Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23198 del 15/11/2016


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Cassazione civile sez. III, 15/11/2016, (ud. 15/07/2016, dep. 15/11/2016), n.23198

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11022/2013 proposto da:

M.G., (OMISSIS), B.C. (OMISSIS),

S.R.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FRANCO

SACCHETTI 125, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPINA STILLITANI,

rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE CASSARINO giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS), MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’

RICERCA (OMISSIS), UNIVERSITA DEGLI STUDI DI CATANIA, in persona dei

propri rappresentanti p.t., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li

rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n 317/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 23/02/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/07/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato ETTORE FIGLIOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

RENZIS Luisa, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. S.R., M.G. e B.C. hanno proposto ricorso per cassazione, contro l’Università degli Studi di Catania, il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, avverso la sentenza n. 317 del 23 febbraio 2012, con cui la Corte d’Appello di Catania ha rigettato il loro appello avverso la sentenza resa in primo grado nel febbraio 2006 del Tribunale di Catania.

p.2. Detta sentenza aveva rigettato la domanda, da essi ricorrenti proposta nel febbraio del 2002 contro gli intimati, per ottenere – in relazione alla frequenza di corsi di specializzazione medica anteriormente all’anno accademico 1991-1992, con consecuzione del relativo diploma, e nella situazione di mancata attuazione da parte dello Stato Italiano delle direttive comunitarie 75/363/CEE e 82/76/CEE – in via principale il riconoscimento dell’adeguata remunerazione alla stregua del D.Lgs. n. 257 del 1991, di tardivo recepimento di dette direttive, nel presupposto che l’applicazione del regime di quella legge fosse giustificato dalle sentenze della Corte di Giustizia rese nel 1999 e nel 2000 nelle cause Carbonari e Gozza, e, subordinatamene, la condanna al risarcimento del danno per la perdita dell’adeguata remunerazione in conseguenza del tardivo recepimento.

Il Tribunale di Catania rigettava la domanda principale per il fatto che le citate direttive avevano carattere non self-executing e per non essere estensibile ai ricorrenti nè la disciplina del D.Lgs. n. 257 del 1991, nè quella della L. n. 370 del 1999, art. 1. Respingeva quella risarcitoria perchè svolta nei confronti di soggetti non legittimati, essendo legittimata invece la Presidenza del Consiglio dei ministri come organo rappresentate lo Stato italiano quale responsabile per l’omissione di attività legislativa.

p.3. La Corte territoriale ha rigettato l’appello reputando: a) che gli appellanti non avevano censurato la ratio decidendi relativa alla domanda risarcitoria o comunque non l’avevano fatto in modo specifico; b) che bene era stata rigettata la domanda sotto il profilo principale.

p.4. Al ricorso dei medici hanno resistito con congiunto controricorso le amministrazioni intimate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Con il primo motivo del ricorso si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 342 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, laddove il Giudice d’appello ha ritenuto inammissibile il riesame della domanda risarcitoria per pretesa mancanza di specificità del proposto motivo, nonchè violazione e falsa applicazione della L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, laddove il Giudice d’Appello ha ritenuto di rigettare nel merito la domanda risarcitoria riproposta in appello”.

Il motivo si duole, come emerge dalla sua intestazione ed è, poi, spiegato dalla sua illustrazione, della motivazione che la Corte etnea ha enunciato riguardo alla conferma del rigetto della domanda risarcitoria.

Tale motivazione è stata enunciata innanzitutto: a) osservando che i ricorrenti non avevano censurato “il rigetto della domanda risarcitoria determinato dal rilievo che essi non l’hanno svolta contro il solo soggetto che, destinatario dell’obbligo di dare attuazione tempestiva alle direttive comunitarie, non vi ha adempiuto così divenendo titolare, dal lato passivo dell’obbligazione risarcitoria predetta, b) quindi, adducendo che tale soggetto non era l’Università e nemmeno lo Stato nelle sue ripartizioni ministeriali, bensì lo Stato tramite la Presidenza del Consiglio dei ministri e che ciò era “consolidato in giurisprudenza”; c) sostenendo ancora che tanto comportava che l’azione dovesse ritenersi proposta nei confronti di un soggetto privo di legittimazione sostanziale, con conseguente rigetto nel merito, senza che potesse operare la L. n. 260 del 1958, art. 4, perchè, ad avviso della Corte, la “sanatoria” da essa prevista permetterebbe “la rinnovazione della (sola) notificazione che risulti invalida perchè svolta nei confronti di soggetto che di tale atto non può curare la ricezione, ma è tuttavia correttamente individuato il destinatario della domanda (ad esempio, correttamente individuata l’Amministrazione titolare dell’obbligo, la notifica dell’atto giudiziale è ad essa svolta preso l’autorità che ne è espressione a livello periferico)”; d) enunciando, quindi, che tanto si giustificava perchè “l’unitarietà ed inscindibilità dello Stato nell’esercizio delle sue funzioni sovrane non tocca l’autonoma personalità giuridica di diritto pubblico delle singole amministrazioni centrali, la separazione delle relative attribuzioni e la riferibilità a ciascuna di esse degli atti di rispettiva pertinenza (cfr. Cass. nn. 10010/11(sic), 3434/06, 6917/05, 1405/03)”.

