Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23171 del 04/10/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 04/10/2017, (ud. 17/07/2017, dep.04/10/2017),  n. 23171

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14988/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

F.E. S.p.A., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Marco

Miccinesi e dal Prof. Avv. Francesco Pistolesi, con domicilio eletto

in Roma, viale Liegi, n. 32, presso lo studio del Prof. Avv.

Marcello Clarich;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, n. 2320/09/14, depositata il 1 dicembre 2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 luglio

2017 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. L’Agenzia delle entrate ricorre con cinque mezzi, nei confronti della F.E. S.p.A. (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la Commissione tributaria regionale della Toscana ha rigettato l’appello dell’Ufficio ritenendo illegittimi gli avvisi di accertamento nei confronti della predetta società emessi per il recupero a tassazione, a fini Ires e Irap per glí anni dal 2005 al 2009, di costi relativi a contratti di “prestito d’uso d’oro” oltre che, per l’anno 2006, di perdite discendenti da contratti derivati di currency options stipulati con la Bnl e legati all’andamento del prezzo dell’oro.

1.1. Quanto ai primi, riteneva infatti l’Ufficio che, trattandosi di contratti atipici in forza dei quali gli istituti bancari fornivano alla contraente l’oro necessario per la propria attività, dietro pagamento di interessi, con l’obbligo per la stessa di restituire l’oro alla scadenza pattuita nelle stesse quantità e qualità, oppure di corrisponderne l’equivalente in danaro, la proprietà dell’oro poteva intendersi trasferita alla società solo nel momento in cui veniva esercitato il diritto di opzione per l’acquisto e che, quindi, i relativi costi andassero dedotti nell’esercizio in cui ciò si verificava e non in quello in cui era avvenuta la consegna dell’oro, come invece ritenuto dalla contribuente.

1.2. La C.T.R. riteneva invece corretto l’operato di quest’ultima sul rilievo che l’oro ad essa consegnato era subito trasformato per essere utilizzato in ulteriori processi di produzione, ciò implicando che, già per effetto della consegna, la società otteneva la piena disponibilità, reale e giuridica, dell’oro consegnato, assumendo i rischi del relativo perimento. Affermava pertanto potersi configurare un vero e proprio contratto di mutuo, nel quale il momento perfezionativo coincide con la c.d. traditio, con la consegna cioè del denaro o di altra cosa fungibile al mutuatario, che ne acquista la proprietà, dovendosi considerare la previsione contenuta nella clausola inserita nel contratto concluso con la Banca Toscana in data 29/11/1996 (secondo cui il trasferimento dell’oro si sarebbe verificato al momento dell’esercizio dell’opzione per l’acquisto) – previsione peraltro non presente in altri contratti, anche con la stessa banca – frutto di un uso atecnico e inesatto dei termini, quanto meno ai fini fiscali, comunque incompatibile con le altre clausole contenute nel contratto.

Ne discendeva, secondo la C.T.R., che l’esercizio competente per la detraibilità delle relative spese doveva considerarsi quello in cui è avvenuta la consegna dell’oro.

Soggiungeva la C.T.R. che, comunque, l’eventuale errata collocazione temporale dei costi in questione non ha comportato alcuna evasione d’imposta, trattandosi di costi effettivi e non contestati, ma un semplice scostamento temporale (motivo questo per il quale – notava – il procedimento penale si è concluso con decreto di archiviazione). Peraltro, non avendo l’Ufficio riconosciuto i costi in questione, nè negli anni dichiarati dalla contribuente, nè in quelli ritenuti competenti, si determinerebbe altrimenti una evidente duplicazione di redditi e di imposta.

Negava, infine, la C.T.R., rilievo ostativo alla mancata indicazione dei prezzi alla data della consegna, ritenendo al riguardo congrua la prudenziale determinazione degli stessi operata dalla contribuente nel prezzo di Euro 15,94 al grammo, inferiore alle quotazioni del fixing di Londra, con riserva della contabilizzazione di eventuali sopravvenienze attive o passive eventualmente a verificarsi a seguito dell’applicazione del prezzo definitivo nell’esercizio in cui sarebbe stata esercitata l’opzione di acquisto dell’oro.

