Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23132 del 19/08/2021

Cassazione civile sez. II, 19/08/2021, (ud. 20/04/2021, dep. 19/08/2021), n.23132

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12803-2016 proposto da:

P.D., rappresentato e difeso in proprio e domiciliato

presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

D.A. e B.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 381/2016 del TRIBUNALE di MONZA, depositata il

17/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/04/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 10/2015 il Giudice di Pace di Monza rigettava la domanda proposta dall’avv. P.D. nei confronti di D.A. e B.P., diretta ad ottenere la condanna di questi ultimi al pagamento, in favore dell’attore, dei compensi asseritamente dovuti allo stesso per l’assistenza da quegli prestata, in favore dei convenuti, in un giudizio civile svoltosi dinanzi il Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio.

Interponeva appello avverso detta decisione il P. ed il Tribunale di Monza, con la sentenza oggi impugnata, n. 381/2016, pronunciata nella resistenza degli appellati, accoglieva parzialmente il gravame, condannando il D. e la B., in solido, al pagamento del residuo importo dovuto all’appellante, pari ad Euro 196,00 oltre accessori, confermando nel resto la decisione impugnata e compensando le spese del secondo grado di giudizio.

Propone ricorso per la cassazione di detta pronuncia P.D., affidandosi a nove motivi.

D.A. e B.P., intimati, non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 156 c.p.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, perché il Tribunale, dopo aver riconosciuto la nullità della sentenza di primo grado, ha deciso la causa nel merito, confermando tuttavia, nel dispositivo, la prima decisione e compensando le spese del grado di appello.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 156 c.p.c. e ss. e art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe erroneamente confermato le statuizioni con una sentenza nulla, anche relativamente al governo delle spese operato dal giudice di prima istanza.

Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono fondate.

Il Tribunale ha ritenuto fondato “… il motivo con cui è stata dedotta la nullità della sentenza di primo grado in quanto emessa allorquando l’Avv. P.D., costituitosi in proprio, era pacificamente privo dello jus postulandi per essere stato cautelativamente sospeso dall’esercizio della professione forense dal competente Consiglio dell’Ordine. In tal caso, l’art. 301 c.p.c. prevede l’interruzione del giudizio che, contrariamente all’ipotesi in cui l’evento interruttivo colpisca la parte, è automatica perché opera istantaneamente al verificarsi dell’evento, a prescindere da qualsivoglia dichiarazione in tal senso resa all’interno del procedimento e persino dalla relativa pronuncia giudiziale che, sul punto, ha mera efficacia dichiarativa in quanto si limita a prendere atto del verificarsi della causa interruttiva” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). Il giudice di secondo grado ha poi esaminato la domanda nel merito, non configurandosi una delle ipotesi, tassativamente previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., nelle quali è prevista la remissione della causa al giudice di primo grado, e -considerato l’esito complessivo del giudizio nel quale il P. aveva prestato la sua opera a favore dei due appellati- ha ritenuto opportuno contenere le competenze dovute al professionista nel solo importo di Euro 896 oltre accessori. Considerando che il P.i aveva percepito un acconto per Euro 700, ha quindi condannato i due appellati al versamento del saldo, pari ad Euro 196 oltre accessori.

Tuttavia il Tribunale, nella parte conclusiva della motivazione della decisione impugnata, ha altresì affermato che “A ciò consegue che, nonostante la necessità di riformare la sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto il residuo importo a credito ancora spettante al difensore, va mantenuta la condanna dell’attore alla refusione in favore dei convenuti delle spese di lite sostenute in primo grado con integrale compensazione delle spese di lite rispettivamente sostenute nel presente grado di giudizio” (cfr. pag. 6), pronunciando poi, nel dispositivo, la conferma della sentenza di prime cure, quanto alle statuizioni non riformate dal parziale accoglimento del gravame proposto dal P..

