Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23199 del 15/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 15/11/2016, (ud. 15/07/2016, dep. 15/11/2016), n.23199

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21618/2013 proposto da:

M.G., (OMISSIS), B.G. (OMISSIS),

P.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA 84, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO GALLI’,

rappresentati e difesi dall’avvocato CHIARA GAMBULI giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DELLA REPUBBLICA ITALIANA;

– intimata –

nonchè da:

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DELLA REPUBBLICA ITALIANA, in

persona del Presidente del Consiglio p.t., elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che la rappresenta e difende per legge;

– ricorrente incidentale –

contro

B.G. (OMISSIS), P.S. (OMISSIS),

M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA 84, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO GALLI,

rappresentati e difesi dall’avvocato CHIARA GAMBULI giusta procura a

margine del ricorso principale;

– controricorrenti all’incidentale –

avverso la sentenza n. 185/2013 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 16/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/07/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato CHIARA GAMBULI;

udito l’Avvocato FABRIZIO FEDELI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

RENZIS Luisa, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale e rigetto del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. B.G., M.G. e P.S., hanno proposto ricorso in Cassazione, contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, avverso la sentenza n. 185 del 16 maggio 2013, con cui la Corte d’Appello di Perugia, in accoglimento dell’appello proposto dall’odierno resistente, riformava la sentenza n. 31 del 2009 del Tribunale di Perugia, la quale aveva riconosciuto il diritto degli attori ad ottenere il riconoscimento dell’adeguata remunerazione per la frequenza, nella situazione di inattuazione della normativa comunitaria di cui alle direttive 75/362/CEE di un corso di specializzazione medica.

La Corte territoriale ha rigettato le domande attoree per intervenuta prescrizione del diritto, ritenendo che il relativo termine, di durata decennale, decorresse dalla scadenza di ogni anno del corso di specializzazione, frequentato senza le possibilità di svolgerlo secondo le modalità fissate nella direttiva e la consecuzione della remunerazione. Sulla base di tale principio la prescrizione veniva ritenuta maturata, perchè il corso di specializzazione si era concluso, per la B. ed il P., in data 30 ottobre 1989, e per il M. in data 31 ottobre 1991, mentre la domanda era stata proposta con citazione notificata il 9 luglio 2004.

p.2. Al ricorso, che prospetta due motivi, ha resistito la Presidenza del Consiglio dei Ministri con controricorso, nel quale ha svolto ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo.

p.3. I ricorrenti hanno resistito al ricorso incidentale con controricorso.

p.4. Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Il ricorso incidentale dev’essere esaminato congiuntamente al principale, in seno al quale è stato proposto.

p.2. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2934 c.c., dell’art. 2935 c.c. e dell’art. 2947 c.c., nonchè della L. n. 370 del 1999, art. 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Il motivo è volto a censurare l’impugnata sentenza nella parte in cui la Corte territoriale, pur ammettendo l’esistenza del diritto degli attori al risarcimento del danno per mancata trasposizione delle direttive, ha tuttavia respinto la loro domanda per intervenuta prescrizione del diritto, individuando il dies a quo del termine prescrizione, ritenuto decennale, nella data di scadenza di ciascun anno di durata del corso di specializzazione frequentato.

I ricorrenti si dolgono del fatto che il Giudice di secondo grado non abbia dato applicazione ai principi affermati dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione con le sentenze gemelle nn. 10813, 10814, 10815 e10816 del 2011, in cui è stato affermato che il termine decennale di prescrizione del diritto degli specializzandi ad ottenere il risarcimento per mancata tempestiva trasposizione delle direttive decorre dall’entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, cioè dal 27 ottobre 1999.

p.2.1. Il motivo è fondato e merita di essere accolto.

La Corte d’Appello di Perugia, nel dichiarare l’intervenuta prescrizione del diritto facendola decorrere per il risarcimento del danno da ogni anno di conclusione della frequenza del corso di specializzazione, ha effettivamente ignorato il principio di diritto affermato dalle sentenze evocate dai ricorrenti, nel senso che. “A seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 – è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1 gennaio 1983 al termine dell’anno accademico 1990-1991. La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11”.

