Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23189 del 23/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 23/10/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 23/10/2020), n.23189

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19952-2018 proposto da:

M.F.M., M.A., M.E.,

MU.FR., elettivamente domiciliate in ROMA VIA TACITO 41, presso lo

studio dell’avvocato MIRIGLIANI FORTUNATO FRANCESCO che unita mente

all’avvocato ZOPPINI ANDREA le rappresenta e difende giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

M.L., M.C. elettivamente domiciliati in ROMA VIA

di SAN NICOLA DE’ CESARINI 3 presso lo studio dell’avvocato MACARIO

FRANCESCO che li rappresenta e difende giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 135/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 18/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/10/2020 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie depositate dalle parti.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione del 9 febbraio 2010 Mu.An. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia M.C. e M.L. al fine di far accertare e dichiarare che la cappella posta al secondo piano del fabbricato M. di (OMISSIS) è comune a tutte le parti, chiedendo altresì di accertare che l’utilizzo del bene avvenisse in conformità delle regole della comunione.

Evidenziava che in precedenza aveva già agito per l’accertamento della natura comune del fabbricato, deducendo che fosse comune anche la cappella in esame e che in detto risalente giudizio del 1990 i convenuti avevano riconosciuto che la cappella era effettivamente comune.

Tale processo era però stato definito con sentenza n. 271/2004 del Tribunale di Vibo Valentia che aveva preso atto dell’intervenuta conciliazione giusta scrittura privata del 3/6/2000.

Tuttavia, evidenziava che nella scrittura in questione non si faceva riferimento alla sorte della cappella privata e che sulla stessa di recente i convenuti avevano accampato diritti di proprietà esclusiva negandogli l’accesso.

Si costituivano i convenuti i quali negavano il diritto dell’attore sul bene oggetto di causa, pur non opponendosi al suo libero accesso, aggiungendo che la cappella era parte integrante dei beni attribuiti ai convenuti per effetto dell’intesa del 3/6/2000, chiedendo in via riconvenzionale darsi esecuzione agli impegni ivi assunti.

All’esito dell’istruttoria il Tribunale di Vibo Valentia, con la sentenza n. 216/2010, accoglieva la domanda dell’attore, accertando la natura comune dell’immobile.

La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 135 del 18/1/2018, accoglieva l’appello dei convenuti, rigettando la domanda attorea.

Rilevava che il primo motivo di appello, con il quale si deduceva che il Tribunale avesse violato i principi in tema dell’onere della prova, era fondato.

Infatti, pur essendosi correttamente ritenuto che alla fattispecie dovessero applicarsi i principi in tema di probatio diabolica posti dall’art. 948 c.c., non poteva ritenersi che tale prova fosse stata offerta sol perchè i convenuti nel precedente giudizio, conclusosi con la sentenza di cessazione della materia del contendere, avessero chiesto accertarsi la natura comune della cappella.

Era invece specifico onere dell’attore dimostrare l’avvenuto acquisto del bene a titolo originario ovvero a titolo derivativo, ma tramite una serie di atti che consentano di risalire ad un proprietario a titolo originario.

Anche a voler soprassedere sulla qualificazione della domanda quale azione di revindica, andava detto che anche in caso di azione di accertamento della proprietà, è necessario offrire la prova rigorosa richiesta dall’art. 948 c.c., che però non era stata data dall’attore, imponendosi quindi la riforma della decisione gravata.

Per la cassazione della sentenza di appello propongono ricorso M.F.M., M.A., M.E., Mu.Fr., quali eredi di Mu.An., sulla base di tre motivi.

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Con il primo motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. per avere il giudice di appello ritenuto che fosse stata proposta una domanda di rivendica ex art. 948 c.c., laddove in senso contrario dalla lettura degli atti processuali emerge che era stata avanzata una domanda di mero accertamento della proprietà del bene.

Il secondo motivo denuncia invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 948 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha ritenuto che anche nel caso in cui sia proposta un’azione di mero accertamento della proprietà, siano applicabili le norme in tema di prova dettate dall’art. 948 c.c., con la necessità di fornire la cd. probatio diabolica, senza quindi tenere conto delle evidenti differenze esistenti tra le due azioni.

I due motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

In primo luogo, va rilevato che la Corte d’Appello non ha evidentemente optato per la qualificazione della domanda proposta in termini di azione di rivendica, ma piuttosto, prescindendo da tale qualificazione, ha ritenuto (cfr. pag. 7) che anche a voler accedere alla diversa ipotesi che fosse stata proposta un’azione di accertamento della proprietà (come appunto perorano i ricorrenti), sarebbe stato in ogni caso necessario per l’istante offrire la prova richiesta dall’art. 948 c.c..

Tale ultima affermazione è tuttavia incensurabile, alla luce della giurisprudenza di questa Corte che ha affermato il principio secondo cui (cfr. Cass. n. 1650/1994) se l’attore che proponga una domanda di accertamento della proprietà non ha il possesso della cosa oggetto del preteso diritto, ha l’onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la revindica, perchè spiega azione a contenuto petitorio, tesa al conseguimento di una pronuncia giudiziale utilizzabile per ottenere la consegna della cosa da parte di chi la possiede o la detiene (conf. Cass. n. 12300/1997; Cass. n. 7894/2000 che appunto chiarisce come, nel caso in cui l’attore abbia il possesso della cosa, si attenua il rigore probatorio, in quanto l’azione di accertamento tende non già alla modifica di uno stato di fatto, ma solo alla eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito; Cass. n. 7777/2005).

