Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23141 del 22/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/10/2020, (ud. 09/10/2019, dep. 22/10/2020), n.23141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11984/2015 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VEIO 52/B,

presso lo studio dell’avvocato VALERIA PALOMBO, rappresentato e

difeso dall’avvocato RITA LIMBANIA VALLEBELLA;

– ricorrente –

contro

MEDICAL S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

SERGIO PALMAS;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 264/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI

SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 03/11/2014 r.g.n.

60/2014.

 

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Cagliari, Sezione di Sassari, con sentenza depositata il 3.11.2014, ha accolto parzialmente il gravame interposto da P.A., nei confronti della Medical S.p.A., avverso la pronunzia del Tribunale di Sassari n. 79/2014, con cui, in parziale accoglimento della domanda del P., era stata riconosciuta, in favore di quest’ultimo, tra le indennità richieste, la sola indennità “suppletiva di clientela”, stabilita nella somma complessiva di Euro 16.442,47;

che la Corte di merito, in parziale riforma della sentenza gravata, ferma nel resto, ha riconosciuto altresì al P. l’indennità per il patto di non concorrenza, condannando la società al pagamento, in favore dell’agente, della somma ulteriore di Euro 15.000,00 a tale titolo;

che per la cassazione della sentenza P.A. ha proposto ricorso, sulla base di due motivi;

che la Medical S.p.A. ha resistito con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione dei principi dettati dall’art. 112 c.p.c. e dall’art. 420 c.p.c., nella parte in cui il Giudice di appello esclude che vi sia stata rinuncia sulla domanda delle provvigioni maturande” e si precisa che “Si censura specificamente la motivazione resa dal Giudice di appello alla pagina 8, secondo la quale “Con riguardo al primo motivo, va preliminarmente osservato che agli atti del primo grado non risulta alcuna rinuncia alla domanda delle provvigioni assertivamente maturate in data successiva alla cessazione del rapporto. Ed infatti nessuna formale rinuncia risulta espressa a verbale all’udienza del 13/12/2013, dovendosi poi ritenere che tale rinuncia avrebbe dovuto rivestire caratteristiche di chiarezza che certamente non si rinvengono nelle affermazioni del procuratore che il ricorrente è stato integralmente soddisfatto per quanto riguarda le provvigioni maturate, residuando un credito rispetto a quelle maturande. La mancata formalizzazione dell’indicata rinuncia emerge poi dall’assenza di ogni relativa determinazione da parte del procuratore della controparte che, infatti, non è stato posto nella condizione di intendere il proposito del procuratore del P….””; si deduce, altresì, che “il detto capo della sentenza” sarebbe “viziato da errore di diritto con riguardo alle disposizioni di cui agli artt. 112 e 420 c.p.c.”, poichè le argomentazioni svolte dalla Corte di merito sarebbero contrarie alle risultanze istruttorie documentali “dalle quali risultava che il ricorrente aveva manifestato, seppure implicitamente, la volontà di rinunciare alla domanda sulle provvigioni maturande, esercitando la facoltà di modificare ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (e dell’art. 420 c.p.c., per le controversie soggette al rito del lavoro) le domande e le conclusioni precedentemente formulate…”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1742 c.c., art. 1748 c.c., commi 1 e 3 e del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 59, comma 2, ed in particolare, si lamenta che i giudici di seconda istanza sarebbero incorsi “in un ragionamento viziato sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale delle argomentazioni svolte”, perchè “hanno posto a fondamento dell’insorgenza del diritto alle provvigioni il tenore della clausola n. 14 del contratto di agenzia del 2005 che così recita: “su tutte le vendite del prodotto concluse nel corso del contratto con unità sanitarie locali, ospedali, casa di cura ed università sita nel territorio spetta all’agente la provvigione indicata nell’allegato A al presente”, giungendo così ad escludere la debenza delle provvigioni per il periodo successivo alla cessazione del contratto”; si asserisce, inoltre, che “siffatta interpretazione” sarebbe “illogica e frutto di una non corretta correlazione di tale clausola contrattuale ai principi giuridici che regolano l’attività dell’agente (art. 1742 c.c.) e che determinano il sorgere del suo diritto alle provvigioni (art. 1748 c.c., commi 1 e 3)”;