Tale principio è stato poi invariabilmente ribadito dalla giurisprudenza successiva della Corte di Cassazione, fra cui, ex multis, dalle sentenze n. 3653 del 2016, n. 24075, 11034, 11221 e 11220 del 2015, e n. 23635 del 2014. L’unica voce dissonante, cioè Cass. n. 9071 del 2013 (evocata nella memoria della difesa erariale), non solo risulta espressa senza considerare gli ampi argomenti delle sentenze gemelle e della successiva copiosa giurisprudenza, ma, inoltre, è stata confutata da Cass. n. 16104 del 2013.

Pertanto, il termine di prescrizione decennale, alla stregua di un orientamento consolidato, non solo non decorreva frazionatamene in ragione di anno dalla conclusione di ciascun anno di frequenza e nemmeno dalla conclusione dell’intero corso, ma aveva come dies a quo il 27 ottobre 1999 e, quindi, aveva come termine di scadenza la data del 27 ottobre 2009.

Ne consegue che del tutto erroneamente la Corte ha respinto le domande attoree, perchè il termine prescrizionale non era ancora maturato alla data di proposizione della domanda giudiziale.

La sentenza impugnata – tenuto conto di quanto si dirà sulla sorte del ricorso incidentale condizionato – deve essere, in conseguenza, cassata, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Perugia, comunque in diversa composizione. Il giudice di rinvio considererà la pretesa dei ricorrenti, qualificata alla stregua delle citate sentenze gemelle e della richiamata consolidata giurisprudenza, come non prescritta.

In proposito si rammenta che Cass. n. 1917 del 2012, seguita da conforme e costante giurisprudenza, ebbe anche ad affermare l’ininfluenza sul termine prescrizionale della L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 43, statuendo che: “Il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto in favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che, se detta direttiva fosse stata attuata, avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11. In riferimento a detta situazione, nessuna influenza può avere la sopravvenuta disposizione di cui alla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43 – secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento di direttive comunitarie soggiace alla disciplina dell’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato – trattandosi di norma che, in difetto di espressa previsione, non può che spiegare la sua efficacia rispetto a fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2012)”.

Si aggiunge che le considerazioni svolte nella memoria dalla difesa erariale, con le quali si auspica un ripensamento circa le argomentazioni svolte a suo tempo dalle sentenze gemelle del 2011 ai fini della individuazione del dies a quo del corso della prescrizione, non sono in alcun modo idonee a giustificarlo, mentre, riguardo all’evocazione della sentenza della Corte di Giustizia resa il 19 maggio 2011 nella causa C-452 (erroneamente indicata dalla difesa erariale come C-425) questa Corte si già pronunciata, dimostrandone l’irrilevanza, fin dalla sentenza n. 17868 del 2011 e, successivamente, ribadendola ripetute volte (come ad esempio proprio nella citata Cass. n. 1917 del 2012).

p.3. Con il secondo motivo si prospetta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2944 c.c., nonchè della L. n. 370 del 1999, art. 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, adducendo che la sentenza impugnata avrebbe violato il disposto dell’art. 2944 c.c., per non aver considerato l’idoneità della L. n. 370 del 1999, art. 11, ad operare in funzione di interruzione della prescrizione, in quanto atto costituente riconoscimento del diritto degli specializzandi ante 1991 da parte dello Stato.

Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo motivo.

p.4. Si deve a questo punto passare all’esame del ricorso incidentale condizionato della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Con l’unico motivo, si prospetta “improponibilità della domanda dei ricorrenti ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, dell’art. 2043 c.c., degli artt. 5 e 189 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, dell’art. 10 del Trattato istitutivo della Comunità Europea (Trattato di Roma) nella versione consolidata (GUCE n. C 325 del 24 dicembre 2002), dell’art. 117 Cost., comma 1, dell’art. 16 della Direttiva CEE 82/76, nonchè degli artt. 5 e 7 della Direttiva “riconoscimento” 75/362/CEE del Consiglio, del 16 giugno 1975, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″.

