Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23227 del 20/08/2021

Cassazione civile sez. I, 20/08/2021, (ud. 22/06/2021, dep. 20/08/2021), n.23227

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10382/2020 R.G. proposto da:

E.J., rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avv.

Alessandro Ferrara, con domicilio eletto presso il ridetto difensore

in Roma, alla via B. Tortolini n. 30, (PEC

alessandroferrara.ordineavvocatiroma.org);

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– intimato –

avverso il la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 137/2020

pubblicata il 21/01/2020;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

22/06/2021 dal Consigliere Dott. Roberto Succio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con il provvedimento di cui sopra la Corte Territoriale ha respinto la domanda della ricorrente;

– avverso detta sentenza si propone ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi; il Ministero dell’Interno ha unicamente depositato atto di costituzione in vista dell’udienza.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo di ricorso dedotto censura la gravata sentenza per violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4, 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, come modificato dal D.Lgs. n. 158 del 2009, per avere la Corte di appello lagunare, con motivazione apodittica ed apparente, erroneamente ritenuto priva di attendibilità la narrazione della sig. E. in violazione della normativa di settore applicabile;

– il motivo è inammissibile sia quanto alla censura motivazionale sia quanto alla distinta censura per violazione di legge che esso contiene;

– in primo luogo infatti, osserva il Collegio che è noto come la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisca un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019; Sez. 6 – 1, n. 33096 del 20/12/2018);

– il primo motivo, inoltre, denuncia anche sotto altro autonomo profilo il mancato esercizio da parte del giudice dell’appello dei poteri istruttori con riguardo alla pratica della c.d. “schiavitù procreativa”; sotto questo profilo lo stesso può trattarsi congiuntamente con i motivi che lo seguono;

– il secondo motivo, incentrato sulla violazione e mancata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4, e 5 ed D.Lgs. n. 24 del 2008, art. 8, comma 3 ed art. 11, come modificato dal D.Lgs. n. 158 del 2009, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Corte veneziana, con motivazione apparente, ritenuto non credibile la narrazione della ricorrente con riguardo all’aver subito la pratica della “schiavitù procreativa”;

– il terzo motivo nuovamente denuncia, con riferimento ancora alla pratica della c.d. “schiavitù procreativa”, violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, commi 6 e 19, ed D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, gente ratione temporis, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19 e degli artt. 3, 8, 13 CEDU, ex artt. 2 e 117 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte territoriale mancato di approfondimenti istruttori, poiché le violenze subite dalla ricorrente imponevano al suo paese di origine adeguata tutela secondo la giurisprudenza CEDU, risultando dimostrato come la Nigeria non sia riuscita a impedire la violenza o a punirla adeguatamente; inoltre, la censura si incentra anche sul mancato riconoscimento da parte della Corte veneta del giusto rilievo alla differenza di genere, per non avere la sentenza impugnata verificato se l’appartenenza al genere femminile, nel contesto storico e fattuale denunciato, giustificasse l’adozione di misure di tutela e protezione;

– il quarto mezzo di impugnazione ancora deduce la violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, commi 6 e 19

e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, vigente ratione temporis, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19 e degli art. 2 e 117 Cost., in relazione alla convezione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne 1979, CEDAW e della Global Recommendetion n. 19 del Comitato CEDAW per non avere la Corte veneta contestualizzato gli stupri e le violenze subite dalla ricorrente, che per fatto notorio hanno luogo in Nigeria nei confronti di donne per il solo fatto dell’appartenenza delle stesse al genere femminile;

– i sopra riportati motivi, oggetto di esame congiunto, risultano inammissibili;

– nel presente caso, la Corte territoriale ha espresso quattro autonome rationes decidendi (pag. 9 dal secondo al quinto capoverso) in forza delle quali ha ritenuto di non dover credere alla narrazione proposta; nessuna di queste è peraltro precisamente censurata dal motivo, che si incentra su altro rispetto a quanto posto a base del decisum, non risultando che la Corte abbia preso in esame la pratica della c.d. “schiavitù procreativa”, escludendone la rilevanza quanto alla concedibilità dell’invocata protezione, ma risultando viceversa che la Corte non ha ritenuto che tali fatti di violenza sessuale abbiano avuto effettivamente luogo in danno della ricorrente, venendo quindi meno il presupposto di partenza per ogni considerazione quanto alla denunciata discriminazione di genere;

– quanto poi al profilo relativo al rischio di cadere, in quanto donna, prigioniera dei terroristi di (OMISSIS), dedotto quale autonomo profilo nel secondo motivo di ricorso, osserva la Corte che il gruppo (OMISSIS) ha continuato a commettere crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel nord-est della Nigeria: secondo quanto accertato dalla Corte di Appello e confermato anche in ricorso per cassazione, la richiedente proviene dalla zona di Benin City, che è situata nell’Edo State, nella parte meridionale della Nigeria;

– conseguentemente, va applicata la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 18540 del 10/07/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 13088 del 15/05/2019; Sez. 2, Ordinanza n. 23776 del 28/10/2020) in tema di protezione internazionale dello straniero, nell’ordinamento italiano la valutazione della “settorialità” della situazione di rischio di danno grave deve essere intesa, alla stregua della disciplina di cui al D.Lgs. n. 25 del 2007, nel senso che il riconoscimento del diritto ad ottenere lo “status” di rifugiato politico, o la misura più gradata della protezione sussidiaria, non può essere escluso in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d’origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, mentre non vale il contrario, sicché il richiedente non può accedere alla protezione se proveniente da una regione o area interna del Paese d’origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre regioni o aree invece insicure;

– pertanto, il ricorso è rigettato;

– non vi è luogo a statuizione sulle spese in difetto di costituzione dell’intimato Ministero dell’Interno.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021

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