Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23169 del 04/10/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 04/10/2017, (ud. 17/07/2017, dep.04/10/2017),  n. 23169

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26273/2010 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

F.E. S.p.A., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Marco

Miccinesi e dal Prof. Avv. Francesco Pistolesi, con domicilio eletto

in Roma, via Cola di Rienzo, n. 180, presso lo studio dell’Avv.

Paolo Fiorilli;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, n. 118/13/09, depositata il 22 settembre 2009;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 17 luglio

2017 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. In controversia relativa al recupero a tassazione, a fini Irpeg e Irap dei costi sostenuti dalla società F.E. S.p.A. nell’anno 2003 – con riguardo ai rapporti commerciali intrattenuti con soggetti residenti in Paesi della c.d. black list – in quanto non separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi, con l’irrogazione delle relative sanzioni, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con la sentenza in epigrafe, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della contribuente, limitando la sanzione ad Euro 2.065, sul rilievo che l’art. 110 T.U.I.R., come modificato dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, non prevedeva più la non deducibilità dei costi in caso di mancata separata indicazione nella dichiarazione dei redditi, ma soltanto l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria pari al 10% dell’importo complessivo delle spese non indicate (con un minimo di Euro 500 ed un massimo di Euro 50.000), rimanendo ferma la sanzione compresa tra Euro 258 e Euro 2.065 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, ex art. 8, comma 1, per le omissioni avvenute in epoca anteriore.

La C.T.R. ha sul punto rilevato che, ai sensi del novellato art. 110 T.U.I.R., si continuano ad applicare le sanzioni previste nel testo previgente per le violazioni effettuate prima della riforma, mentre il cumulo delle sanzioni (ipotizzato dall’amministrazione appellante) “non risponde ad un criterio di razionalità e, soprattutto, contrasta con il principio di legalità affermato dal D.Lgs. 472 del 1997, art. 3, comma 2”.

2. Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’Agenzia delle Entrate, con unico mezzo.

Resiste l’intimata depositando controricorso.

La stessa ha altresì depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, comma 3-bis; L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 303; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12, comma 1; in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto inapplicabile alla fattispecie in esame la sanzione prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, comma 3-bis (introdotto dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 302), per l’omessa separata annotazione dei costi.

La censura è fondata.

La L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 301, ha come noto degradato l’omessa separata indicazione in dichiarazione dei costi c.d. black list da motivo ostativo di per sè alla deducibilità dei costi medesimi a violazione formale passibile esclusivamente di sanzione amministrativa, attraverso l’introduzione (disposta dall’art. 1, comma 302) nel D.Lgs. n. 471 del 1997, all’art. 8, dopo il comma 3, di un comma 3-bis, il quale recita: “Quando l’omissione o incompletezza riguarda l’indicazione delle spese e degli altri componenti negativi di cui all’art. 110, comma 11, del Testo Unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si applica una sanzione amministrativa pari al 10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di Euro 500 ed un massimo di Euro 50.000”.

Come già evidenziato da questa Corte, tale innovazione ha carattere retroattivo, e ciò principalmente in virtù della norma transitoria contenuta nel comma 303 della L. n. 296 del 2006, art. 1, a tenore della quale: “la disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presente legge, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11, primo periodo, citato Testo Unico delle imposte sui redditi. Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, comma 1”.

Si è in tal senso argomentato, da un lato, sulla ratio della innovazione legislativa a regime (che è quella di trovare, in materia, un punto di equilibrio meno gravoso per il contribuente e maggiormente aderente ai canoni costituzionali della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria, rispetto a quello precedentemente definito), dall’altro, sull’ultima proposizione della medesima norma transitoria di cui al comma 303 che – in esito all’affermazione dell’efficacia retroattiva della sanzione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3-bis – recita: “Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui al D.Lg. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, comma 1”.