1.3. Quanto ai costi relativi ai contratti derivati di currency options – la cui deducibilità era negata dall’Ufficio in difetto della dimostrazione di alcuna correlazione tra i contratti medesimi e i prestiti d’oro alle cui perdite i primi avrebbero dovuto offrire copertura – rilevava la C.T.R. che tale correlazione doveva ritenersi sussistente in ragione della “nota e dimostrata netta crescita dei prezzi dell’oro”, siccome anche desumibile dalla premessa del contratto con la Banca Nazionale del Lavoro del 25/1/2006.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 1813 c.c. e ss., per avere la C.T.R. deciso nei termini sopra esposti in virtù di una interpretazione dei contratti medesimi non conforme ai canoni dettati dagli artt. 1362 e 1363 c.c., avendo essa in particolare ritenuto di poter prescindere dal nomen iuris risultante dal contratto e omesso di considerare la comune intenzione delle parti come emergente sia dal dato letterale, sia dal complesso delle disposizioni contrattuali, sia dal comportamento successivo delle parti.

Rimarca, al riguardo, la ricorrente, che in tutti i contratti si prevede che “alla scadenza del prestito la società dovrà alternativamente:… b) pagare la somma in dollari necessaria all’acquisto dell’oro oggetto del prestito. Il prezzo dell’oro verrà determinato in relazione alla quotazione radicata in dollari Usa nel giorno di acquisto sul mercato di Londra”; che in particolare, nel contratto con la Banca Toscana, tale meccanismo (in realtà, assume, proprio di tutti i contratti) viene valorizzato ancor più esplicitamente prevedendosi che “il trasferimento della proprietà dell’oro greggio avviene al momento dell’esercizio dell’opzione”; che in tutti i contratti si prevede la corresponsione di interessi sui “prestiti”, evidentemente giustificata proprio dal fatto che l’oro costituisce oggetto di un diritto di natura personale nei confronti della banca concedente, la quale si pone come soggetto erogatore di un servizio che la corresponsione degli interessi è diretta a remunerare; che le banche concedenti al momento della consegna dell’oro non emettevano alcuna fattura, ciò spiegandosi proprio con l’assenza di effetto traslativo dell’operazione.

Evidenzia ancora che di contro gli elementi valorizzati dalla C.T.R. come significativi di un contratto parificabile a quello di mutuo non possono considerarsi affatto decisivi in tal senso, atteso che: a) la facoltà di utilizzo dell’oro prestato non può considerarsi necessariamente collegata allo status di proprietario, ma costituisce oggetto di una semplice prestazione di servizio reso dalla concedente, remunerata dagli interessi pattuiti, ed è funzionale allo scopo economico tipico di finanziamento attribuibile al contratto; b) anche il passaggio del rischio non può considerarsi decisivo ai fini della accolta qualificazione, dal momento che, trattandosi di beni fungibili, vi è solo l’obbligo di corrispondere il tantundem.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in subordine, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di contestazione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere omesso di considerare gli elementi sopra evidenziati.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce poi violazione e falsa applicazione dell’art. 109 t.u.i.r., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui “l’eventuale errata collocazione temporale dei costi in questione non ha comportato alcuna evasione di imposta”: rileva al riguardo che, in base a costante giurisprudenza di legittimità, le regole sulla competenza sono inderogabili ed è precluso al contribuente di effettuare una pianificazione fiscale finalizzata a collocare i costi o i ricavi nell’anno ritenuto più favorevole; che, inoltre, diversamente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, la violazione delle norme sulla competenza ha portato a rilevanti perdite di gettito per l’erario; che ancora, quanto all’asserita duplicazione dell’imposta conseguente al mancato riconoscimento della deduzione nell’anno ritenuto di competenza, il rilievo vìola il principio c.d. del riequilibrio in forza del quale si richiede comunque la presentazione, da parte del contribuente, di una domanda di rimborso allorquando diventi incontestabile l’identificazione dell’esercizio di competenza; che nessun rilievo può infine attribuirsi all’archiviazione del separato procedimento penale, stante l’assoluta autonomia del giudizio tributario rispetto a quest’ultimo.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ancora, sotto altro profilo, violazione e falsa applicazione dell’art. 109 t.u.i.r., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. deciso nei termini esposti trascurando il rilievo da assegnarsi alla mancanza di determinatezza e certezza dei costi in questione, nel momento in cui essi sono stati dedotti dalla contribuente, ossia anteriormente all’esercizio dell’opzione di acquisto.

