Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23157 del 14/11/2016

Cassazione civile sez. lav., 14/11/2016, (ud. 14/09/2016, dep. 14/11/2016), n.23157

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28780-2011 proposto da:

M.P., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

CORSO TRIESTE 85, presso lo studio dell’avvocato BREZZA DI ROCCO,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI PREVITI, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

AVIVA ITALIA S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ROMBO ROMBI 27, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO ROMAGNOLI,

che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1598/2010 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 18/01/2011 r.g.n. 24/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/09/1016 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;

udito l’Avvocato PREVITI GIOVANNI;

udito l’Avvocato GIANSANTE FRANCESCA per delega Avvocato ROMAGNOLI

MAURIZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Messina, con la sentenza n. 1598 del 2010, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva rigettato il ricorso proposto da M.P. nei confronti di Commercial Union s.p.a., poi Aviva s.p.a., per ottenere il risarcimento dei danni asseritamente subiti in seguito alla denunzia all’Isvap – Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni private – presentata dalla società, che, dopo le dimissioni rassegnate dall’agente con decorrenza (OMISSIS), avendo scoperto all’esito delle operazioni di riconsegna dell’agenzia un ammanco di Euro 39.500, aveva comunicato il 22 luglio successivo la revoca per giusta causa del mandato a suo tempo conferito.

La Corte territoriale argomentava che la comunicazione della società all’Isvap era legittima, in quanto corrispondente ad un fatto storico reale, nonchè congrua con riguardo alle espressioni usate, e che costituiva un obbligo o quantomeno una facoltà desumibile dal sistema, che impone rigidi controlli nell’esercizio dell’attività assicurativa, la segnalazione all’organo di vigilanza delle vicende relative al rapporto e delle motivazioni della sua cessazione, nè ostava la sentenza resa in altro procedimento, che aveva accertato la prevalenza delle dimissioni rispetto al successivo recesso per giusta causa. Inoltre, assumeva rilievo la circostanza che una sanzione disciplinare fosse stata inflitta dall’Isvap, seppur di lieve entità. Aggiungeva che il ricorrente non aveva fornito nel corso del giudizio alcuna prova in ordine ai lamentati danni all’immagine e alla professionalità, ed in particolare della lamentata perdita di chances lavorative e del decremento patrimoniale riportato a seguito dell’iniziativa in parola.

Per la cassazione della sentenza M.P. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi (erroneamente numerati come cinque), illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui ha resistito con controricorso Aviva Italia s.p.a.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente censura la sentenza per i seguenti motivi:

1.1. Il primo è così epigrafato: “nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’accordo nazionale agenti e relativo vizio di motivazione; violazione e/o falsa applicazione della L. n. 48 del 1979, art. 7 e art. 28, lettera a), commi 1 e 2 e relativo vizio di motivazione; nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione e omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia e relativo vizio di motivazione; nullità della sentenza per carenza, difetto di motivazione e contraddittorietà della stessa e grave travisamento dei fatti; impossibilità di controllo sul procedimento logico giuridico utilizzato dal giudice per la risoluzione di questioni di diritto e di interpretazione”.

Il ricorrente lamenta che il giudice di secondo grado sia pervenuto al rigetto della domanda, senza fornire alcuna decisiva motivazione al fine di disattendere le doglianze espresse dalla difesa.

Richiama le seguenti circostanze che non sarebbero state valutate dal Giudice territoriale e che confermerebbero la sussistenza di una condotta ingiustificata, diffamatoria e pregiudizievole della società:

– la comunicazione all’Isvap non aveva il carattere dell’obbligatorietà nel momento in cui era stata posta in essere, in quanto effettuata oltre il termine di 30 giorni dopo la cessazione del contratto di agenzia, previsti dalla L. n. 48 del 1979, art. 7 per la comunicazione al Ministero dell’industria della risoluzione del rapporto di agenzia.