Si è osservato che tale norma prevede indubitabilmente, per le sole violazioni dell’obbligo di separata indicazione riferibili a situazioni di diritto transitorio, il cumulo della sanzione proporzionale del 10% (entro limiti prescritti), disposta dal sopravvenuto comma 3-bis, con la sanzione, definita nel minimo e nel massimo, di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1 e, trovando ragion d’essere solo sul presupposto dell’estensione della retroattività anche all’abolizione del previgente regime d’indeducibilità, la legittima a sua volta, finendo, così, con il costituire clausola di chiusura dell’intera disciplina (v. ex multis Cass. non. 4030/2015 e 6205/2015).

Considerata, infatti, la maggior gravità per il contribuente del previgente regime di radicale indeducibilità e, altresì, della sanzione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, ad esso ricollegabile, la norma non viola il principio di legalità.

Rilievo questo che vale a escludere che tale sanzione possa restare esclusa in ragione della sua mancata indicazione nell’avviso di accertamento, dovendosi al contrario rilevare che l’atto impugnato prevedeva l’irrogazione di sanzioni ben più severe, di guisa che l’applicazione delle sanzioni previste dalla norma sopravvenuta non può considerarsi domanda nuova nè tema esorbitante dai limiti del giudizio, ma rientra pienamente nel potere dovere decisorio dell’adito giudice tributario.

Va invero rammentato che, secondo consolidato principio, il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, con la conseguenza che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formale), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (v. da ult., Cass., Sez. 5, n. 19750 del 19/09/2014, Rv. 632465; Sez. 6-5, n. 26157 del 21/11/2013, Rv. 629043).

2. E appena il caso infine di rilevare che nessun rilievo può avere nel presente giudizio lo ius superveniens rappresentato dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1,comma 142, lett. a), (legge di stabilità 2016), che ha abrogato i commi da 10 a 12-bis dell’art. 110 T.U.I.R., stante l’irretroattività dello stesso discendente, oltre che, in via generale, dall’art. 11 preleggi, dalla specifica e pienamente convergente disciplina transitoria di cui al comma 144 del medesimo art. 1, a mente del quale “le disposizioni di cui ai commi 142 e 143 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015”.

Alla luce di tale espressa previsione nemmeno può soccorrere il richiamo alla norma di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, a mente del quale, “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile”, attesa per l’appunto la previsione di espressa e contraria disciplina transitoria, avente pari forza di legge (v. Cass. 04/04/2016, n. 6651).

Priva di pregio si appalesa al riguardo la tesi sostenuta dalla controricorrente secondo la quale “il legislatore della L. n. 208 del 2015, si è limitato a modificare la disciplina sostanziale e a dettare la decorrenza di applicazione del nuovo regime, senza nulla stabilire in ordine alle misure sanzionatorie”, con la conseguenza che non sarebbe nella specie individuabile alcuna “diversa previsione di legge” ostativa all’applicazione della regola generale del favor rei espressa dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 2.

E’ del tutto evidente, infatti, che effetto diretto della norma transitoria altro non è se non quello per cui le violazioni commesse anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina devono continuare a considerarsi tali a tutti gli effetti e, dunque, anche a quelli sanzionatori, restando per esse dunque applicabile il regime quale ricostruito alla stregua delle considerazioni che precedono.

3. La sentenza impugnata non si è evidentemente conformata a tale ricostruzione del quadro normativo e va pertanto cassata.

Non essendo poi necessari ulteriori accertamenti di fatto e trattandosi di sanzione univocamente determinata nel suo ammontare per legge, in misura proporzionale (10%) all’ammontare dei costi, con un limite minimo di Euro 500 ed uno massimo di Euro 50.000, nel caso di specie non superati, la causa va decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., nei termini di cui in dispositivo.

3. In considerazione della complessità delle questioni trattate e delle oscillazioni giurisprudenziali inizialmente registratesi in materia si reputa equo compensare le spese dell’intero giudizio.

PQM

 

accoglie il ricorso; cassa la sentenza; decidendo nel merito, dichiara dovuta anche la sanzione proporzionale. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2017

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