5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, infine, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 109 e 112, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla ritenuta deducibilità dei costi relativi ai contratti derivati di currency options. Rileva che, ai sensi dell’art. 112, comma 6 t.u.i.r. (nel testo vigente ratione temporis) può essere considerata di copertura, come tale suscettibile di concorrere alla formazione del reddito imponibile, l’operazione che “ha lo scopo di proteggere dal rischio di avverse variazioni dei tassi di interesse, dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato, il valore di singole attività o passività in bilancio o “fuori bilancio”…”. Sostiene quindi che i presupposti ricavabili da tale definizione non erano configurabili nella fattispecie posto che, alla data di stipula dei contratti di copertura, la parte non aver in essere alcuna operazione di acquisto e/o vendita di oro a prezzo già fissato, nè le scadenze, nè i tassi di interesse dei currency options di cui trattasi sono in alcun modo correlati con le scadenze dei contratti di prestito d’uso d’oro.

6. Sono infondati i primi due motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, con assorbimento del terzo.

Giova premettere, in linea di principio, che, come questa Corte ha avuto modo di precisare, l’interpretazione e la qualificazione del contratto sono due operazioni concettualmente distinte, sebbene legate da una connessione biunivoca, in quanto volte all’unico fine che è la determinazione dell’effettivo regolamento negoziale.

La prima (l’interpretazione) precede logicamente la seconda (la qualificazione); è governata da criteri giuridici cogenti; tende alla ricostruzione del significato del contratto in conformità alla comune volontà dei contraenti.

Una volta individuata l’intenzione comune delle parti del contratto, il passaggio successivo è la sussunzione del negozio in un paradigma disciplinatorio, sì da apprezzarne l’aderenza (magari anche solo parziale e/o secondo schemi combinatori) con una fattispecie astratta, tra quelle preventivamente delineate dal legislatore oppure conformate dagli usi e dalle prassi commerciali, sebbene il contratto possa anche non coincidere affatto con il “tipo” e mantenere, come tale, la sua vocazione ad essere “legge tra le parti”, ove sia diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2.

In siffatta prospettiva, la qualificazione del contratto ha la funzione di stabilire quale sia la disciplina in concreto ad esso applicabile, con le relative conseguenze effettuali.

L’attività di interpretazione è diretta alla ricerca e alla individuazione della comune volontà dei contraenti e costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito (normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella formulazione attualmente vigente a applicabile nella specie ratione temporis, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 c.c. e ss.).

L’attività di qualificazione, invece, affidandosi al metodo della sussunzione, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può formare oggetto di verifica in sede di legittimità sia per ciò che attiene alla descrizione del modello tipico cui si riferisce, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto cosi come accertati, sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma normativo (v. Cass. 14/07/2016, n. 14355).

Tale premessa ricostruttiva, qui pienamente condivisa, si rivela particolarmente utile, nella specie, per un corretto approccio al sindacato della sentenza impugnata richiesto in funzione delle censure in esame, in quanto consente di evidenziare che l’aspetto saliente dell’attività ermeneutica svolta dal giudice di merito, sul quale al tempo stesso si concentrano le critiche dell’Agenzia ricorrente, attiene a ben vedere più propriamente alla seconda delle fasi suddette, ossia alla qualificazione del contratto attraverso l’accostamento a quella che i giudici di merito hanno individuato come schema contrattuale tipico maggiormente assimilabile al regolamento che le parti hanno inteso dare ai rispettivi interessi nell’esercizio della loro autonomia contrattuale.

