamentato l’illegittimità della condotta della costruttrice, che in tal modo veniva a sottrarre alla proprietà comune un bene che era destinato ad essere tale per la sua destinazione.

Il giudizio a tale scopo intentato è stato poi definito con la transazione dei 13 febbraio 1974, sottoscritta dai soli condomini attori ( F., M., Co., L. e Gu.) e dalla società, con la quale si dava atto che la stessa aveva predisposto un nuovo regolamento di condominio che differiva dal primo, oltre che per l’esclusione della riserva di proprietà sul bene adibito ad alloggio del portiere, anche per l’individuazione di una nuova unità immobiliare avente tale destinazione, e cioè quella di cui alla palazzina (OMISSIS), int. (OMISSIS), che è oggetto della domanda della società.

Si prevedeva però nella stessa transazione che il nuovo regolamento avrebbe sostituito quello preesistente, e che, previa approvazione da parte dei condomini, sarebbe stato poi trascritto a cura della LUDOMARI.

Il regolamento è stato però oggetto solo di una successiva approvazione da parte dell’assemblea del 31 gennaio 1975, assemblea però alla quale non avevano preso parte tutti i condomini, nè risulta che il regolamento sia stato sottoscritto per approvazione da parte dell’intera compagine condominiale, pur avendo poi ricevuto attuazione, sia per quanto attiene alla destinazione dell’immobile oggetto di causa, ad alloggio del portiere, sia per quanto attiene all’individuazione delle quote millesimali (che però in questa sede non rileva).

L’errore commesso dalla Corte d’appello risiede però nel fatto di avere ritenuto che con gli atti originari fosse stata trasferita la proprietà dei beni comuni, tra cui anche dei diritti sulla casa del portiere, e che la successiva individuazione ad opera del nuovo regolamento predisposto dalla società nel 1974, con il quale si modificava anche l’immobile avente tale destinazione, avesse una portata meramente ricognitiva, potendosi quindi prescindere dalla verifica di quale invece fosse la reale situazione dei beni alla data di nascita del condominio, coincidente con quella della stipula degli atti di alienazione delle unità immobiliari.

In senso contrario a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, depone la costante giurisprudenza di questa Corte che, nell’interpretare l’art. 1117 c.c. e proprio con specifico riferimento all’individuazione del bene comune rappresentato dall’alloggio del portiere ha affermato che (cfr. Cass. n. 11195/2010) per stabilire se un’unità immobiliare è comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., n. 2, perchè destinata ad alloggio del portiere, il giudice del merito deve accertare se, all’atto della costituzione del condominio, come conseguenza dell’alienazione dei singoli appartamenti da parte dell’originario proprietario dell’intero fabbricato, vi è stata tale destinazione, espressamente o di fatto, dovendosi altrimenti escludere la proprietà comune dei condomini su di essa (in senso conforme si veda anche da ultimo Cass. n. 15929/2015, nonchè Cass. n. 11996/1998 che ha ribadito che per stabilire se un’ unità immobiliare situata in un condominio è comune, ai sensi dell’ art. 1117 c.c., n. 2, perchè destinata ad alloggio del portiere, il giudice del merito deve accertare se all’atto della costituzione del condominio, come conseguenza dell’ alienazione dei singoli appartamenti da parte dell’ originario proprietario dell’intero fabbricato, vi è stata tale destinazione, espressamente o di fatto, altrimenti devesi escludere la proprietà comune dei condomini su di essa; Cass. n. 3667/1998).

Nè potrebbe farsi riferimento, come invece sostenuto dai giudici di appello) alla portata lato sensu ricognitiva del successivo regolamento del 1974, in quanto attesa la palese differenza tra il bene inizialmente contemplato nel regolamento del 1971 con quello invece di cui al regolamento adottato all’esito della transazione, deve richiamarsi la regola dettata da Cass. n. 1070/1968, per la quale la presunzione di cui all’art. 1117 c.c., circa la proprietà comune delle cose di uso comune è superabile solo da un titolo idoneo, che non può essere costituito da un regolamento di condominio redatto dal costruttore due anni dopo la vendita degli appartamenti.

