Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23192 del 08/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/11/2011, (ud. 06/10/2011, dep. 08/11/2011), n.23192

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26512-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’Avvocato PETRACCA NICOLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.F.F., L.M.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato

VACIRCA SERGIO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

LALLI CLAUDIO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 897/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 27/10/2006 R.G.N. 55/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/10/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega PETRACCA NICOLA DOMENICO;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per inammissibilità per D.

F., rigetto per L.M.A..

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenze n. 141 e 151 del 2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Vasto, in parziale accoglimento delle domande proposte da L.M.A. e D.F.F. dichiarava la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro intercorsi con la s.p.a. Poste Italiane e la sussistenza di rapporti a tempo indeterminato tra le parti, disponendo la reintegrazione dei lavoratori, ma respingendo la domanda di risarcimento del danno con riferimento al pagamento della retribuzione maturata.

Sugli appelli proposti dalla società e dai lavoratori, la Corte di Appello di l’Aquila, con sentenza depositata il 27-10-2006, respingeva i primi ed in parziale accoglimento dei secondi, condannava la società a corrispondere la retribuzione maturata dalle rispettive date di messa in mora (22-11-2002 per il D.F. e 19- 11-2002 per la L.), confermando per il resto le impugnate sentenze.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con quattro motivi.

I lavoratori intimati hanno resistito con controricorso.

E’ stata poi depositata copia di verbale di conciliazione in sede sindacale concluso tra la s.p.a. Poste Italiane e il D.F. in data 24-1-2011 e la società e la L. hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

Ciò posto il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti del D.F..

Dal verbale di conciliazione prodotto in copia risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che – in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale.

Osserva il Collegio che il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278, Cass. 13-7-2009 n. 16341).

In considerazione, poi, dell’accordo complessivo intervenuto, le spese del presente giudizio di cassazione vanno compensate tra la società e il D.F..

Il ricorso va invece respinto nei confronti della L..

Al riguardo sui primi due motivi, con i quali la ricorrente sostiene sotto vari profili la legittimità del termine, osserva il Collegio che la Corte di merito, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 e successivi -in data successiva al termine fissato dalle stesse parti collettive con l’accordo attuativo del 16-1-1998.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de qua.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggetti ve di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063. v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862. Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre. Cass. 4-8-2008 n. 21062. Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383. Cass. 14-4-2005 n. 7745. Cass. 14-2-2004n.2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha univocamente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998: ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998. per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1″ (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062;

Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Con il terzo motivo, indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, ma in realtà riguardante la asserita violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – all’art. 384 c.p.c., u.c.) e attinente all’argomento della detrazione dell’aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione de contratto a tempo indeterminato, la ricorrente lamenta, del tutto genericamente, che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e censura la sentenza per non avere tenuto conto che l'”aliunde perceptum … non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.

Il motivo, così riassunto, conclude poi con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis c.p.c.:

“Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es.

Cass. S.U., 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che i quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente con conseguente inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. (in tal senso v. fra le altre Cass. 10-1-2011 n. 325).

Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32. commi 5, 6 e 7 (invocato dalla società con la memoria).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr, Cass. 8 maggio 2006 n. 10547. Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2 e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la breve durata del contratto, la conclusione dello stesso con la accettazione del TFR senza riserve e la lunga inerzia prima del giudizio.

Anche tale motivo non può essere accolto.

Come questa Corte ha più volte affermato, “nel giudizio instaurato ai lini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell”illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del tasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935. Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621. nonchè da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279).

Nella fattispecie la Corte di merito, sul punto, dopo aver evidenziato la irrilevanza del mero decorso del tempo, in mancanza di ulteriori elementi significativi, ha affermato che “inoltre deve considerarsi che i contratti a tempo determinato sono stati stipulati dalla società con lavoratori iscritti volontariamente su liste, con iscrizione che implica evidentemente la volontà di rendere prestazioni lavorative, e quindi una volontà antitetica rispetto alla rinuncia a lavorare alle dipendenze della controparte”.

Tale decisione, che in sostanza ha escluso una volontà tacita di risoluzione del rapporto, è conforme al principio di diritto sopra richiamato e risulta altresì congruamente motivata.

Il ricorso va così respinto nei confronti della L. e la società, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in suo favore.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti de D. F. e compensa le spese con lo stesso; rigetta il ricorso nei confronti della L. e condanna la società a pagare le spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2011

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