– la sentenza n. 47 del 2007 emessa dal tribunale di Messina (confermata dalla Corte d’appello di Messina con sentenza n. 675 del 23/7/2009, passata in giudicato il 22/7/2010) aveva affermato la prevalenza delle dimissioni del 3 maggio 2002 rispetto al recesso per giusta causa intimato da Commercial Union il 22 luglio 2002, in quanto quest’ultimo risultava intervenuto su un rapporto che non era più in corso. Risultava pertanto meritevole di censura la comunicazione fatta all’Isvap, con la quale si riferiva l’avvenuta cessazione del rapporto di agenzia conseguente a revoca per mandato per giusta causa, senza tener conto dell’inesistenza del rapporto stesso a seguito delle già intervenute dimensioni dell’agente.

– l’Isvap, con delibera del 4/2/2004, aveva definito i fatti addebitati al M. come lievi trasgressioni ai sensi della L. n. 48 del 1979, art. 187, lett. a), commi 1 e 2 ed aveva comminato la sanzione del richiamo;

– con la comunicazione dell’Isvap, protocollo n. (OMISSIS), si riferiva che alla data del 9 febbraio 2009 risultava ancora la revoca per giusta causa del mandato agenziale nei confronti del M. del (OMISSIS).

1.2. Come secondo motivo, il ricorrente deduce “nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione e omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia e relativo vizio di motivazione; nullità della sentenza per carenza, difetto di motivazione e contraddittorietà della stessa e grave travisamento dei fatti; impossibilità di controllo sul procedimento logico giuridico utilizzato dal giudice per la risoluzione di quesito di diritto e di interpretazione”.

Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che egli non avesse fornito prova in ordine ai lamentati danni all’immagine e alla professionalità, mentre sia nel ricorso di primo grado che nell’ atto di appello si deduceva che egli non aveva potuto ottenere più alcun mandato agenziale da nessuna compagnia, nonostante la levità del provvedimento adottato dall’Isvap come conseguenza del fatto stesso, a causa della comunicazione della società, resa pubblica nell’albo degli agenti e dei mediatori di assicurazione e conosciuta su tutto il territorio italiano. In tali atti si era anche provveduto a quantificare i danni. Essi potevano risultare in re ipsa per il fatto della divulgazione della condotta infamante e diffamatoria attribuita all’agente.

1.3. Come terzo motivo, deduce “nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione e omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia; nullità della sentenza per carenza, difetto di motivazione e contraddittorietà della stessa e grave travisamento dei fatti; impossibilità di controllo sul procedimento logico giuridico utilizzato dal giudice per la risoluzione di questioni di diritto e di interpretazione”.

Lamenta che la Corte d’appello non abbia ritenuto di carattere diffamatorio l’arbitraria e infondata divulgazione operata dalla società appellata della falsa causa di cessazione del rapporto, oltre che l’utilizzo da parte di quest’ultima di espressioni quali “gravissimi illeciti” e “appropriazione indebita” riferite illegittimamente e non abbiano tenuto conto del fatto che nel procedimento instaurato dinanzi all’Isvap, quest’ultimo aveva giudicato i fatti addebitati all’appellante lievissime trasgressioni e del tutto leale chiaro e volenteroso il comportamento del dottor M..

1.4. Come quarto motivo (erroneamente numerato come quinto) lamenta violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione riguardo alla compensazione delle spese.

2. Il primo motivo non è fondato.

Occorre premettere che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (pur nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134 del 2012), non equivale a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa equivarrebbe ad un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità: con la conseguente estraneità all’ambito del vizio di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un’autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. 28 marzo 2012, n. 5024; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694). Sicchè, per la configurazione di un vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle risultanze fondanti il convincimento del giudice, onde la ratio decidendi appaia priva di base, ovvero che si tratti di elemento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata (Cass. n. 22065 del 2014, Cass. n. 18368 del 2013, Cass. n. 16655 del 2011, n. 16655; Cass. (ord.) n. 2805 del 2011).

