Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23244 del 15/11/2016


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Cassazione civile sez. II, 15/11/2016, (ud. 22/09/2016, dep. 15/11/2016), n.23244

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28825-2011 proposto da:

S.N., (OMISSIS), B.M. BRBMLL52C52L451V,

B.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato MARIO

CONTALDI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO

CARLO GALLO;

– ricorrenti –

contro

BE.GI., M.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

FULCERI PAULUCCI DE CABOLI 1, presso lo studio dell’avvocato DANTE

GROSSI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FRANCESCO POLLINI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1825/2010 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 09/12/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito l’Avvocato GALLO Piero Carlo, difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per accoglimento 4-7 motivo,

rigetto dei restanti motivi del ricorso; in sub rimessione S.U. in

ordine 4 motivo (art. 345 c.p.c.).

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 Con atto 12.2.2001 B.P. agì in giudizio contro M.S. e Be.Gi. per violazione di distanze legali, dolendosi della costruzione da parte di costoro, in (OMISSIS), di un fabbricato destinato a magazzino in sostituzione di precedenti tettoie e della realizzazione di una recinzione che ostruiva la veduta dal capannone e dalla casa degli attori. Chiesero altresì che fosse accertata l’esistenza di una servitù di passaggio costituita per usucapione e domandarono per tali violazioni il risarcimento dei danni.

I convenuti si opposero alla domanda e il Tribunale adito, con sentenza non definitiva del 2005, accertò l’esistenza di una servitù di veduta a favore del fondo degli attori, ma respinse la domanda di arretramento della recinzione e quella di accertamento della servitù nonchè la domanda risarcitoria. Con successiva sentenza definitiva del 10.5.2008 rigettò anche la residua domanda di violazione delle distanze in relazione alle opere realizzate in sostituzione dell’originaria tettoia.

2 Accogliendo parzialmente l’appello di S.N., B.M. e B.S. (eredi di B.P. deceduto nelle more del giudizio di primo grado), la Corte territoriale di Torino, con sentenza 1825/2010 depositata il 9.12.2010 ha condannato i convenuti in solido a demolire ed arretrare della misura minima di metri dieci, e per l’intera larghezza, la copertura e la porzione sopraelevata di parete della “tettoia grande” prospiciente la proprietà B. S., mantenendo per tutto l’arretramento una altezza visivamente non maggiore di quella della copertura della “tettoia piccola”. Ha confermato nel resto la sentenza di primo grado.

Per giungere a tale soluzione la Corte d’Appello ha rilevato:

– che la recinzione, per le sue caratteristiche non era idonea a pregiudicare il diritto di veduta degli appellanti e pertanto andava confermato il rigetto della domanda di riduzione in pristino; conseguentemente andava rigettata la domanda di risarcimento dei danni collegati alla posa della recinzione;

– che la domanda riguardante la violazione delle distanze dalle vedute riguardava solo la recinzione; che la domanda di accertamento della servitù di passaggio per usucapione era infondata per mancanza di prova del possesso ultraventennale e del requisito dell’apparenza, mentre ricorreva l’ipotesi dell’art. 843 c.c., come riconosciuto dal primo giudice;

– che la produzione in appello degli atti del procedimento penale doveva ritenersi inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., trattandosi di documenti nuovi e non indispensabili;

– che “la tettoia piccola” non aveva subito variazioni di superficie e altezza rispetto a quella preesistente e dunque correttamente era stata rigettata dal primo giudice la domanda di riduzione in pristino per violazione di distanze legali tra costruzioni, mentre “la tettoia grande” invece aveva subito un ampliamento sia planimetrico che in altezza per cui andava demolita e arretrata sino alla distanza di dieci metri di cui al PRG e NTA.

3 Contro questa decisione gli eredi B. hanno proposto ricorso per Cassazione con sette motivi a cui resistono con controricorso il M. e la Be..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Col primo motivo i ricorrenti denunziano la violazione dell’art. 907 c.c. e art. 345 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio. Sostengono in particolare che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Appello, la violazione di distanze dalle vedute ex art. 907 c.c. era stata dedotta anche con riferimento alla nuova tettoia (“tettoia grande” più “tettoia piccola”) perchè il richiamo all’arretramento a metri tre contenuto nel punto 1 delle conclusioni in atto di appello doveva intendersi riferito alla violazione di distanze dalle vedute prevista dall’art. 907 c.c., essendosi nel medesimo atto di appello ripetutamente dedotto che la nuova tettoia (tettoia grande più tettoia piccola) violava anche la distanza dalle vedute esistenti al piano terra e al primo piano. Ritengono in ogni caso superata la violazione dell’art. 907 c.c., dovendosi ritenere prevalente la violazione della distanza di dieci metri tra fabbricati e pareti finestrate di cui agli artt. 6 e 33 delle NTA del piano regolatore generale. Ritengono pienamente provata tale violazione di distanze dal progetto di sopralzo della casa B. (che dimostra come anche la tettoia piccola sia diversa per dimensioni rispetto a quella preesistente) Insistono pertanto nel vizio di motivazione sulla natura delle nuove tettoie, da considerarsi entrambe nuove costruzioni e non mere ristrutturazioni.