Dopo tali argomenti, la motivazione della sentenza impugnata ha ancora osservato “che è certamente inammissibile il riesame della domanda risarcitoria che appare comunque riproposta nelle conclusioni dell’atto di appello, in relazione al cui rigetto nessuna specifica censura è stata svolta dagli appellanti sicchè rimane definitivamente consolidata”, per poi soggiungere che “anzi la stessa riproposizione di tale domanda appare del tutto dissonante con le stesse argomentazioni svolte col gravame, avendo gli appellanti espressamente voluto tralasciare la via della chiamata in responsabilità risarcitoria dello Stato italiano per il mancato tempestivo recepimento delle direttive perchè da essi ritenta una via “impervia” (atto di appello pag. 6)”.

p.1.1. La critica a tale motivazione viene svolta dai ricorrenti, riproducendo il contenuto dell’atto di appello.

Da esso, si evince che, sebbene in prima battuta gli appellanti avessero contestato la sentenza di primo grado quanto al rigetto della domanda principale, basata sulla prospettiva che le direttive potessero di per sè giustificare, al lume della sentenze della Corte di Giustizia CE rese il 25 febbraio 1999 nella causa C-131/97, Carbonari e 3 ottobre 2000, resa nella causa C-371/97, Gozza, tuttavia, avevano anche, pur dicendo l’opzione prospettata “più impervia”, criticato la sentenza di primo grado pure quanto al rigetto della domanda subordinata, evocando giurisprudenza comunitaria originante dalla nota sentenza Francovich e rilevando che quell’opzione era stata anzi ritenuta percorribile dalla sentenza stessa, ma infondata nella specie, sol perchè “secondo il suo assunto, il soggetto tenuto all’attuazione delle direttive comunitarie è lo Stato legislatore e non gli enti convenuti…”.

p.1.2. Il motivo di ricorso va, in primo luogo, dichiarato inammissibile nei confronti dell’Università perchè la critica in esso svolta non è rivolta contro la statuizione resa nei suoi riguardi, in quanto tende ad evidenziare che con l’appello si era sostenuta la legittimazione passiva dello Stato legislatore rispetto alla domanda risarcitoria e, dunque, non verso l’Università.

p.1.3. Il motivo, una volta inteso come relativo alla sola posizione dei Ministeri, appare, invece, fondato.

Occorre considerare che la motivazione della sentenza impugnata si rivela intrinsecamente contraddittoria perchè:

aa) per un verso, cioè con le espressioni sopra riportate dell’ultimo rigo della pagina 4 e dei primi quattro della pagina successiva, sostiene che non era stata impugnata la decisione resa dal primo giudice sulla domanda risarcitoria, così suggerendo che vi sarebbe stata una vera e propria mancanza di doglianza al riguardo ed enunciando una ratio decidendi di rito;

bb) per altro verso, cioè nelle considerazioni sopra ricordate, per così dire intermedie, nel sostenere che “la domanda deve essere rigettata nel merito” e nell’argomentare sulla L. n. 260 del 1958, art. 4, enuncia espressamente una motivazione che reca una ragione di rigetto nel merito;

cc) per altro verso ancora nella parte finale, là dove allude ad una mancanza di una specifica censura degli appellanti, sottende che un motivo di appello vi sarebbe stato, ma che non era stato specifico.

Si tratta, com’è palese di tre diverse rationes decidendi fra loro inconciliabili. L’essere la seconda, quella inerente al merito, intermedia rispetto a due ragioni di rito impedienti, dovrebbe comportare l’applicazione di Cass. sez. un. n. 3840 del 2007, con la conseguenza che l’impugnazione di quella intermedia dovrebbe ritenersi esclusa.