La doglianza è diretta a censurare la sentenza impugnata per non aver considerato che la disciplina comunitaria che prevede il diritto all’adeguata remunerazione degli specializzandi trova applicazione soltanto alle specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri o a due o più di essi, menzionate negli artt. 5 e 7 della Direttiva 75/362/CEE, mentre i medici ricorrenti avrebbero conseguito la specializzazione in “igiene e medicina preventiva”, ossia in una disciplina diversa da quelle ricomprese nel suddetto elenco di cui agli artt. 5 e 7. Da ciò deriverebbe, ad avviso del ricorrente incidentale, l’improponibilità della domanda dei ricorrenti principali ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Il ricorso in tal modo prospetta una censura che concerne un punto su cui la sentenza impugnata non si è pronunciata, avendo evidentemente ritenuto dirimente la questione di prescrizione come questione c.d. più “liquida”.

Il punto su cui la sentenza impugnata non si è pronunciata, inerendo – secondo la prospettazione della difesa erariale – ai fatti costitutivi della domanda in iure, secondo l’ordine logico delle questioni, si connotava come preliminare rispetto alla questione della prescrizione, integrante un fatto estintivo del diritto azionato e, dunque, un’eccezione di merito.

Non essendosi il giudice di merito pronunciato sul detto punto si dovrebbe ritenere che la censura potrebbe riprospettarsi ed essere esaminata dal giudice di rinvio.

La difesa erariale postula, però, che si tratti di questione che questa Corte potrebbe decidere ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, cioè come questione evidenziante che la domanda non avrebbe potuto essere proposta.

Poichè, quando ricorre una simile questione, la rilevazione del non poter essere proposta la domanda è possibile direttamente d’ufficio da parte della Corte, in sede di esame del ricorso ed indipendentemente dal se sia stata prospettata con il ricorso ed anzi anche quando la questione non fosse prospettabile, perchè contraria al suo interesse, dal ricorrente, non è possibile negare che al potere di ufficio della Corte, riconosciuto dal terzo comma dell’art. 382 c.p.c., si debba accompagnare anche il potere di critica nella stessa direzione della parte intimata.

Tale potere deve ritenersi esercitabile necessariamente con un ricorso incidentale (non conoscendo la disciplina del ricorso per cassazione un istituto come quello dell’art. 346 c.p.c., per l’appello).

Il ricorso incidentale in questo caso è ammissibile ancorchè della questione il giudice di merito non risulti essersi occupato e, dunque, non risulti diretto contro una statuizione della sentenza. Fermo restando che siffatto ricorso soggiace agli stessi limiti che individuano il potere della Corte di cui all’art. 382 c.p.c., comma 3 e, particolarmente, a quello del riscontro della c.d. improponibilità della domanda senza necessità di accertamenti di fatto e sulla base, dunque, di come la vicenda processuale risulti pervenuta davanti alla Corte di Cassazione.

Per queste queste ragioni il motivo di ricorso incidentale dovrebbe ritenersi ammissibile, salvo la concreta verifica della effettiva prospettazione con esso – come suggerisce l’intestazione del motivo, con cui la difesa erariale si è appunto posta nella logica dell’art. 382 c.p.c., comma 3 – di una questione a tale norma riconducibile.

p.4.1. Il motivo di ricorso incidentale è inammissibile.

Lo è, perchè è volto a sollevare una questione che, avendo anche una natura fattuale, non è riconducibile all’ambito dell’art. 382 c.p.c., comma 3, cioè alla questione di mero diritto della proponibilità della domanda, id est della sussistenza di una astratta previsione normativa che la giustifichi.

p.4.2. Nel caso di specie non è sostenibile, come invece adduce la memoria della difesa erariale, che si sarebbe in presenza di una mera quaestio iuris non comportante accertamenti di fatto, cioè di una questione risolvibile solo sulla base dell’applicazione di un paradigma normativo.