Un altro errore commesso dalla Corte d’Appello consiste, ad avviso dei ricorrenti, nell’avere affermato, in violazione dell’art. 2697 c.c. che non fosse onere degli appellati dimostrare la conformità della nuova costruzione alla preesistente, quando invece gli attori appellanti avevano sostenuto sin dal giudizio di primo grado che i convenuti avevano demolito la vecchia tettoia preesistente e costruito due nuove tettoie entrambe a distanza inferiore a quella regolamentare di dieci metri prevista dagli artt. 6 e 33 delle NTA del PRG del Comune di (OMISSIS) e, quanto alla tettoia piccola, a distanza inferiore a quella di metri tre prevista dall’art. 907 c.c.. Richiamano di nuovo il progetto Gabba del 1975 per dimostrare la diversità dei manufatti e invocano il principio che estende il rispetto delle distanze anche alle ricostruzioni dolendosi dell’omesso ordine di demolizione e arretramento delle due tettoie nella loro interezza.

Il motivo è privo di fondamento anche se si rende necessario correggere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., un passaggio della motivazione in quanto erroneo in diritto, ma che comunque non ha inciso sulla correttezza del dispositivo.

Secondo la regola generale del riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c., avendo gli attori dedotto e dimostrato la realizzazione di costruzioni a distanza illegale, erano i convenuti a dover dimostrare, ai sensi del comma 2 citato art., i fatti impeditivi da essi dedotti quindi che la ricostruzione era avvenuta nelle medesime dimensioni del preesistente.

In tal senso, va corretta la motivazione della sentenza impugnata (v. pag. 9).

Quanto alla individuazione della esatta portata della richiesta di arretramento ex art. 907 c.c. per violazione delle distanze dalle vedute (o meglio la individuazione del suo oggetto), il problema si sposta sul piano dell’interpretazione della domanda.

La giurisprudenza di questa Corte al riguardo ha costantemente affermato che l’interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata, avendo riguardo all’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione letterale nonchè del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, senza essere condizionato al riguardo dalla formula adottata dalla parte stessa (tra le varie, v. Sez. 3, Sentenza n. 14751 del 26/06/2007 Rv. 597467; Sez. L, Sentenza n. 5491 del 14/03/2006 (Rv. 590044; più di recente, Sez. 3, Sentenza n. 9011 del 06/05/2015 Rv. 635266).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello ha ritenuto che la domanda di violazione delle distanze dalle vedute dovesse intendersi formulata solo con riferimento alla recinzione, e non anche alle costruzioni, ricavando tale affermazione dall’atto di appello e dal punto 3 delle conclusioni ivi precisate, concernenti unicamente pretese violazioni di distanze tra edifici previsti dalle norme tecniche di attuazione del PRG vigente nel Comune di (OMISSIS) e non presunti pregiudizi arrecati dai due corpi dell’edificio degli appellati a causa della violazione delle distanze dalle vedute pagg. 8 e 9 sentenza impugnata): motivazione adeguata e logicamente coerente, quindi insindacabile.

Del resto, la plausibilità di tale conclusione trova conferma in un dato oggettivo chiaramente emergente dagli atti del processo (che la Corte di Cassazione è abilitata consultare, stante la natura anche procedurale del vizio dedotto col motivo in esame): le conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ove a pagg. 8 punto 2, si insiste, con riferimento alla tettoia-magazzino, solo nella richiesta di arretramento a metri dieci dai fabbricati per violazione delle distanze regolamentari addirittura, manca qualunque riferimento alla distanza di metri tre.