E’ pur vero che a tale opinione si contrappone un più recente orientamento, che traendo le conseguenze dall’intervento delle Sezioni Unite che ha dettato i criteri per distinguere tra azione di revindica ed azioni personali di restituzione (Cass. S.U. n. 7305/2014) ha ritenuto in maniera ben più rigorosa di affermare la regola secondo cui (cfr. Cass. n. 1210/2017) colui il quale agisca per ottenere il mero accertamento della proprietà o comproprietà di un bene, anche unicamente per eliminare uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto esercitato sullo stesso, è tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla probatio diabolica della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato “erga omnes”, sicchè aderendo a tale ultima opinione, la sentenza gravata risulterebbe avere fatto corretta applicazione anche al caso sottoposto al suo esame della necessità dell’accertamento rigoroso del diritto di proprietà.

Va però evidenziato che, tale precisazione non rileva nel caso in esame, nel quale, come dedotto nello stesso atto di citazione, Mu.An. si doleva del fatto che gli fosse inibito di accedere alla cappella, denotando in tal modo che l’accertamento concerneva la proprietà di un bene del quale non aveva più il possesso, dovendosi quindi in ogni caso far riferimento al regime richiesto per la prova dall’art. 948 c.c..

Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 e 1362 c.c..

I giudici di appello hanno disatteso la domanda ritenendo che l’attore non avesse prodotto alcun documento comprovante il proprio diritto di proprietà.

Inoltre, non rilevava che in un diverso giudizio i convenuti si fossero difesi asserendo che la cappella era un bene comune, atteso che il giudizio stesso si era concluso con una sentenza di cessazione della materia del contendere.

Si sostiene che tale soluzione trascura il fatto che il dante causa dei ricorrenti avesse però fornito adeguata prova del suo diritto, e ciò proprio alla luce del riconoscimento dell’originaria comproprietà operato dalle controparti nel precedente giudizio. Peraltro, anche l’accordo transattivo del 3/6/2000, ove rettamente interpretato, avrebbe dovuto portare alla conclusione della natura comune della cappella, atteso che lo stesso non fa menzione alcuna di tale bene, che deve quindi reputarsi tuttora in comunione.

Il motivo è fondato.

In tale direzione deve richiamarsi la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 25793/2016) secondo cui nell’azione di rivendicazione il rigore della prova della proprietà è attenuato se il convenuto riconosca che il bene rivendicato apparteneva un tempo ad una determinata persona, essendo sufficiente in tal caso che il rivendicante dimostri, mediante gli occorrenti atti d’acquisto, il passaggio della proprietà da quella determinata persona fino a lui (conf. Cass. n. 22598/2010, che ha ribadito che il rigore del principio secondo il quale l’attore in rivendica deve provare la sussistenza dell’asserito diritto di proprietà sul bene anche attraverso i propri danti causa fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell’usucapione, risulta attenuato in caso di mancata contestazione da parte del convenuto dell’originaria appartenenza del bene ad un comune dante causa, ben potendo in tale ipotesi il rivendicante assolvere l’onere probatorio su di lui incombente limitandosi a dimostrare di avere acquistato tale bene in base ad un valido titolo di acquisto).

Posto tale principio, risulta evidente che rileva I ai fini dell’attenuazione dell’onere della provai il riconoscimento della natura comune del bene effettuato dai convenuti nel precedente giudizio. Peraltro, l’originaria natura comune del cespite appare sostanzialmente confermata dalla linea difensiva assunta anche nel presente giudizio nel quale i convenuti, hanno sì negato la proprietà della cappella in capo all’attore, ma sul presupposto, come esplicitato dal riassunto delle difese operato nella narrazione in fatto della sentenza gravata, che a seguito dell’accordo del 3/6/2000, la cappella era da ritenersi parte integrante dei beni attribuiti agli stessi convenuti in via transattiva.

Ne consegue che non poteva esigersi da parte dell’attore la dimostrazione di un acquisto a titolo originario, ma piuttosto, alla luce del tenore delle difese dei convenuti, occorreva effettivamente verificare se la scrittura del giugno del 2000, che a detta degli stessi convenuti avrebbe posto fine allo stato di comunione anche in relazione alla cappella, avesse effettivamente sottratto il bene de quo all’originario regime comproprietario.

Nè appare possibile invocare in senso contrario il precedente di questa Corte (Cass. n. 3648/2004) la cui massima recita: “Soggiace all’onere di offrire la prova rigorosa prescritta in tema di azione di rivendica della proprietà dall’art. 948 c.c. chi – invocando la qualità di comproprietario e non di proprietario esclusivo del bene – agisca per ottenere – previo accertamento della comunione – il recupero della utilizzazione della cosa – di cui lamenti di essere stato privato – attraverso un provvedimento che gli consenta l’esercizio dei poteri spettanti al comunista nell’uso della cosa comune impedito dal comportamento del comproprietario. (La Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che, nel ritenere non assolto l’onere probatorio di cui all’art. 948 c.c. aveva rigettato la domanda con cui l’attore, assumendo di essere comproprietario di uno spiazzo comune anche al convenuto, aveva chiesto l’accertamento della relativa comproprietà con la condanna del predetto convenuto alla rimozione delle macerie dal medesimo depositate in modo da impedire il passaggio esercitato dall’istante)”, in quanto pur presentando la vicenda ivi decisa evidenti similitudini con quella in esame, la lettura della sentenza per esteso permette di rilevare che in quella diversa occasione non vi era stato da parte del convenuto alcun riconoscimento in ordine all’originaria appartenenza comune del bene, che costituisce proprio l’elemento tipizzante della vicenda in esame.

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Catanzaro, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i primi due, e cassa la sentenza in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Catanzaro.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2020

 

 

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