Ne consegue che l’affermazione della natura comune in base alla previsione di cui all’art. 1117 c.c., avrebbe potuto riguardare solo il bene che alla data di nascita del condominio era destinato a casa del portiere (e ciò laddove si ritenga priva di efficacia la riserva di proprietà contenuta nel regolamento condominiale predisposto nel 1971 dalla società ricorrente) e non anche il diverso bene immobile oggetto di un’individuazione avvenuta allorchè il condominio era già sorto, e che in quanto tale si risolveva nell’attribuzione in favore dei condomini della proprietà comune di un nuovo bene, per il cui acquisto si palesa la necessità di un consenso unanime di tutti i condomini interessati.

E peraltro, una volta esclusa la possibilità di ricondurre l’effetto acquisitivo all’atto di transazione (trattandosi di controversia che era stata intentata solo da alcuni condomini, e senza quindi impegnare anche i condomini che non avevano preso parte al giudizio, ed essendosi peraltro prevista nella transazione la necessità di una successiva approvazione da parte degli altri comproprietari), l’individuazione in un regolamento condominiale di un bene comune, diverso da quelli aventi tale caratteristica al momento della nascita del condominio, costituisce chiaramente una previsione regolamentare di natura contrattuale, per la cui validità si richiede l’approvazione unanime da parte di tutti i condomini.

Ed, infatti, così come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 943 del 1999, le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonchè quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2.

Appare al Collegio che anche la previsione regolamentare per effetto della quale venga ad individuarsi un bene comune (nel caso di specie in sostituzione di uno preesistente, se non addirittura con carattere di novità – ove si opini nel senso della validità della riserva di proprietà esclusiva in favore della ricorrente, di quello che, nel regolamento del 1971, era individuato come alloggio del portiere) abbia chiaramente natura contrattuale, la cui efficacia presuppone il consenso unanime di tutti i condomini (per la necessità di una manifestazione unanime dei condomini per il compimento di atti che estendano l’ambito della proprietà comune, si veda Cass. n. 21826/2013, nella quale si sottolinea come l’accrescimento del diritto di comproprietà, comporta anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati).

Nè, tenuto conto della particolare natura della previsione regolamentare in esame, può ritenersi idonea una delibera assunta a maggioranza sia pure qualificata da parte dell’assemblea.

Questa, infatti (come affermato da Cass. 29 agosto 1997 n. 8246), può deliberare, con le prescritte maggioranze, solo sulle questioni che riguardano parti (già) comuni dell’edificio o il Condominio nel suo complesso, oppure sulle liti attive e passive che, esorbitando dalle attribuzioni istituzionali dell’amministratore, riguardino pur sempre la tutela dei diritti dei condomini su tali parti, ma non anche sulle questioni concernenti l’esistenza, il contenuto o l’estensione dei diritti spettanti ai condomini in virtù dei rispettivi acquisti, diritti che restano nell’esclusiva disponibilità dei titolari (v. Cass. 8 agosto 1979 n. 4637). In tal senso si veda anche Cass. n. 1314/2004 secondo cui, in linea con quanto sinora esposto, le clausole del regolamento condominiale che incidono sui diritti immobiliari dei condomini, sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni, hanno natura contrattuale e, concernendo diritti immobiliari, per esse deve ritenersi imposta la forma scritta “ad substantiam”, cosicchè va esclusa la possibilità di una loro approvazione mediante comportamenti concludenti dei condomini, quale la mancata contestazione della delibera condominiale che le abbia approvate da parte del condomino assente alla assemblea che ha adottato tale atto.

Deve pertanto ribadirsi il principio anche di recente riaffermato (cfr. Cass. n. 5657/2015) per il quale in tema di condominio, non rientra nei poteri dell’assemblea la deliberazione che determini a maggioranza l’ambito dei beni comuni e delle proprietà esclusive, potendo tale previsione essere inserita soltanto in un (valido) regolamento contrattuale, approvato all’unanimità (Cass. 18 maggio 2011 n. 10929). Ne consegue che, una volta esclusa la possibilità di individuare nell’appartamento oggetto di causa un bene ab origine comune, emergendo la prova che in realtà l’alloggio del portiere fosse all’inizio un’altra unità immobiliare, necessitava l’approvazione unanime dei condomini affinchè si producesse l’effetto acquisitivo riconducibile alla previsione regolamentare contenuta nel nuovo regolamento predisposto nel 1974 da parte della venditrice.