2 Col secondo motivo i ricorrenti denunziano la omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio. Con riferimento alla cd “tettoia piccola”, ritengono che la Corte d’Appello abbia errato nel condividere, sulla base di alcune deposizioni testimoniali e dell’accertamento del CTU, la tesi della equivalenza del manufatto rispetto a quello preesisterne, perchè invece avrebbe dovuto valutare criticamente il progetto del 1975 redatto dal geom. G. che dimostrava la diversità sotto l’aspetto volumetrico e della superficie coperta. Procedono quindi ad una dettagliata analisi tecnica per concludere che la nuova “tettoia piccola” è più larga di mt. 1,45.

Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto che la cd. “tettoia piccola” era rimasta invariata e lo ha fatto dando preferenza, tra le varie deposizioni testimoniali, tutte criticamente analizzate, quella resa dal geom. G. suo tempo progettista dell’attore) il quale aveva parlato di una altezza rimasta invariata (v. pagg. 12 e 13).

Le serrate contestazioni dei ricorrenti sull’errore della Corte di merito nel pervenire a tale conclusione senza considerare la larghezza, investono come è evidente – tipici accertamenti in fatto sulle dimensioni del manufatto e sul contenuto degli elaborati tecnici allegati agli atti del processo, che il giudice di legittimità non è autorizzato a compiere meno di non voler snaturare il giudizio di legittimità trasformandolo in un ennesimo giudizio di merito. D’Altro canto, il ragionamento della Corte torinese, frutto di accertamenti fattuali, appare privo di vizi logici e dà conto esaurientemente della valutazione del materiale probatorio a sua disposizione e delle scelte operate.

La critica dei ricorrenti pertanto non coglie nel segno: infatti, secondo un generalissimo principio di diritto, costantemente affermato da questa Corte, anche a sezioni unite, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione a le tante, Sez. 3, Sentenza n. 17477 del 09/08/2007 Rv. 598953; Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997 Rv. 511208; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014 Rv. 629382).

Nel caso di specie, come si è visto, si è certamente al di fuori di tale ipotesi estreme.

3 Col terzo motivo i ricorrenti denunziano la violazione degli artt. 6 e 33 del PRG del Comune di (OMISSIS) e NTA nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo della controversia:

riferendosi alla “tettoia grande” osservano che la Corte d’Appello avrebbe dovuto ordinare l’arretramento anche della parte in ampliamento avendone dato atto in motivazione.

Il motivo è infondato perchè investe accertamenti in fatto, qui non consentiti, mentre dalla parte motiva della sentenza non si rinviene il riferimento alla “maggiore larghezza”, ma solo ad un ampliamento “planimetrico”, che ben potrebbe riferirsi alla sola lunghezza.

4 Col quarto motivo gli eredi B. denunziano la violazione dell’art. 345 c.p.c. e il vizio di motivazione dolendosi della declaratoria di inammissibilità in appello degli atti del giudizio penale, di cui sintetizzano il contenuto. Ritengono di non aver potuto provvedere al deposito in primo grado perchè quando ne hanno avuto la disponibilità erano già spirati termini per il deposito di documenti.

Il motivo è infondato.

Ai fini dell’ammissibilità della produzione di nuovi documenti in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, (nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990, applicabile “ratione temporis”), sono qualificabili come indispensabili soli documenti la cui necessità emerga dalla sentenza impugnata, dei quali non era apprezzabile neppure una mera utilità nel pregresso giudizio di primo grado, mentre non è ammissibile il nuovo documento che già appariva indispensabile durante lo svolgimento del giudizio di primo grado e prima del formarsi delle preclusioni istruttorie, sicchè la sentenza non si potuta fondare su di esso per la negligenza della parte, che avrebbe potuto introdurlo (Sez. Sentenza n. 5013 del 15/03/2C16 Rv. 639364).

Nel caso di specie, non risulta la sussistenza delle citate condizioni per ritenere l’indispensabilità dei documenti, che la Corte di merito ha escluso.

5 Violazione degli artt. 907 c.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: dolondosi del rigetto domanda a tutela della servitù di veduta con riferimento alla recinzione installata dai convenuti, i ricorrenti osservano che la recinzione, per la sua struttura, impediva di esercitare la veduta verso il fondo vicino. Si soffermano anche sulle caratteristiche delle aperture da cui si esercitava la veduta.