Infatti, lo stabilire se la specializzazione in igiene e medicina preventiva era ricompresa fra quelle in cui lo Stato Italiano era tenuto a legiferare in adempimento delle direttive nn. 75/362 e 75/363, siccome integrate dalla direttiva c.d. di coordinamento 82/76, nei vari sensi imposti dalla loro disciplina e segnatamente in funzione del riconoscimento dell’adeguata remunerazione, non è, al contrario di quanto opina la difesa erariale, una mera questione di diritto, cioè una questione che sia scrutinabile in questa sede di legittimità, procedendo alla mera applicazione di norme e segnatamente degli artt. 5 e 7 della direttiva c.d. di riconoscimento 75/362, con una mera attività di individuazione del se esse trovino o meno applicazione alla situazione fattuale esistente in causa per come consolidata nei gradi di merito.

Infatti, posto che alla Corte la difesa erariale ha prospettato come elemento di fatto introdotto nel giudizio di merito la circostanza che il corso di specializzazione seguito dai medici ricorrenti era di “igiene e medicina preventiva” (circostanza, del resto, allegata dagli stessi ricorrenti e pacifica), non è possibile verificare se in iure tale circostanza di fatto giustifichi oppure no la spettanza del diritto risarcitorio per non avere conseguito l’adeguata remunerazione in ragione del tardivo adempimento statuale delle note direttive, procedendo alla mera applicazione della disciplina degli artt. 5 e 7 della citata direttiva 75/362.

La ragione risiede nel fatto che, mentre la prospettiva che alla verifica si possa procedere, semplicemente riscontrando se in tali norme comunitarie era indicata quella specializzazione, è corretta ed esaustiva del ragionamento in iure con riguardo all’art. 5, che indicava le specializzazioni comuni a tutti gli stati cui la direttiva trovava applicazione, viceversa non lo è in alcun modo con riguardo all’art. 7 della direttiva.

Esso, infatti, prevedeva che l’estensione della disciplina imposta dal diritto comunitario tramite la direttiva di riconoscimento e, quindi, tramite quella di coordinamento del 1982 (che riconobbe il diritto all’adeguata remunerazione) fosse dovuta anche in relazione ai corsi di specializzazione comuni pure a due soli stati membri o a più, ed indicati come tali nell’elenco di cui all’art. 7.

Questa disposizione implicava, secondo la logica sottesa alla direttiva in cui era contenuta, quella c.d. di riconoscimento, che ognuno degli stati cui la direttiva trovava applicazione dovesse riconoscere, secondo il principio di libera circolazione, nel proprio ordinamento i titoli di studio ed i diplomi inerenti le specializzazioni indicate come comuni a due o più stati e non a tutti.

Sopravvenuta la direttiva c.d. di coordinamento, tuttavia, come emerse dalla sentenza della Corte di Giustizia CEE resa nella causa Carbonari (e, poi venne ribadito in quella resa nella causa Gozza), l’imposizione agli stati soggetti all’efficacia della direttiva di assicurare certe modalità di esecuzione dei corsi di specializzazione medica, e fra esse quella della corresponsione dell’adeguata remunerazione, divenne operante, con riferimento alle specializzazioni indicate come comuni solo a due o più stati membri, anche con riguardo a quelle specializzazioni conosciute da un singolo stato che, pur non essendo state da esso indicate fra quelle, tuttavia, secondo un accertamento effettuato dal giudice dell’ordinamento interno, fossero ritenute sostanzialmente equivalenti ad una di quelle indicate come comuni a due o più stati diversi dall’art. 5.