che il primo motivo è inammissibile per diversi e concorrenti profili; ed, innanzitutto, perchè teso, nella sostanza, ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede; inoltre, non appare conferente la doglianza relativa alla violazione dell’art. 112 c.p.c. – che, peraltro, attenendo ad una ipotesi di error in procedendo avrebbe dovuto essere censurata in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4 – relativa all’interpretazione della domanda, per la quale deve prospettarsi, in concreto, l’omesso esame di una domanda o la pronunzia su una domanda non proposta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 13482/2014; 9108/2012; 7932/2012; 20373/2008); ipotesi, queste, che il P. non ha provato, in quanto non ha prodotto (nè trascritto, nè indicato tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso) “le risultanze istruttorie documentali dalle quali risultava che il ricorrente aveva manifestato, seppure implicitamente, la volontà di rinunciare alla domanda sulle provvigioni maturande, esercitando la facoltà di modificare ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (e 420 per le controversie soggette al rito del lavoro) le domande e le conclusioni precedentemente formulate” (v. pag. 6 del ricorso); nè gli Accordi AEC Commercio (v. pag. 7 del ricorso); nè il verbale di udienza del 24.9.2013 dinanzi al Tribunale, in cui si assume che “ancora una volta, l’oggetto della consulenza ricadeva esclusivamente sulle indennità e non sulle provvigioni maturande” (v. pagg. 7 e 8 del ricorso); e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., ex plurimis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso di legittimità deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., ex multis, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); pertanto, questa Corte non ha potuto apprezzare la veridicità delle doglianze, al riguardo, mosse dal P. alla sentenza oggetto del presente giudizio;

che, infine, la valutazione delle prove, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte (cfr., ex multis, Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014; 6023/2009), è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità del relativo apprezzamento (nella fattispecie, peraltro, congrua, condivisibile e scevra da vizi logici);

che, nel caso di specie, invero, la contestazione sulla pretesa errata valutazione delle emersioni probatorie non specifica i punti ritenuti fondamentali al fine di consentire il vaglio di decisività, che avrebbe eventualmente dovuto condurre i giudici ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa valutazione ai documenti relativamente ai quali si denunzia il vizio; la stessa si risolve, dunque, in una inammissibile richiesta di riesame di elementi di fatto e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione sarebbe mancata o sarebbe stata illogica (cfr. Cass. nn. 24958/2016; 4056/2009), finalizzata ad ottenere una nuova pronunzia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014);

che anche il secondo motivo è inammissibile, innanzitutto, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto il P. non ha prodotto, nè trascritto, nè indicato tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso, “l’Allegato A” cui si fa riferimento nel contratto di agenzia del 2005 – e di cui il medesimo denunzia la violazione -, nè la comparsa di costituzione di nuovo difensore “nella quale aveva precisato le modalità della sua attività di agente e l’oggetto del proprio incarico” (v. pag. 12 del ricorso), su cui fonda la dedotta falsa applicazione dell’art. 1742 c.c.; pertanto, anche per tale parte del motivo, valgano le considerazioni svolte relativamente al primo motivo;

che, infine, in ordine alla doglianza relativa al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 59, in spregio alla prescrizione di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il P. non ha fornito precise argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie (neppure specificate) o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); ed invero, nel caso in esame, manca la focalizzazione del momento di conflitto, rispetto alle censure sollevate, dell’accertamento operato dalla Corte territoriale all’esito delle emersioni probatorie (cfr., tra le altre, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011) e, pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile;

che le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2020

 

 

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