2.1. Nel caso, il ricorrente propone la propria lettura degli atti e dei documenti che sono già stati esaminati dalla Corte d’Appello: in tal modo, si chiede a questa Corte di riesaminare tutte le risultanze richiamate, cercando in esse i contenuti che potrebbero essere rilevanti nel senso patrocinato, il che risulta inammissibile sulla base della premessa giuridica sopra espressa.

2.2. E difatti, come riferito nello storico di lite, la Corte territoriale ha esaminato le circostanze fattuali valorizzate dal ricorrente, giungendo tuttavia alle conclusioni che questi avversa.

Occorre poi rilevare che le censure così come formulate e le risultanze fattuali richiamate non smentiscono i presupposti del ragionamento della Corte territoriale, considerato che:

– la Corte d’appello ha affermato che un ammanco era stato effettivamente riscontrato, richiamando a pg. 4 della motivazione il verbale di ripresa in consegna del 13.6.2002. Il ricorrente non contesta tale obiettivo accadimento, ma vi contrappone la valutazione che ne ha dato l’Isvap, richiamando a pg. 20 e 21 la Delib. 4 febbraio 2002 che aveva qualificato la sua condotta come lieve trasgressione, sul rilievo, che attiene tuttavia ad un fatto successivo alla denuncia, che nel corso del giudizio civile il M. aveva ribadito l’offerta di detrarre dalle sue indennità il credito della sua ex mandante;

– la Corte d’appello ha valorizzato a pg. 4 della motivazione il fatto che una sanzione, seppure di lieve entità, fosse stata comminata dall’Isvap. La sanzione del richiamo infatti, ai sensi della L. n. 48 del 1979, art. 18 presuppone una trasgressione lieve, ma comunque, come tutte le sanzioni disciplinari, “non conforme all’etica, alla dignità ed al decoro professionale”;

– la Corte territoriale ha affermato che non assumeva rilievo la circostanza relativa all’inefficacia del recesso per giusta causa, accertata con la sentenza che era stata prodotta: tale sentenza in effetti è del 2007, mentre la comunicazione all’Isvap del recesso da parte della società è del 2002, e quindi la lite in ordine alla qualificazione del recesso a quella data non era stata ancora definita.

2.3. In diritto, si osserva che la L. n. 48 del 1979, art. 7 (abrogata dal D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 354, comma 1 Codice delle assicurazioni private) poneva un obbligo dell’impresa preponente di comunicare, nel termine di trenta giorni, le variazioni del rapporto agenziale e la risoluzione del rapporto, al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato e alla camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura competente per territorio. Prevedeva altresì che in ogni caso di scioglimento del contratto di agenzia, l’impresa fosse tenuta a comunicare quale, fra le cause previste dalla legge o dagli accordi collettivi di categoria, lo avesse determinato.

Il ricorrente si duole del mancato rispetto del termine di trenta giorni per la comunicazione, argomentando che dopo la decorrenza dello stesso la comunicazione non sarebbe più obbligatoria. Il rilievo non è fondato, considerato che trattasi di un termine, di carattere ordinatorio, che incide sugli obblighi di informazione di natura pubblicistica, ed il cui decorso non determina alcuna decadenza, nè è di per sè idoneo a determinare un danno per l’agente. La previsione conferma peraltro l’esistenza dell’ obbligo di informativa riferito dalla Corte territoriale, che prescinde dalla motivazione della cessazione del rapporto.

3. Anche il secondo motivo è infondato.

La Corte d’appello ha affermato (pg. 5) che non erano stati dimostrati i lamentati danni all’immagine ed alla professionalità, nè il danno da perdita di chances lavorative.

Tale argomentazione non è utilmente smentita dal ricorrente, che si limita a richiamare le proprie allegazioni, la quantificazione del danno che aveva operato ed il danno in re ipsa, ma non le prove che sul punto sarebbero state fornite.