p.4.3. Tanto si desume dalla motivazione della sentenza resa nella causa Carbonari, dove si legge quanto segue: “24 Occorre in primo luogo individuare l’ambito di applicazione dell’art. 2, n. 1, lett. c), nonchè del punto 1 dell’allegato della direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76, al fine di determinare le specializzazioni mediche per le quali i medici specializzandi possono avvalersi del diritto a una remunerazione adeguata nel periodo di formazione. 25 I ricorrenti nella causa principale sostengono che, benchè talune delle specializzazioni di cui trattasi non siano menzionate nella direttiva “riconoscimento” come comuni a tutti gli Stati membri o a due o più di essi, discende dal principio della parità di trattamento – da applicarsi a situazioni identiche o analoghe – nonchè dal principio del riconoscimento delle specializzazioni che tale circostanza non può far venir meno l’obbligo di versare una remunerazione adeguata avente la stessa natura di quella prevista dalla normativa comunitaria. 261l governo spagnolo e la Commissione ritengono, per contro, facendo riferimento alla sentenza 6 dicembre 1994, causa C-277/93, Commissione/Spagna (Racc. pag. 1-5515), che il diritto ad una remunerazione nel corso del periodo di formazione riguardi esclusivamente le specializzazioni previste dagli artt. 5 e 7 della direttiva “riconoscimento”. 27 E’ sufficiente ricordare in proposito che la Corte ha già dichiarato, nella citata sentenza Commissione/Spagna, punto 20, che l’obbligo di retribuire i periodi di formazione relativi alle specializzazioni mediche, prescritto dall’art. 2, n. 1, lett. c), della direttiva “coordinamento”, s’impone soltanto per le specializzazioni mediche comuni ci tutti gli Stati membri o a due o più di essi e menzionate dagli artt. 5 o 7 della direttiva “riconoscimento”. 28 Poichè le dette disposizioni elencano, per le.formazioni specialistiche di cui trattasi, tanto le denominazioni vigenti negli Stati membri quanto le autorità o gli enti competenti, spetta al giudice a quo determinare, tra i ricorrenti nella causa principale, quelli che appartengono alla categoria dei medici iscritti ad una di tali formazioni specialistiche, che possono avvalersi – in forza della direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76 – del diritto ad una remunerazione adeguata nel loro periodo di formazione..

Come si vede, la Corte di Giustizia, con il paragrafo 28, pur richiamando le considerazioni svolte nella sentenza del 1994, che decise la causa C-277/93 – nella quale effettivamente si sottolineava solo che il diritto all’adeguata remunerazione esigeva che la specializzazione trovasse riscontro negli elenchi degli artt. 5 e 7 della direttiva di riconoscimento – nella sentenza Carbonari non si è limitata a ripetere quell’affermazione. E la spiegazione è agevolmente individuabile perchè nella causa C-277/93 la prospettazione in discussione non concerneva l’equivalenza delle specializzazioni per cui era stata denunciata l’inadempienza dello Stato Spagnolo ad alcuna delle specializzazioni indicate come comuni a due o più stati, ma solo la mancanza di corrispondenza con una specializzazione indicata nelle direttive (si veda il paragrafo 21).

Nella decisione resa sulla causa Carbonari (e la stessa cosa dicasi in quella Gozza), invece era oggetto di discussione l’equivalenza di alcuni corsi di specializzazione presenti nello Stato Italiano a corsi di specializzazione indicati come comuni da altri paesi e figuranti come tali nell’art. 7 della direttiva.

Con il sopra ricordato paragrafo 28 la Corte di Giustizia ha sancito che di siffatta equivalenza era demandato l’accertamento al giudice interno.

D’altro canto, nella stessa sentenza resa sulla causa C-277/93, la Corte di giustizi, nel paragrafo 15, aveva osservato che “Per quanto riguarda le specializzazioni mediche specifiche di uno Stato membro o quelle che questo stesso Stato membro non ha incluso nell’elenco di cui all’art. 7 della direttiva “riconoscimento”, l’art. 8 di questa direttiva stabilisce soltanto un riconoscimento il quale non è automatico, nè obbligatorio, in quanto lo Stato membro ospitante è tenuto soltanto ad esaminare le domande di riconoscimento caso per caso. Ed in quel caso si imputava, invece, allo Stato spagnolo di non avere proceduto al riconoscimento automatico.

La previsione del riconoscimento non automatico ma tramite accertamento demandato al giudice interno, per le specializzazioni equivalenti a quelle indicate da due o più stati membri, d’altro canto, trovava rispondenza nell’art. 9, comma 3, della direttiva 75/363, dove si disponeva in questi termini: “Ciascuno Stato membro riconosce come prova sufficiente per i cittadini degli Stati membri i cui diplomi, certificati ed altri titoli di medico specialista non rispondono alle denominazioni di cui agli artt. 5 e 7, i diplomi, i certificati e gli altri titoli rilasciati da tali Stati membri, accompagnati da un certificato di equivalenza rilasciato dalle autorità o enti competenti”.

