Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23194 del 23/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 23/10/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 23/10/2020), n.23194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31306-2019 proposto da:

M.L.O., elettivamente domiciliato in ROMA VIA CICERONE

66, presso lo studio dell’avvocato SODANO MARIA LAURA e

rappresentato e difeso da sè stesso;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI DI NAPOLI elettivamente domiciliato

in ROMA VIA CARLO CONTI ROSSINI 13 presso lo studio dell’avvocato

CANELLI IVAN e rappresentato e difeso dall’avvocato TREMANTE LUIGI

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il

14/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/10/2020 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

L’avvocato M.L.O. conveniva in giudizio ex art. 702-bis c.p.c. dinanzi al Tribunale di Napoli l’Istituto Autonomo Case Popolari di Napoli in liquidazione (d’ora in poi IACP) deducendo che aveva difeso il convenuto in un giudizio svoltosi dinanzi al medesimo Tribunale, avente ad oggetto la rivendica di ben 141 appartamenti del valore complessivo di Euro 28.000.000,00, giudizio conclusosi favorevolmente per il cliente.

Assumeva che, sebbene avesse agito in autotutela proponendo ricorso al Comune di Napoli ed all’Agenzia del Demanio, non aveva percepito alcun acconto e concludeva per la condanna del convenuto al pagamento dei compensi dovuti, ammontanti ad Euro 142.465 per l’attività giudiziale ed ad Euro 28.334,00 per quella stragiudiziale.

Si costituiva lo IACP che evidenziava che l’attore in data 27/10/2011 aveva chiesto di essere inserito nell’elenco dei difensori dell’ente di cui al regolamento per l’affidamento di incarichi ad avvocati esterni, approvato con delibera del CdA n. 98/1012 del 4/12/2008 e successiva specificazione di cui alla delibera n. 101/1022 del 19/12/2008.

Nella richiesta il M.L. aveva specificato di aver preso visione della detta Delibera e del regolamento alla stessa allegato, approvandone senza alcuna condizione o riserva il contenuto e le singole clausole.

L’art. 6 del regolamento, in particolare, disponeva che gli incarichi dovevano essere regolati da apposite convenzioni e che il riconoscimento degli onorari sarebbe avvenuto in misura inferiore ai minimi tariffari e con riduzione del 30% in caso di soccombenza, abbandono o estinzione del giudizio.

Si deduceva che l’attore aveva concluso apposita convenzione in data 13/01/2012 e che l’incarico per la causa in relazione alla quale erano richiesti i compensi, era stato conferito con Delib. commissariale n. 1444/448 del 22/12/2014, con il richiamo ai decreti aventi ad oggetto le misure di contenimento degli oneri per il conferimento di incarichi a legali esterni.

In particolare, il decreto commissariale n. 32/97, espressamente richiamato, prevedeva che il compenso complessivo dovuto al professionista esterno, escluso il rimborso delle spese vive, non poteva superare il tetto massimo di Euro 3.000,00 per i giudizi di primo grado, civili, amministrativi e tributari, con la conseguenza che il ricorrente non poteva esigere una somma superiore ad Euro 3.000,00.

Il Tribunale con ordinanza del 14/3/2019 ha accolto in parte la domanda attorea, liquidando al M.L. la complessiva somma di Euro 6.000,00, oltre spese generali ed interessi al tasso di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002.

Dopo avere richiamato il contenuto del regolamento per il conferimento di incarichi a legali esterni all’ente, al quale il ricorrente aveva aderito presentando domanda di inserimento nell’apposito elenco, rilevava che la delibera di conferimento dello specifico incarico prevedeva che il compenso sarebbe stato commisurato a quanto previsto nell’apposito decreto commissariale, che appunto fissava in Euro 3.000,00 il compenso massimo.

Trattasi di una determinazione del corrispettivo avvenuta per relationem e con un grado di sufficiente specificità, e ciò anche avuto riguardo alla qualità professionale di avvocato del contraente.

Il contratto non è affetto da nullità ed il suo contenuto era sicuramente comprensibile dal ricorrente, posto che gli atti ai quali faceva rinvio erano nella potenziale disponibilità del M.L..