La sentenza quindi è corretta, considerato che il pregiudizio di cui si chiede il risarcimento, in quanto danno-conseguenza e non danno- evento, dev’ essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l’entità e la difficoltà di assolvere l’onere probatorio. Non potrebbe giungersi a diversa conclusione, del resto, neppure se si identificasse il danno in questione in termini di danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, poichè la fondamentale sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 delle Sezioni Unite di questa Corte, nell’ammettere la risarcibilità della lesione di siffatti diritti e nel tracciarne rigorosamente i confini, ha contestualmente riconosciuto che l’esistenza del relativo danno deve comunque essere provata dal danneggiato (v. da ultimo, sul danno alla reputazione, Cass. n. 24474 del 2014 e, sul danno da illecito trattamento dei dati personali Cass. Sez. 6 – 3, Sentenza n. 18812 del 05/09/2014).

4. Il terzo motivo è parimenti infondato.

La Corte territoriale ha ritenuto legittimo l’operato della società, argomentando che la comunicazione all’organo di vigilanza rientrava negli obblighi o quantomeno nelle facoltà di informazione del preponente, che essa era relativa ad un fatto sostanzialmente veritiero e che le espressioni usate erano del tutto congrue rispetto al fatto riscontrato.

Tale valutazione non viene utilmente censurata in ricorso.

4.1. Occorre rilevare che questa Corte, nell’esaminare la rilevanza a fini disciplinari della denuncia da parte del dipendente all’autorità giudiziaria di fatti attributi ai propri superiori, ha ritenuto che essa non violi i doveri di diligenza, di subordinazione o di fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.), quando non sussista la precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante false accuse, od anche il travalicare, con dolo o con colpa grave, la soglia del rispetto, della verità oggettiva nel riferire all’autorità giudiziaria i fatti, nonchè la condotta del dipendente che con il propalare la notizia all’interno o all’esterno dell’azienda abbia arrecato offesa all’onore ed alla reputazione del datore di lavoro (in tal senso Cass. n. 1749 del 16/02/2000, n. 13738 del 16/10/2000, n. 6501 del 14/03/2013).

A tali principi deve necessariamente attenersi anche il datore di lavoro o committente nel denunciare fatti che attengono alla condotta del dipendente o incaricato, essendo idonei a contemperare l’obbligo o la facoltà di denuncia con i principi di buona fede e correttezza e con la tutela della reputazione e della riservatezza.

4.2. Nel caso, la Corte ha ritenuto che la comunicazione non esorbitasse da tali limiti. E difatti, la stessa è stata inoltrata all’ISVAP, ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico istituito con L. 12 agosto 1982, n. 576 e di supporto all’attività del Ministero dell’Industria, (sostituito nei suoi poteri e funzioni dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS), con il D.L. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135) cui erano demandate le funzioni di vigilanza previste nel codice delle assicurazioni private (art. 4). L’ammanco denunciato era stato effettivamente accertato; non risulta che esso sia stato altrimenti propalato dalla committente; non è risultata la volontà di danneggiare l’agente, considerato che sussisteva l’obbligo di comunicare la cessazione del rapporto e che la prevalenza delle dimissioni rispetto al recesso della committente è stata definitivamente accertata solo successivamente. Infine, in merito alla portata delle frasi ivi utilizzate, occorre ribadire quanto affermato da questa Corte (v. Cass. n. 24474 del 2014, n. 80 del 10/01/2012; n. 20138 del 18/10/2005, con riferimento alla diffamazione a mezzo stampa) che la valutazione del contenuto degli scritti denunciati come offensivi e diffamatori e l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione.

5. Il quarto motivo risulta inammissibile per difetto di interesse dell’agente, considerato che dalla compensazione delle spese processuali non è derivato alcun danno per il ricorrente, che in applicazione del criterio della soccombenza avrebbe dovuto ex art. 91 c.p.c. sopportarle per intero.

6. Segue il rigetto del ricorso e la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 100,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2016

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