Questa previsione, alludendo all’obbligo di riconoscimento, da parte di ciascuno Stato, sulla base di un certificato di equivalenza, della corrispondenza del titolo conseguito ad uno indicato nella direttiva, evidenziava che tra gli impegni assunti dagli Stati membri cui la direttiva si applicava vi era quello di attribuire, sulla base di quel certificato, valore a quel titolo di specializzazione, a condizione che, pur non essendo esso indicato nella direttiva, e segnatamente nell’art. 7, fosse stato attestato equivalente ad uno indicato dall’art. 7 come comune a due o più stati membri.

Ebbene, sopravvenuta la direttiva c.d. di coordinamento ed introdotto l’obbligo degli stati aderenti di assicurare agli specializzandi talune condizioni di svolgimento del corso di specializzazione e, fra esse, il riconoscimento di un’adeguata remunerazione, risultava evidente che tale riconoscimento certamente riguardava le specializzazioni comuni a tutti gli stati ed indicate nell’art. 5, nonchè gli specializzandi che avessero conseguito negli stati di appartenenza una specializzazione indicata come comune da due o più stati.

Risultava, tuttavia, palese anche un’altra implicazione.

Poichè gli stati membri che avevano indicato una specializzazione come comune ai sensi dell’art. 7, erano obbligati, ai sensi dell’art. 9, comma 3, citato, a riconoscere nel loro ordinamento i titoli conseguiti in altri stati che quella specializzazione non avevano indicato ed a farlo sulla base dell’attestazione di equivalenza rilasciata dallo Stato in cui la specializzazione fosse stata conseguita, la forza precettiva della direttiva di coordinamento quanto all’innovazione rappresentata dalla imposizione di regole di svolgimento e di regole di trattamento, fra cui l’adeguata remunerazione, comuni, non poteva che riguardare anche i corsi di specializzazione interni ad uno stato la cui denominazione non trovava corrispondenza in quanto indicato dall’art. 7 ma che si caratterizzavano come equivalenti a quelli indicati dallo stesso art. 7.

Tale conseguenza, infatti, appariva implicazione necessaria perchè, se si fosse opinato il contrario, allo specializzato che nel proprio stato avesse conseguito un titolo equivalente ad uno di quelli contemplati nell’art. 7 ma indicati da due o più altri stati, sarebbe stato consentito di rivendicare l’equivalenza in essi e ai frequentanti lo stesso corso di non beneficiare, nonostante l’equivalenza, dell’adeguata remunerazione.

Una diversa interpretazione, che avesse comportato il non ritenere ciascuno stato membro onerato dalle direttive, una volta sopravvenuta quella di coordinamento, di riconoscere a tutti gli effetti ai medici che avessero frequentato nell’ordinamento interno dello stato corsi accertati in concreto come equivalenti a quelli indicati come comuni dall’art. 7 a due o più stati diversi, avrebbe comportato la conseguenza dell’avallo di una evidente situazione di diseguaglianza agli effetti del trattamento dovuto fra il medico che avesse frequentato nell’ordinamento interno il corso equivalente ad uno di quelli indicati dall’art. 7 ed il medico che, avendo frequentato lo stesso corso, avesse invocato il riconoscimento del titolo nell’ordinamento di altro stato siccome equivalente ad uno di quelli indicati da esso nell’art. 7 e comuni ad altro stato od a più stati.