In tale prospettiva non colgono al segno le censure di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale (e segnatamente di quelli della interpretazione letterale sistematica del contratto), nè il dedotto vizio motivazionale, in quanto più propriamente impingenti nella prima delle due fasi predette ma inidonei a palesare evidenti errori nel ragionamento giuridico posto a base dell’attività propriamente qualificatoria svolta dal giudice di merito.

Quanto alle prime (violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale), invero appare dirimente il rilievo per cui i dati testuali rappresentati, nel complesso considerati, non appaiono tali da poter contrastare in modo univoco e insuperabile la qualificazione operata dal giudice del merito e, segnatamente, l’operato accostamento del contratto atipico di prestito d’uso d’oro a quello di mutuo:

– non la denominazione del contratto come “prestito d’uso”, in quanto non dotata di una valenza semantica tecnica talmente forte e univoca da potersi imporre quale dato incompatibile con il detto accostamento, essendo agevole anzi rilevare che nella accezione comune il termine “prestito” viene al contrario spesso accostato se non addirittura sovrapposto a quello di “mutuo”;

– non la previsione della alternativa che si offre al contraente alla scadenza prestabilita, tra la restituzione del tantundem e il pagamento dell’equivalente in danaro (avvalendosi della c.d. “opzione d’acquisto” dell’oro), descrivendo essa l’obbligazione che grava sulla parte che contrae il prestito come assistita da una mera facoltà alternativa (quella cioè di essere adempiuta, invece che con la restituzione del tantundem, prestazione principale, attraverso il pagamento dell’equivalente in danaro, prestazione alternativa facoltativa: cfr. Cass. n. 11899 del 1995; n. 3901 del 1987; n. 5030 del 1977), rimanendo pertanto pienamente plausibile, anche sotto tale profilo l’accostamento, tanto più sul piano economico, all’obbligazione che grava sul mutuatario di “una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili” della restituzione di “altrettante cose della stessa specie e qualità” (art. 1816 c.c.), tanto più se si considera che, anche nel mutuo, ai sensi dell’art. 1818 c.c., ove siano mutuate cose diverse dal denaro e la restituzione sia divenuta impossibile o notevolmente difficile per causa non imputabile al debitore, questi è tenuto a pagarne il valore (con la sola differenza dunque che nel caso in esame la scelta di pagare l’equivalente può discendere anche dalla sola semplice manifestazione di volontà in questo senso del debitore);

– nè ancora la pattuizione di interessi sui prestiti, questi valendo piuttosto a dimostrare l’onerosità del contratto, riscontrabile anche nel contratto di mutuo (mutuo oneroso).

L’unica pattuizione in effetti non riconducibile al contratto di mutuo rimane quella che, secondo quanto pacifico in causa, è contenuta in uno dei contratti cui è riferita l’azione accertatrice (quello stipulato con la Banca Toscana in data 29/11/1996), secondo la quale “il trasferimento della proprietà dell’oro greggio avviene al momento dell’esercizio dell’opzione”. Al riguardo però – in disparte il rilievo che tale pattuizione, secondo espresso accertamento contenuto in sentenza non fatto segno di specifica e conferente censura, è presente solo in uno dei diversi contratti intervenuti con la stessa banca e non negli altri – si deve osservare che tale antinomia risulta espressamente valutata in sentenza e risolta attraverso un giudizio di subvalenza di tale previsione rispetto alle altre presenti nel contratto (sopra ricordate, v. par. 1.2. della parte narrativa della presente sentenza), donde la conclusione che si tratta di clausola “insuscettibile di alterare la natura di tutti i contratti conclusi dalla società nei vari anni e con tutti gli istituti bancari” e, pertanto, da considerarsi “utilizzata in senso atecnico e inesatto, quantomeno ai fini fiscali, non potendo condurre a conseguenze diverse da quelle previste dal precitato art. 109 t.u.i.r. e comunque incompatibile con le altre clausole contenute nel contratto”.