Il motivo è infondato perchè si risolve in una alternativa ricostruzione dei fatti, preclusa in sede di legittimità, a fronte di una valutazione degli stessi del tutto coerente dal punto di vista logico, laddove (v. pagg. 6 e 7), la Corte torinese, partendo dalle caratteristiche strutturali (opportunamente descritte) della recinzione, ne ha poi desunto, in considerazione della “larghezza delle maglie” e della altezza, non superiore a “mezzo metro”, dello zoccolo su cui Insiste la rete, la inidoneità a pregiudicare la veduta da parte degli appellanti: ora, a parte le considerazioni sulla natura delle aperture esistenti sul fondo B., è questo il nucleo della decisione, del tutto in linea con il principio di diritto, più volte ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il divieto di fabbricare a distanza minore di tre metri dalle vedute, sancito dall’art. 907 c.c., intende assicurare al titolare del diritto di veduta aria e luce sufficienti all’esercizio della “inspectio” e della “prospectio”, sicchè il giudice di merito, pur in presenza dell’accertata violazione della distanza, è tenuto a valutare specificamente se l’opera edificata ostacoli l’esercizio della veduta (v. Sez. 2, Sentenza n. 19429 del 22/08/2013 Rv. 627570, relativa proprio alla installazione di una recinzione; v. altresì Sez. 2, Sentenza n. 5764 del 23/03/2004 Rv. 571427; Sez. 2, Sentenza n. 1598 del 09/02/1993 Rv. 480815).

6 Col sesto motivo i ricorrenti, dolendosi del rigetto della domanda di riconoscimento della servitù di passaggio pedonale, denunziano la violazione degli artt. 843, 1158 e 1161 c.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio.

Ad avviso dei ricorrenti, le conclusioni a cui è pervenuta la Corte d’Appello non sono condivisibili perchè, quanto al requisito dell’apparenza, è stata dimostrata l’esistenza di una porta di collegamento alla striscia di terreno di 50 cm di proprietà B., e l’utilizzo da parte di costoro, sin dal 1953, della proprietà M. Be. per effettuare manutenzione al proprio immobile. Rilevano che la recinzione realizzata dai M. Be. ha ridotto la striscia a venti centimetri, pregiudicando integralmente tale servitù. A loro avviso, dunque, l’esistenza della porta di accesso è un indice inequivocabile del diritto di passaggio che esclude l’inquadramento della fattispecie nell’obbligazione propter rem.

Il motivo è infondato perchè ancora una volta si risolve in una censura di tipo esclusivamente fattuale attraverso la deduzione di elementi di fatto già valutati del tutto congruamente dal giudice di merito (v. pag. 7 sentenza impugnata) per escludere gli elementi costitutivi della servitù di passaggio per usucapione (sia sotto il profilo del possesso ultraventenneale che dell’apparenza) e ritenere, piuttosto, applicabile la norma dell’art. 843 c.c., conformemente alla decisione del Tribunale.

7 Col settimo ed ultimo motivo si denunzia la violazione dell’art. 2943 c.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio: la Corte d’Appello, a dire dei ricorrenti, ha rigettato anche la domanda risarcitoria per le numerose violazioni edilizie e per le condotte lesive come conseguenza della reiezione delle domande cui è correlata, mentre invece, avendo accertato la violazione edilizia con riferimento alla “tettoia grande”, avrebbe dovuto liquidare il risarcimento almeno con riferimento a tale condotta. Richiamano la giurisprudenza sulla natura di tale danno e sulla possibilità di una liquidazione anche in via equitativa.

Il motivo è inammissibile perchè muove da una premessa inesatta: contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, dalla sentenza impugnata risulta che la Corte d’Appello ha rigettato la “domanda di risarcimento danni conseguenti alla posa della recinzione” pag. 7, in conclusione della trattazione del secondo motivo di gravame Sui danni per le violazioni di distanze legali e per altre violazioni non vi è stata alcuna pronunzia e dunque i ricorrenti avrebbero dovuto denunziare non già il vizio di motivazione e la violazione della norma di legge sostanziale (2043 c.c.), quanto piuttosto l’omessa pronunzia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, ma una tale censura non si rinviene affatto, non solo per il mancato richiamo a tali disposizioni (omissione formale che, in sè, non sarebbe neppure significativa, se potesse quantomeno desumersi aliunde il corretto nucleo della doglianza), ma proprio per l’assenza di qualunque riferimento, anche implicito, all’omessa pronuncia, essendosi denunziato, invece, sulla base di una errata lettura della pronuncia, sostanzialmente un vizio di motivazione, qui non riscontrabile.

In conclusione l’impugnazione va respinta e le ulteriori spese relative al giudizio di legittimità vanno poste a carico della parte soccombente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti rimborsare le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 3.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016

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