p.4.4. Dalle svolte considerazioni consegue l’individuazione del seguente principio di diritto: allorquando nell’ordinamento italiano un medico specializzatosi, nella situazione di inadempimento statuale alle direttive in materia di medici specializzandi 75/362, 75/363 e 82/76, in un corso di specializzazione non indicato fra quelli indicati come comuni a tutti gli stati membri nell’art. 5 della direttiva 75/363 ed assunto però come equivalente ad un corso di specializzazione comune solo a due o più altri stati membri e come tale indicato nell’art. 7 della direttiva, avesse fatto valere il diritto al risarcimento del danno per il detto inadempimento, il giudice italiano era tenuto a verificare in concreto se quella equivalenza vi fosse, in quanto il diritto comunitario di cui alle dette direttive, ove fosse stato tempestivamente adempiuto dallo Stato Italiano, avrebbe dovuto attribuire al medico che avesse conseguito la specializzazione per il corso non indicato, il diritto di esigere l’adeguata remunerazione, nel presupposto dell’equivalenza del corso ad uno di quelli indicati come comuni soltanto a due o più stati membri, sebbene solo dopo verifica in concreto dell’equivalenza stessa.

Ne deriva che nel giudizio che fosse stato introdotto dal medico nella descritta situazione occorreva accertare se la prospettata equivalenza si configurasse oppure no.

Tale accertamento implicava anche riscontri fattuali, cioè l’accertamento delle concrete modalità di svolgimento del corso, al fine della verifica del se esso corrispondesse oppure no alle modalità ed ai contenuti del corso indicato come comune da due o più stati membri nell’art. 7.

Per il medico attore tanto comportava un onere di allegazione evidenziatore dei fatti giustificativi dell’equivalenza.

Corrispondentemente, a carico dello Stato convenuto, l’attività di contestazione della sussistenza dell’equivalenza non si connotava soltanto come attività di difesa in iure, cioè supponente soltanto la rilevazione della mancanza di indicazione della denominazione del corso fra quelli indicati dall’art. 7, ma supponeva anche un’attività di difesa e, dunque, di contestazione, in fatto delle modalità di svolgimento del corso, diretta ad evidenziare l’insussistenza dell’invocata equivalenza e postulante i necessari accertamenti.

Tanto comporta la conclusione che quella sollevata dal resistente con il ricorso incidentale non si profila come una mera quaestio iuris, ma come una quaestio iuris basata su accertamenti di fatto, che si sarebbero dovuti indicare come non necessari, perchè già effettuati o già consolidatisi nei gradi di merito. Accertamenti riguardo ai quali si sarebbe dovuta indicare le sede dei gradi di merito da cui emergevano e, prima ancora, il modo in cui si erano formati.

Ne segue che si è in presenza della prospettazione di una questione che non può avere ingresso nel presente giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Essa sarà semmai da esaminarsi dal giudice di rinvio, che, naturalmente vi procederà sulla base della situazione delle allegazioni e delle contestazioni già esistenti ed introdotte nei gradi merito e senza che sia consentito di introdurne di nuove, nonchè considerando il principio di diritto che sopra si è affermato e, dunque, verificando se del caso, sulla base delle risultanze in atti e, quindi, tenendo conto dell’atteggiarsi della difese delle parti, ivi compreso l’eventuale atteggiamento di non contestazione della difesa erariale (che potrebbe rendere superfluo l’accertamento stesso) se la specializzazione in igiene e medicina preventiva meritasse valutazione di equivalenza rispetto ad una di quelle indicate nell’art. 7 della direttiva 75/362.

p.4.5. Il ricorso incidentale è, dunque, dichiarato inammissibile, perchè ha riguardato una questione, non decisa dal giudice di merito, che non era riconducibile all’art. 382 c.p.c., comma 3, in quanto supponente accertamenti di fatto che in ipotesi doveva compiere il giudice di merito iuxta alligata e probata e che non risultano compiuti.

Nella specie riprende vigore la regola per cui il ricorso incidentale non è proponibile nemmeno in via condizionata quanto alle questioni non esaminate dal giudice di merito, ma solo riguardo a questioni che ha deciso in modo sfavorevole all’intimato riuscito vittorioso secondo il tenore della decisione.

p.5. La sentenza è cassata in accoglimento del primo motivo di ricorso principale. Il giudice di rinvio si designa nella Corte di Appello di Perugia in diversa composizione, con rimessione del regolamento delle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbito il secondo motivo. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Perugia, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 15 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016

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