Tale giudizio deve considerarsi legittimo esercizio del potere/dovere di qualificazione del contratto da parte del giudice del merito e si sottrae, anch’esso, alle censure in esame, dovendosi escludere che, almeno ai fini della qualificazione del contratto, quella previsione si imponga – doverosamente considerata nel contesto delle altre pattuizioni – nel senso di escludere l’accostamento al contratto di mutuo, quanto meno agli effetti fiscali che nella specie vengono in considerazione.

Da un lato, varrà rammentare al riguardo che, come già avvertito in premessa, la presenza di elementi estranei a quelli che caratterizzano lo schema tipico non esclude la plausibilità della qualificazione operata dal giudice del merito attraverso la valorizzazione degli altri aspetti ritenuti preminenti nella regolamentazione contrattuale ai fini dell’accostamento allo schema negoziale tipico e della conseguente applicazione della disciplina per esso prevista, almeno ai fini che vengono in considerazione.

Dall’altro, non può non rilevarsi che, ai fini qui in esame, ossia per quanto riguarda la individuazione dell’esercizio di competenza cui riferire la deducibilità dei costi, detto accostamento al contratto di mutuo trova ragione di convalida sia nella funzione propria dei contratti in questione che, come riconosciuto anche dall’amministrazione, è essenzialmente quella di finanziamento; sia perchè la collocazione, che essa consente, dei costi nel medesimo esercizio d’imposta in cui si realizzano i ricavi conseguenti alla trasformazione dell’oro (di cui, attraverso il predetto contratto, si acquisisce la piena disponibilità materiale e giuridica) e alla vendita successiva dei prodotti che ne sono ricavati, si pone maggiormente in sintonia con il principio di c.d. correlazione costi-ricavi pacificamente riconosciuta a base dell’imputazione dei costi secondo il criterio di competenza (art. 109 t.u.i.r.)(v. in tema Cass. 17/07/2014, n. 16349, secondo cui: “il principio di competenza fissato all’art. 75 (ora 109) t.u.i.r. comporta che rileva il momento di maturazione dei fatti gestionali e non quello dell’incasso o del pagamento, sicchè i ricavi provenienti dalla cessione dei beni mobili si considerano di competenza dell’esercizio in cui è avvenuta la consegna o la spedizione, mentre i costi sostenuti sono di competenza dell’esercizio in cui si producono i ricavi; diversamente operando, cioè attribuendo evidenza contabile all’incasso o al pagamento, viene disattesa la detta disposizione, perchè si assume il diverso criterio di “cassa””, con la conseguenza che “quando si verifichi il singolare sfasamento temporale delle componenti reddituali, non potendosi parlare di produzione del reddito qualora manchino i ricavi, dalla diretta applicazione del principio della correlazione conseguirà che sono i costi a seguire i ricavi… “).

7. E’ poi inammissibile il quarto motivo, postulando esso una situazione di acclarata incertezza e indeterminatezza del costo in realtà non emergente dalla sentenza, ma anzi contrastante con quanto in essa rilevato, circa la congruità dei costi dichiarati dalla contribuente in quanto prudenzialmente commisurati al valore di Euro 15,94 al grammo inferiore alle quotazioni del fixing di Londra: giudizio di congruità evidentemente implicante anche quello di determinabilità dei costi medesimi ai fini della loro imputazione all’esercizio.

8. Analoghe considerazioni, infine, devono condurre a ritenere inammissibile anche il quinto motivo di ricorso, non essendo ravvisabile l’applicazione da parte del giudice a quo di una regula iuris difforme da quella ricavabile dalle norme invocate.

La sentenza impugnata muove infatti, al riguardo, dall’accertamento dell’esistenza di una correlazione tra i contratti derivati fuori bilancio e i cosiddetti prestiti d’uso d’oro. La censura intende evidentemente contestare tale premessa, che costituisce però accertamento di fatto e come tale non è sindacabile sul piano della corretta applicazione del diritto, ma semmai attraverso censura -nella specie non proposta – di vizio motivazionale, peraltro entro i ristretti limiti previsti del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

9. In ragione delle considerazioni che precedono deve pertanto pervenirsi al rigetto del ricorso.

Avuto riguardo tuttavia alla peculiarità della fattispecie esaminata, si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti.

PQM

 

rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2017

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