Doveva poi escludersi che il bando per il convenzionamento fosse un contratto per adesione, rispetto al quale il ricorrente rivestisse la qualità di consumatore ovvero di contraente debole, atteso che non era stato concluso un rapporto di convenzionamento, ma era stato conferito un incarico professionale, che il ricorrente era libero di accettare o meno. All’epoca dei fatti era poi consentita la deroga ai minimi tariffari, nè la normativa successiva, che ha reintrodotto l’obbligatorietà dei minimi in questione, ha reso illecita la pattuizione intervenuta, posto che non si verte in materia di contratto di durata.

Non incideva poi la circostanza che non fosse stata conclusa un’apposita convezione, trattandosi di una facoltà concessa all’ente che in ogni caso poteva conferire ai difensori singoli incarichi, pattuendo il compenso in base alle tariffe prestabilite. Avuto riguardo quindi alle tariffe concordate, al ricorrente andavano attribuiti i compensi in misura pari al massimo, atteso il rilievo delle questioni trattate e per un importo complessivo di Euro 6.000,00.

M.L.O. ha proposto ricorso avverso tale ordinanza sulla base di quattro motivi.

Lo IACP ha resistito con controricorso.

Preliminarmente si rileva che il ricorrente ha depositato memorie oltre il termine prescritto dalla legge sicchè le stesse non possono essere prese in esame.

Il primo motivo di ricorso denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo per la controversia nonchè la decisione di una questione di diritto in modo difforme dalla giurisprudenza della Corte.

Ricorda il ricorrente che aveva articolato molteplici difese a contrasto delle eccezioni dello IACP, come riportate in ricorso, a fronte delle quali il Tribunale ha opposto una motivazione fondata essenzialmente sulla qualità professionale del ricorrente, che faceva presumere la conoscibilità del contenuto degli atti richiamati in occasione del conferimento dell’incarico. Inoltre, si deduce la violazione dell’art. 1340 c.c., in quanto il provvedimento gravato è carente della descrizione del percorso logico-giuridico seguito.

Il motivo è inammissibile.

In primo luogo, denuncia la violazione di un vizio di motivazione facendo riferimento alla formula non più applicabile ratione temporis dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come del pari risulta del tutto generica la deduzione della violazione di legge, in particolare dell’art. 1340 c.c., norma che non risulta richiamata dal giudice di merito, e di cui il ricorrente non chiarisce come risulti essere stata erratamente applicata dal Tribunale. Nè la censura risulta sussumibile nella nuova previsione di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, atteso che secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133. Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439); le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali rappresentano, piuttosto, i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame, e la cui mancata considerazione perciò integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., il che rende ravvisabile la fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e quindi impone un univoco riferimento del ricorrente alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. 2, 22/01/2018, n. 1539; Cass. Sez. 6 – 3, 08/10/2014, n. 21257; Cass. Sez. 3, 29/09/2017, n. 22799; Cass. Sez. 6 – 3, 16/03/2017, n. 6835)

La doglianza del ricorrente si limita a denunciare la mancata considerazione di alcune delle argomentazioni difensive spese dinanzi al Tribunale, ma omette di individuare il fatto storico di cui sarebbe stata omessa la disamina, risolvendosi la censura in un’insoddisfazione per la motivazione del giudice di merito, che però non legittima la ricorribilità dinanzi a questa Corte.

Il secondo motivo di ricorso denuncia l’illogicità manifesta della motivazione e la contraddittorietà del provvedimento laddove si nega l’esistenza di un rapporto di convenzionamento.

Il Tribunale ha negato, infatti, che fosse stato instaurato un rapporto di convenzionamento, affermazione questa che contraddice l’affermazione secondo cui tra le parti erano vincolanti le determinazioni del contenuto contrattuale di cui alle delibere del CdA, in merito al contenimento dei costi.