Senonchè, nella specie l’inconciliabilità concerne anche le due motivazioni di rirto, perchè è palese che la censura non può nel contempo essere mancata e connotarsi come aspecifica ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Ne deriva che le due motivazioni in rito finiscono per elidersi, sotto il profilo motivazionale, fra di loro.

p.1.4. Peraltro, la lettura dell’appello riprodotto nel motivo evidenzia in primo luogo l’infondatezza della prima, poichè una volontà impugnatoria della decisione sul risarcimento del danno – come s’è detto poco sopra – vi era stata: è sufficiente il riferimento all’ipotesi risarcitoria come strada più impervia.

Semmai, quello che emerge dall’appello è che non vi era stata un’impugnazione che argomentasse sulla questione della legittimazione L. 260 del 1958, ex art. 4, ma, una volta considerato che si trattava di una quaestio iuris, e tenuto conto che era stata impugnata anche la decisione sulla domanda di estensione della disciplina del D.Lgs. n. 257 del 1991, si deve ritenere che, essendo solo uno il diritto esistente in concreto ed essendo la qualificazione della domanda affidata al giudice anche in riferimento alla detta domanda, con la prospettiva di considerare le deduzioni poste a suo fondamento anche per la domanda risarcitoria, sia stato eccessivo pretendere, da parte della corte territoriale, che vi dovesse essere un onere di specificazione dell’appello al di là di quello che si coglie dove si dice che sol perchè “secondo il suo assunto, il soggetto tenuto all’attuazione delle direttive comunitarie è lo Stato legislatore e non gli enti convenuti…”.

L’individuazione della legittimazione in tal senso non era impedita dal silenzio serbato sull’evocazione della L. n. 260 del 1958, art. 4, in ragione della presenza in giudizio dei ministeri, perchè la rilevanza di tale norma ai fini di essa poteva e doveva ritenersi da parte della Corte di Catania come operazione di mero riscontro del diritto applicabile.

E ciò è tanto vero che la Corte catanese ha ben avuto presenza quella rilevanza e vi ha argomentato con la ratio decidendi di merito.

Ratio decidendi che è basata su un’esegesi priva, peraltro, di fondamento giusta gli insegnamenti della giurisprudenza di questa Corte di cui a Cass. n. 16104 del 2913 (seguita da numerose conformi), secondo cui “Nell’ipotesi di “vocatio in ius” di un Ministero diverso da quello istituzionalmente competente, allorchè l’Avvocatura dello Stato – pur ricorrendo i presupposti per l’applicazione della L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 4 – non si avvalga, nella prima udienza, della facoltà di eccepire l’erronea identificazione della controparte pubblica, provvedendo alla contemporanea indicazione di quella realmente competente, resta preclusa la possibilità di far valere, in seguito, l’irrituale costituzione del rapporto giuridico processuale, non ponendosi, in senso proprio, una questione di difetto di legittimazione passiva, ferma restando la facoltà per il reale destinatario della domanda di intervenire in giudizio e di essere rimesso in termini”.

