Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23220 del 15/11/2016

Cassazione civile sez. III, 15/11/2016, (ud. 19/10/2016, dep. 15/11/2016), n.23220

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 16499 del ruolo generale dell’anno

2014 proposto da:

D.M.L., (C.F.: (OMISSIS)) rappresentata e difesa, giusta

procura a margine del ricorso, dall’avvocato Alberto Colella (C.F.:

CLLLRT62L27H510O);

– ricorrente –

nei confronti di:

C.E., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e difesa, giusta

procura speciale notarile, dall’avvocato Luciano Palladino (C.F.:

PLLLCN52P14A251H);

– resistente –

per la cassazione della sentenza pronunziata della Corte di Appello

di Roma n. 3765/2013, pronunziata in data 28 giugno 2013 e

depositata in data 18 settembre 2013;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

19 ottobre 2016 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo;

uditi:

l’avvocato Alberto Colella, per la ricorrente;

l’avvocato Luciano Palladino, per la resistente;

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale

Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per la dichiarazione

di inammissibilità del ricorso o, in subordine, per la rimessione

alle Sezioni Unite affinchè riesaminino la tesi accolta con la

sentenza n. 13603/2014 alla stregua delle deduzioni allegate; in

ulteriore subordine, accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.E. agì in giudizio nei confronti di D.M.L. per ottenere la restituzione di un immobile concesso in comodato al defunto padre C.S. – il quale vi aveva abitato, fino alla morte, insieme alla stessa D.M. (che aveva sposato in seconde nozze) e ai loro due figli – ed il risarcimento del danno per l’occupazione senza titolo.

La D.M., nel resistere, propose domanda riconvenzionale per ottenere il riconoscimento dell’incremento di valore dell’immobile in conseguenza delle migliorie ad esso apportate.

Il Tribunale di Velletri accolse la domanda di rilascio ma rigettò tutte la altre, sia quelle avanzate in via principale che quelle avanzate in via riconvenzionale.

La Corte di Appello di Roma ha condannato la convenuta anche al pagamento dell’importo di Euro 30.000,00 a titolo di risarcimento per l’occupazione abusiva dell’immobile, confermando per il resto la decisione di primo grado.

Ricorre la D.M., sulla base di quattro motivi.

La C. non ha svolto difese scritte ma ha depositato procura per consentire al proprio difensore di partecipare alla discussione orale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è inammissibile

La ricorrente enuncia formalmente quattro motivi di ricorso, rubricati come segue:

1) “violazione e falsa applicazione degli art. 1803 c.c., artt. 1809 c.c. e 1810 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”;

2) “motivazione insufficiente, lacunosa e contraddittoria circa il fatto controverso e decisivo del giudizio, per avere la Corte d’Appello di Roma ritenuto (in alcuni passaggi della sentenza appellata) il comodato oggetto dell’odierna vicenda come “a termine” (avendolo giudicato così arbitrariamente definito e concluso con il compimento del 18 anno di età del minore dei due figli avuti dalla ricorrente Sig.ra D.M.L. con l’ex marito Sig. C.S.), ed avendo invece valutato in altre circostanze lo stesso comodato come precario (vale a dire nel caso in cui ha inteso disporre la restituzione del complesso abitativo alla Sig.ra C.E. senza che a quest’ultima fosse sopraggiunto un urgente ed impreveduto bisogno)”;

3) “motivazione insufficiente, lacunosa e contraddittoria nella determinazione del quantum debeatur in relazione alla condanna della Sig.ra D.M. al pagamento nei confronti della Sig.ra C.E. della somma di Euro 30.000,00 per il supposto periodo di illegittima occupazione dell’immobile per cui è causa”;

4) “motivazione insufficiente, lacunosa e contraddittoria sul punto del mancato riconoscimento alla Sig.ra D.M. di tutte le migliorie apportate negli anni al cespite oggetto di causa, per essere stata la proprietà di Via (OMISSIS), in virtù delle consistenti lavorazioni ivi effettuate, ristrutturata ed enormemente ampliata, quindi di conseguenza rivalutata”.

Il contenuto dei singoli motivi non viene però distintamente specificato.

La ricorrente espone le sue censure avverso la decisione di merito in maniera unitaria e complessiva, dopo la formale enunciazione dei motivi sopra trascritti, e non risulta possibile in concreto distinguere e ricondurre a ciascuno di essi le varie doglianze.