Il terzo motivo denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 3 Cost. e degli artt. 1341 e 1342 c.c. in quanto è stata negata l’applicazione delle suddette norme del codice sol perchè il ricorrente rivestiva la qualità di avvocato.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

Questa Corte ha, infatti, affermato che (cfr. Cass. n. 18041/2012) quando i contraenti fanno riferimento alla disciplina fissata in un distinto documento al fine dell’integrazione della regolamentazione negoziale, le previsioni di quella disciplina si intendono conosciute e approvate per “relationem”, assumendo pertanto il valore di clausole concordate senza necessità di una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c. (conf. Cass. n. 5578/2000).

L’ordinanza impugnata ha ritenuto che l’avv. M.L., già al momento della richiesta di inserimento nell’elenco dei legali esterni dello IACP fosse stato reso edotto delle limitazioni di carattere generale che l’ente aveva adottato al fine del contenimento dei costi per l’assistenza in giudizio, aggiungendo poi che al momento del conferimento dell’incarico, sebbene intervenuto senza la conclusione di un apposto contratto di convenzionamento, ma facendo riferimento ad uno specifico incarico, la relativa delibera conteneva un esplicito richiamo alle precedenti delibere commissariali volte a contenere i costi, di guisa che, attesa anche la competenza professionale del ricorrente, il contenuto del contratto d’opera professionale doveva reputarsi integrato per relationem tramite il richiamo al contenuto delle delibere, così che non poteva contestarsi che il corrispettivo pattuito fosse stato determinato in misura inferiore ai minimi tariffari (come appunto consentito dalla normativa vigente ratione temporis).

Una volta escluso, quindi, alla luce del principio di diritto sopra richiamato, che alla fattispecie fosse applicabile la disciplina di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c. (e ciò, non in ragione della natura professionale del ricorrente, ma in considerazione delle concrete modalità di fissazione del contenuto negoziale), il richiamo alla mancanza di un rapporto di convenzionamento, al quale pur faceva riferimento l’art. 6 del regolamento allegato alla Delibera del CdA del 4 dicembre 2008 n. 98/1012, mira piuttosto a ribadire che alla fine il rapporto si era esaurito nel conferimento di un singolo incarico professionale, ma con modalità tali da assicurare che in ogni caso la disciplina delle condizioni contrattuali fosse conforme al contenuto delle delibere finalizzate a contenere al minimo gli onorari professionali dei legali esterni.

Deve escludersi quindi che la motivazione sia affetta da illogicità manifesta o evidente contraddittorietà e che quindi possa incorrere nella nullità di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Il quarto motivo denuncia la violazione ed errata applicazione della L. n. 247 del 2012, art. 13, avendo errato il giudice di merito nel ritenere che la richiesta di iscrizione all’elenco degli avvocati esterni avesse valore contrattuale. Nella fattispecie si è verificata una nullità parziale del contratto, cui si supplisce mediante la sostituzione automatica della clausola relativa al compenso, affetta da nullità, con la previsione di cui alla stessa L. n. 247 del 2012, art. 13, con applicazione quindi delle disposizioni di cui al D.M. n. 55 del 2014.

Si sostiene che la condotta dell’ente sarebbe contraria all’art. 1337 c.c. e che la dichiarazione di inserimento nell’elenco di cui sopra equivarrebbe alla predisposizione unilaterale di una condizione contrattuale cui risulta applicabile il disposto dell’art. 1341 c.c..

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Richiamato quanto sopra esposto in merito all’inapplicabilità dell’art. 1341 c.c. nel caso di richiamo per relationem al contenuto di atti esterni, ed esclusa la ricorrenza di una violazione dell’art. 1337 c.c., alla luce dell’accertamento compiuto dal giudice di merito che ha sostenuto che le modalità di rinvio al contenuto delle delibere commissariali, pienamente disponibili per il ricorrente, consentisse a quest’ultimo di avvedersi dell’effettivo contenuto del contratto concluso, senza che sia stata violata la regola della buona fede nella fase delle trattative, l’ordinanza ha ritenuto che fosse intervenuta una deroga convenzionale alle previsioni tariffarie, come consentito dalla normativa vigente, risultando quindi priva di fondamento la deduzione secondo cui la previsione negoziale in parte qua sarebbe affetta da nullità.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma art. 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2020

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