4.1 Tuttavia la sentenza gravata ha in ogni caso escluso la fondatezza della domanda ritenendo che fosse comunque maturata l’usucapione in favore dei singoli condomini, in ragione dell’uso ventennale del cespite come casa del portiere, uso ritenuto idoneo a configurare l’esercizio di un possesso ad usucapionem, e ciò sia in relazione alla data di introduzione del giudizio che alla precedente data di cessazione del servizio di portineria (giugno 1994).

Tale affermazione, che implica un accertamento in fatto, insindacabile in questa sede, circa l’esercizio di un possesso da parte dei singoli condomini, protrattosi, ad avviso del Collegio, e come opinato dalla Corte distrettuale anche una volta cessato il servizio di portineria, avendo i condomini concesso in locazione l’alloggio alla ex portiera, tramite una condotta che costituisce indubbiamente una manifestazione di esercizio del possesso, risulta però contrastata dalla società ricorrente.

Si sostiene, infatti, in ricorso che l’utilizzo come casa del portiere sarebbe successivo alla Delib. assembleare con la quale, sebbene a maggioranza, era stato approvato il nuovo regolamento del 1974.

Pertanto l’inizio del possesso risalirebbe alla data del 31 gennaio 1975, con la conseguenza che il decorso del ventennio utile ad usucapire sarebbe stato interrotto dalla società mediante l’invio della missiva del 7 novembre 1994, con la quale si richiedeva all’amministratore del condominio la riconsegna dell’appartamento, missiva cui ha fatto seguito l’introduzione del presente giudizio solo con la successiva citazione del 7 aprile 1995.

Orbene, e ribadito che l’accertamento in fatto circa l’esercizio del possesso da parte dei singoli condomini sull’immobile oggetto di causa non appare seriamente contestato dalla ricorrente, stando proprio alle date, così come indicate nel motivo di ricorso, si palesa l’infondatezza della tesi secondo cui non sarebbe maturato il ventennio utile ad usucapire.

Ed, infatti, anche a voler prendere come data iniziale del possesso utile ad usucapire quella della delibera assembleare del 31 gennaio 1975, non può attribuirsi efficacia interruttiva alla missiva del novembre del 1994, così che alla data della proposizione della domanda di rilascio del bene, che viceversa costituisce atto interruttivo, il ventennio era già maturato. In tal senso deve rilevarsi che, anche a voler sorvolare circa l’idoneità a produrre l’interruzione del termine di cui all’art. 1158 c.c., di un atto indirizzato al condominio, e non ai singoli condomini in favore dei quali è destinata a maturare l’usucapione, costituisce principio assolutamente pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello per il quale (cfr. Cass. n. 16234/2011) poichè, con il rinvio fatto dall’art. 1165 c.c., all’art. 2943 c.c., risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, con la conseguenza che non può riconoscersi tale efficacia se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, ovvero ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapiente.

Per l’effetto, si è precisato che (Cass. n. 15199/2011) gli atti di diffida e di messa in mora sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (conf. Cass. 16861 /2013).

Ne discende pertanto che, anche ad avere riguardo alla scansione cronologica degli eventi, così come rappresentata in ricorso, alla data di introduzione del giudizio era maturato il ventennio, con il conseguente acquisto a titolo originario della proprietà in capo ai singoli condomini. Ne deriva pertanto che il ricorso principale debba essere rigettato.

5. Il ricorso incidentale va invece dichiarato inammissibile in quanto il motivo non correda nemmeno il vizio lamentato ad una delle ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c..

Deve infatti ritenersi che attesa la natura di giudizio a critica vincolata del ricorso in cassazione, l’assenza di una chiara individuazione di una delle ipotesi riconducibili ad una delle previsioni di cui alla norma in esame, e senza quindi parametrare la critica anche solo implicitamente ad alcuna delle ipotesi contemplate dal legislatore, comporti la declaratoria di inammissibilità del motivo.

6. Le spese seguono la soccombenza, e vanno pertanto poste a carico della società ricorrente, come liquidate in dispositivo.

Nulla a disporre per le spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto difese in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale e condanna la ricorrente al rimborso delle spese di lite in favore dei controricorrenti che liquida per S.M.T., R.S. e R.A. in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 13 % sui compensi ed accessori come per legge, e per M.O., F.R., F.L., F.S. e C.A. in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 13 % sui compensi ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016

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