Il ricorso in tal modo risulta articolato in modo non chiaro, con evidente sovrapposizione delle argomentazioni riferibili alle diverse censure, che sono altresì prive delle specifiche indicazioni e del richiamo del contenuto degli atti e dei documenti processuali posti a base delle relative allegazioni.

Inoltre, gli ultimi tre motivi di ricorso, per come intitolati, risultano già in radice inammissibili, in quanto formulati sulla base della abrogata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non applicabile nella specie in ragione della data di pubblicazione della sentenza impugnata (avvenuta nel settembre 2013).

In ogni caso, le censure concretamente avanzate – per quello che è possibile comprendere di esse – difettano anche di autosufficienza e di specificità (in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e n. 6).

Si deve considerare in proposito che la corte di appello ha espressamente dichiarato inammissibili tutti i motivi di gravame avanzati dalla D.M., osservando, solo in relazione all’ultimo, che esso “non è più attuale”.

Il ricorso non contiene alcuna specifica censura in relazione ai suddetti rilievi di inammissibilità dell’appello (e di inattualità, per l’ultimo motivo), che costituiscono l’effettiva ratio della decisione impugnata. Vengono avanzate esclusivamente contestazioni relative al merito della decisione adottata dal giudice di primo grado, le cui ragioni non vengono peraltro neanche adeguatamente illustrate.

La ricorrente in sostanza ribadisce argomenti (pare) già avanzati in sede di gravame, e cioè: a) in diritto, sostiene che il rapporto di comodato non era precario ma a termine, finalizzato alla destinazione dell’immobile ad abitazione familiare e come tale legato al raggiungimento dell’autosufficienza dei figli del comodatario e della sua seconda moglie, onde era la comodante a dover dimostrare il proprio sopraggiunto bisogno imprevedibile e urgente; b) in fatto, assume che i propri figli non erano ancora autosufficienti.

Ma, come premesso, si tratta di questioni che non hanno formato oggetto diretto della decisione di secondo grado, di natura essenzialmente processuale.

Il ricorso è quindi, sotto questo profilo, inammissibile perchè non coglie la ratio effettiva della decisione impugnata ed è in sostanza diretto a contestare non le ragioni di quest’ultima ma della sentenza di primo grado.

Pare opportuno sottolineare che, per censurare adeguatamente la pronunzia impugnata, sarebbe stato comunque necessario chiarire in dettaglio il contenuto e le ragioni della sentenza di primo grado, nonchè gli specifici motivi di appello contro la stessa avanzati, onde consentire di verificare l’ammissibilità del gravame.

Anche l’unico motivo di appello per il quale non vi è espressa dichiarazione di inammissibilità (l’ultimo, giudicato “non più attuale”) riguarda questioni i cui termini non risultano sufficientemente chiariti, e cioè quella della sussistenza di un titolo a detenere l’immobile in virtù dell’assegnazione della casa coniugale alla D.M. in sede di separazione coniugale dal C., fino all’autosufficienza dei figli della coppia, e quella dell’effettivo raggiungimento dell’autosufficienza da parte di questi ultimi.

In ordine a tali questioni non viene chiarito quali furono le difese delle parti in primo grado, quale fu la decisione del Tribunale e quali furono esattamente i motivi di gravame.

E’ quindi impossibile per la Corte verificare, anche sotto questo aspetto, la correttezza della decisione impugnata.

Va ribadito, in proposito, che “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito; il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa” (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1926 del 03/02/2015, Rv. 634266; nel medesimo senso, si vedano, ex multis: Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4403 del 28/02/2006, Rv. 587592; Sez. 2, Sentenza n. 7825 del 04/04/2006, Rv. 590121; Sez. 1, Sentenza n. 12688 del 30/05/2007, Rv. 597963; Sez. L, Sentenza n. 15808 del 12/06/2008, Rv. 603631; Sez. L, Sentenza n. 2831 del 05/02/2009, Rv. 606521; Sez. 3, Sentenza n. 5660 del 09/03/2010, Rv. 611790).

Nella specie certamente non risultano rispettati gli indicati requisiti necessari ai fini dell’ammissibilità del ricorso.

Il ricorso è dunque dichiarato inammissibile.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto della citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio in favore della controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 6.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016

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