Nella motivazione di questa decisione, riguardo ad un’ipotesi in cui era in causa il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, si è osservato quanto segue: “posto che il Ministero (….) è un’articolazione del Governo, il cui vertice è la Presidenza del Consiglio dei ministri, la legittimazione del detto Ministero non poteva essere negata adducendo, come ha fatto la Corte territoriale, che la legittimazione passiva all’azione di risarcimento danni competeva, essendo detto inadempimento conseguente ad un inadempimento statuale delle direttive e, quindi, imputabile alla Repubblica Italiana, alla Presidenza del Consiglio di ministri, quale articolazione dell’apparato statuale che è legittimata a rappresentare lo Stato nella sua unitarietà. La difesa erariale, di fronte alla evocazione dello Stato non già nell’articolazione del Governo con la Presidenza del Consiglio, avrebbe potuto, infatti porre, con riferimento a tutte le amministrazioni convenute, non già una questione di legittimazione passiva in tal senso, bensì una questione ai sensi della L. n. 260 del 1958, art. 4 e rivendicare che l’articolazione statale legittimata era la Presidenza del Consiglio dei ministri. Sulla base di tale deduzione avrebbe potuto chiedere un termine per la costituzione di essa. Ciò è stato già ritenuto da Cass. n. 10813 del 2011 proprio in una vicenda relativa a giudizio sull’azione degli specializzandi (e, quindi, ribadito da giurisprudenza successiva su controversie analoghe). Nella detta sentenza si affermò che la difesa dei Ministeri coinvolti dall’azione degli specializzandi, là dove si articola nella deduzione che essa doveva esercitarsi contro la Presidenza del Consiglio, quale azione diretta a far valere l’inadempimento dello Stato, evidenzia semplicemente una situazione nella quale l’essere stata proposta la domanda contro il Ministero vede quest’ultimo legittimato quale articolazione direttamente riferibile alla Presidenza del Consiglio dei Ministri quale vertice dell’esecutivo abilitato a contraddire alla domanda, in quanto rivolta a tutelare una pretesa contro lo Stato. Tanto alla stregua del seguente principio di diritto: il limite introdotto, dalla disposizione di cui alla L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 4 (recante “Modificazioni alle norme sulla rappresentanza in giudizio dello Stato”), alla rilevanza dell’erronea individuazione dell’autorità amministrativa competente a stare in giudizio (limite in virtù del quale l’errore di identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo del giudizio e ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l’atto doveva essere notificato; eccezione dalla cui formulazione discende la rimessione in termini della parte attrice, alla quale il giudice deve assegnare un termine entro il quale l’atto introduttivo deve essere rinnovato), opera non solo con riguardo alla ipotesi di erronea vocatio in ius, in luogo del Ministro titolare di una determinata branca della P.A., di altra persona preposta ad un ufficio della stessa, ma anche con riferimento alla ipotesi di vocatio in ius di un Ministro diverso da quello effettivamente “competente” in relazione alla materia dedotta in giudizio (Cass. n. 8697 del 2001; in senso conforme Cass. n. 11808 del 2003; sostanzialmente conformi: Cass. n. 16031 del 2001; n. 1405 del 2003; n. 4755 del 2003). Osservò Cass. n. 10813 del 2011 che questo orientamento contraddetto isolatamente da Cass. n. 6917 del 2005 – aveva, infatti, avere ricevuto l’avallo di Cass. sez. un. n. 3117 del 2006, che nella sua motivazione soltanto con riferimento alla peculiarità propria della materia delle opposizioni a sanzioni amministrative ritenne doversi seguire la tesi più rigorosa, cioè quella del restringimento dell’operare dell’art. 4 citato al caso di erronea di individuazione dell’organo all’interno dell’articolazione dell’amministrazione statale e, quindi, di un ministero. Nella specie l’Avvocatura dello Stato, quale patrocinatore del Ministero convenuto (ma anche delle altre amministrazioni), avrebbe potuto, dunque, richiedere l’applicazione della norma della L. n. 260 del 1958, art. 4 e non già prospettare una vera e propria questione di legittimazione sostanziale e la Corte territoriale non avrebbe dovuto considerare fondata la questione così proposta, ma avrebbe dovuto solo prendere atto che la difesa erariale non aveva utilizzato l’unico potere difensivo esistente, cioè quello di cui al citato art. 4 e chiesto farsi luogo alle sue possibili implicazioni”.

