Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23198 del 08/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/11/2011, (ud. 06/10/2011, dep. 08/11/2011), n.23198

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’Avvocato GIAMMARIA PIERLUIGI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA,

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1247/2006 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 12/10/2006 R.G.N. 514/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/10/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega GIAMMARIA PIERLUIGI;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per accoglimento del primo motivo,

assorbiti gli altri.

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Livorno, regolarmente notificato, C.M., assunto dalla società Poste Italiane s.p.a. con diversi contratti a tempo determinato, il primo dall’8.1.1998 al 12.3.1998 “per sostituire lavoratori assenti per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto”, e segnatamente per la sostituzione di una lavoratrice, specificamente indicata, assente dal lavoro per maternità, rilevava la illegittimità del contratto in questione per essere stato esso ricorrente destinato a svolgere la sua attività presso un ufficio diverso. Chiedeva pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto al predetto rapporto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.

Il Tribunale adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il C. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento della domanda proposta con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza in data 26.9 – 12.10.2006, accoglieva il gravame e dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro tra le parti a decorrere dalla predetta data dell’8.1.1998. In particolare la Corte territoriale rilevava che l’adibizione del lavoratore in un ufficio diverso rispetto a quello cui era destinata la lavoratrice sostituita, posto in un’altra città, evidenziava la totale assenza del nesso causale tra l’enunciata ragione legittimante e l’effettiva necessità dell’assunzione.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Poste Italiane s.p.a con quattro motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso il lavoratore intimato.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro (art. 360 c.p.c., n. 3).

In particolare rileva che la L. n. 56 del 1987, art. 23 operava un’ampia delega alla contrattazione collettiva la quale era libera e sovrana nell’individuare delle fattispecie in relazione alle quali era possibile l’apposizione di un termine al contratto di lavoro; e rileva che erroneamente la Corte d’appello, pur ritenendo sussistenti le esigenze derivanti dalla ristrutturazione della società, aveva ritenuto la necessità della ulteriore specificazione delle ragioni legittimanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro.

Col secondo motivo lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 96 disp. att. c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la diversità della sistemazione logistica del lavoratore rispetto alla posizione lavorativa della dipendente sostituita rendesse illegittima l’assunzione, non avendo il ricorrente in realtà indicato gli elementi atti a ritenere l’inesistenza della necessità indicata nel contratto a termine.

Col terzo motivo lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto; insufficiente e contraddittoria motivazione.

La ricorrente osserva che erroneamente la Corte territoriale aveva disatteso la richiesta della società di valutare l’aliunde perceptum, al fine di dedurre i ricavi conseguiti dalla lavoratrice e che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa, aggiungendo che la percezione da parte della lavoratrice di altre somme dopo l’interruzione della funzionalità di fatto del rapporto non poteva che essere genericamente dedotta dalla società.

Col quarto motivo lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto; insufficiente e contraddittoria motivazione.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva disposto la corresponsione delle retribuzioni dalla data del tentativo obbligatorio di conciliazione, sebbene la relativa richiesta non conteneva alcuna offerta formale della prestazione ed era, quindi, inidonea alla costituzione in mora.

Il ricorso non è fondato.

Osserva il Collegio che, trattandosi di ricorso avverso una sentenza depositata il 12.10.2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”.

Nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis: Cass. SS.UU., 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360; Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che il nuovo requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ovvero nella richiesta di declaratoria di una astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità, ma è per contro indispensabile che il quesito di diritto, inteso quale punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio di diritto generale, sia esplicitamente riferito alla lite in oggetto, anche attraverso concreti riferimenti al caso specifico, di talchè sia individuabile il carattere risolutivo rispetto alla controversia concreta, altrimenti risolvendosi nella richiesta di una astratta affermazione di principio.

Siffatta ipotesi si è verificata nel caso di specie ove si osservi che la formulazione dei quesiti relativi ai motivi suddetti si appalesa in buona parte estranea alle argomentazioni sviluppate e comunque del tutto astratta, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato.

Ed invero, per quel che riguarda il quesito relativo al primo motivo di ricorso, incentrato sulla ampiezza della delega alle parti sociali (“Dica la Suprema Corte se è vero che in virtù della delega in bianco contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23 l’autonomia sindacale investita da funzioni paralegislative non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia dei nuovi contratti a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione e se la norma contrattuale debba necessariamente prevedere una specificazione della causale collettiva in una causale individuale per rendere legittima l’assunzione a termine, e non valga invece il principio secondo cui proprio la sopra evidenziata ampiezza della delega alle parti sociali porti a ritenere che sia stata in generale ammessa la possibilità di individuare in astratto le condizioni per il ricorso alle assunzioni a termine, avendo il legislatore ritenuto costituire sufficiente garanzia di legalità la valutazione operata da parti sociali particolarmente qualificate”), osserva il Collegio che lo stesso si risolve in una affermazione tautologica, priva di specifico riferimento alla fattispecie concreta, e quindi priva della decisività in relazione al caso specifico, risolvendosi nella richiesta di declaratoria di un’astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità.

Analogo rilievo deve operarsi con riferimento al quesito relativo al secondo motivo di ricorso, così formulato: “dica la Corte se il datore di lavoro, soprattutto nell’ambito delle organizzazioni aziendali, anche nell’ipotesi di contratto di lavoro a tempo determinato, abbia facoltà di assegnare al lavoratore la qualifica e le mansioni in relazione alle esigenze organizzative e produttive dell’impresa e di adibire il sostituto anche a mansioni diverse da quelle originariamente assegnategli”. Osserva il Collegio che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, sicchè la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile, non potendo considerarsi in particolare sufficiente ed idonea la mera generica richiesta di accertamento della sussistenza della violazione di una norma di legge (v. Cass., 28/5/2009, n. 12649); a ciò si aggiunga che il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve essere formulato, in base alla giurisprudenza pacifica di questa Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio, dovendosi pertanto ritenere inesistente un quesito generico o astratto.

Per quel che riguarda il terzo motivo di ricorso, relativo alla valutazione dell’aliunde perceptum, rileva il Collegio che lo stesso si conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.: “Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minore rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Orbene, se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura, è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto asseritamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi la evidente genericità dello stesso con conseguente inammissibilità del motivo ai sensi del predetto art. 366 bis c.p.c..

In ordine al quarto motivo, concernente la corresponsione delle retribuzioni pur in mancanza di attività lavorativa e la dedotta inidoneità della condotta del lavoratore a costituire in mora la società datoriale, osserva parimenti il Collegio che il relativo quesito (“Dica la Suprema Corte se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettività e di corrispettività delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retribuivo pur in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retribuiva o risarcitoria”) risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dalla Corte di merito.

Pertanto, la evidente genericità dei quesiti rende inammissibili i motivi.

A tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 40,00, oltre Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2011

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