Nella stessa motivazione di Cass. n. 16104 del 2013 si osservò, altres’, quanto segue: “Il Collegio reputa che questi convincimenti non siano stati infirmati dalla recente Cass. sez. un. n. 8516 del 2012, la quale ha statuito che “la L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 4, deve ritenersi applicabile anche quando l’errore d’identificazione riguardi distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (nella specie, Agenzia delle Entrate e Ministero della Giustizia), ma, in forza dell’ineludibile principio dell’effettività del contraddittorio, la sua operatività è circoscritta al profilo della rimessione in termini, con esclusione, dunque, di ogni possibilità di “stabilizzazione” nei confronti del reale destinatario, in funzione della comune difesa, degli effetti di atto giudiziario notificato ad altro soggetto e del conseguente giudizio.”. Invero questa decisione, non solo conferma pienamente la rilevanza dell’art. 4 nel senso estensivo sopra ipotizzato ed afferma che l’atteggiamento difensivo di un’articolazione statale che sia stata evocata erroneamente al posto di un’altra è comunque riconducibile all’art. 4 citato, ma si riferisce ad un caso nel quale il problema della evocazione di un’articolazione errata si poneva non già con riguardo alle articolazione del Governo della Repubblica, bensì fra un Ministero e l’Agenzia delle Entrate e, quindi, a distinte soggettività l’una delle quali, l’Agenzia, difesa addirittura solo facoltativamente dall’Avvocatura dello Stato. E’ in relazione a tale fattispecie e, quindi, all’ipotesi di due distinte soggettività, che la sentenza sembrerebbe avere sottolineato che l’art. 4, inteso estensivamente, esige una rimessione in termini a garanzia del contraddittorio dell’articolazione che doveva essere convenuta. Ma le cose non cambierebbero se si volesse intendere riferito il principio anche ad ipotesi come quella di cui è processo, in cui lo Stato, anzichè in persona del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’apparato organizzatorio che ad esso fa capo, sia stato convenuto in persona di un Ministro e, quindi, di un Ministero. In ogni caso, è, infatti, evidente che, ove la difesa erariale si sia costituita per l’articolazione evocata erroneamente in vece di quella giusta e ci si trovi in presenza di distinte soggettività, è la difesa erariale che invoca l’applicazione dell’art. 4 e, quindi, adempie al dovere di segnalare la soggettività giusta, che dopo avere tenuto tale comportamento, è legittimata a chiedere una rimessione in termini. Se la difesa erariale non lo faccia e, tanto se si astenga dall’indicare la soggettività giusta, quanto se la indichi, l’irritualità così verificatasi, non integrando un vero e proprio problema di legittimazione, diventa irrilevante e la soggettività evocata erroneamente in giudizio vi deve restare senza poter pretendere che la relativa questione sia trattata come difetto di legittimazione. E semmai, se la soggettività nell’articolazione giusta sia indicata sarà essa a poter intervenire in giudizio ed a rivendicare la rimessione in termini di cui parlano le Sezioni Unite. Nella specie, se anche, per usare la terminologia delle Sezioni Unite, il rapporto fra la Presidenza del Consiglio dei ministri ed i Ministeri e, quindi, per quello che in questa sede interessa, quello dell’Istruzione, Università e Ricerca, potesse considerarsi un rapporto fra soggettività distinte pur facenti capo allo Stato e non piuttosto, come sembra un rapporto di soggettività per articolazioni facenti capo all’istituzione “Governo” e, quindi, alla Presidenza del Consiglio, non risulta che la difesa erariale abbia chiesto una rimessione in termini, quando ha indicato come articolazione che si doveva convenire la Presidenza del Consiglio dei ministri. Ne deriva che nella specie la Corte territoriale, nel considerare il problema della evocazione del Ministero anzichè della Presidenza come questione di legittimazione ha errato ed ha commesso un siffatto errore in una situazione in cui non vi erano i presupposti per la rimessione in termini. Un problema di rimessione in termini, in quanto non prospettato dalla difesa erariale, dunque, si sarebbe potuto porre solo ove la Presidenza del Consiglio, avvisata dall’Avvocatura erariale, si fosse costituita, assumendo la sua qualità di articolazione che doveva stare in giudizio, e ne avesse fatto richiesta. Invero, la L. n. 260 del 1958, art. 4, recita quanto segue: “L’errore di identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l’atto doveva essere notificato. Tale indicazione non è più eccepibile. Il giudice prescrive un termine entro il quale l’atto deve essere rinnovato”.

Ebbene la Corte etnea avrebbe dovuto applicare i ricordati principi, mentre ha dato un’esegesi dell’art. 4 della Legge del 1958 errata.

Dalle svolte considerazioni consegue l’accoglimento del primo motivo di ricorso quanto al rapporto processuale fra ricorrenti e Ministeri resistenti, con cassazione della sentenza impugnata quanto alla parte in cui ha provveduto sulla domanda risarcitoria.

La Corte di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Catania, esaminerà la domanda risarcitoria in quanto riguardo ad essa l’appello non solo era stato proposto e non poteva ritenersi aspecifico. Inoltre, nel procedere al suo esame terrà conto dei principi di diritto sopra ricordati e, quindi, esaminerà la domanda risarcitoria nonostante che in causa stiano i ministeri, i quali non risulta, d’altro canto, che abbiano indicato le necessità di una rimessione in termini a favore della Presidenza del Consiglio di ministri.

p.2. La cassazione della sentenza in forza dell’accoglimento del primo motivo assorbe il secondo motivo, che concerne la statuizione sulle spese. Quest’ultima, rimane, infatti travolta e lo è anche quanto all’Università, atteso che la sentenza impugnata ha proceduto ad una liquidazione in via solidale e, dunque, unitaria a favore di tutte le Amministrazioni, compresa l’Università.

Ne segue che nel giudizio di rinvio, ai soli fini della decisione sulle spese sarà parte anche l’Università (nei cui confronti la decisione di appello riguardo alla conferma del rigetto della domanda principale si è, peraltro, consolidata, non diversamente da come si è consolidata riguardo ai Ministeri).

Al giudice del rinvio è rimesso di regolare anche le spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e cassa la sentenza in relazione riguardo al rapporto processuale fra ricorrenti e Ministeri. Dichiara inammissibile il primo motivo nei confronti dell’Università. Dichiara assorbito il secondo motivo. Rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 15 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016

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