Il raffronto tra i diversi passaggi della motivazione, e tra questi ed il dispositivo, evidenzia un insuperabile contrasto logico. In presenza della dichiarazione di nullità della decisione di prime cure, il giudice di appello è tenuto ad esaminare nel merito la domanda, comportandosi, di fatto, come giudice di unico grado; da ciò consegue l’impossibilità di recuperare alcuna statuizione della pronuncia ritenuta nulla, ivi inclusa quella sulle spese del primo grado. Nel caso di specie, il Tribunale di Monza, dopo aver esaminato la pretesa creditoria del P., esposto i motivi per cui essa meritasse di essere parzialmente accolta, quantificato le competenze dovute al professionista nel complessivo importo di Euro 196, al netto dell’acconto percepito, avrebbe dovuto procedere ad una nuova liquidazione delle spese, tanto di primo, che di secondo grado, senza poter rinviare a quella operata dal Giudice di Pace nella decisione affetta dalla ravvisata nullità, non potendosi logicamente ipotizzare la conferma, ancorché parziale, di una pronuncia dichiarata nulla. Le censure proposte dal P. con i primi due motivi sono, dunque, fondate sotto questo limitato profilo: il Tribunale di Monza, pertanto, dovrà procedere ad una nuova statuizione sulle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, nonché del presente giudizio di legittimità e di quello di rinvio, considerando ovviamente il complessivo esito della lite ed apprezzando, nel modo che riterrà opportuno, la condotta processuale delle parti, anche con riferimento al rifiuto, opposto dal P. nel corso del giudizio di merito, di una offerta conciliativa proveniente dagli odierni intimati, che prevedeva il pagamento, in favore del professionista di un importo addirittura superiore a quello che gli è stato riconosciuto all’esito dell’esame del merito.

La decisione sui primi due motivi di ricorso implica l’assorbimento del terzo, con il quale il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe erroneamente compensato le spese del grado di appello, a fronte di un pur parziale accoglimento dello stesso.

Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 – 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe erroneamente considerato, per determinare l’entità del compenso richiesto dal difensore, delle decisioni con le quali Tribunale e Corte di Appello avevano respinto la domanda di responsabilità professionale proposta dai due odierni intimati contro il P.. Tali pronunce, ad avviso del ricorrente, non avevano nulla a che fare con la pretesa creditoria avanzata dal professionista, relativa a diversi, e precedenti, giudizi, nei quali lo stesso aveva assistito i clienti.

La censura è infondata.

Il Tribunale non ha fatto riferimento all’esito del giudizio di responsabilità professionale proposto dal D. e dalla B. contro il P. per parametrare il valore della prestazione resa dal secondo; l’entità del compenso è stata infatti correttamente determinata dal giudice di merito avuto riguardo al valore della causa alla quale si riferiva la pretesa creditoria dell’avvocato. Il richiamo, contenuto nella motivazione della sentenza impugnata, all’esito della causa di responsabilità professionale è giustificato dal fatto che quest’ultimo è stato “… tenuto in considerazione solo al fine di valutare l’entità del compenso richiesto dal difensore sotto profilo dei vantaggi conseguiti dai clienti e della diligenza manifestata da quest’ultimo nell’espletamento dell’incarico”(cfr. pag. 4). Sotto questo profilo, la decisione del giudice brianzolo è corretta, poiché, nel liquidare il compenso dovuto all’avvocato che abbia assistito una parte in un giudizio civile, il giudice di merito è tenuto a considerare non soltanto il valore del giudizio in cui la prestazione è stata resa – in base al quale va individuato lo scaglione della tariffa applicabile e, quindi, l’importo base da considerare per eventuali aumenti o diminuzioni -, ma anche l’utilità dell’attività svolta e la diligenza con la quale il professionista ha espletato il proprio mandato, al fine di determinare -all’esito di un giudizio che, evidentemente, si colloca sul terreno del fatto – la somma effettivamente dovuta.

Da ciò consegue che il richiamo, operato dal giudice monzese, all’esito del giudizio di responsabilità professionale intentato dagli odierni intimati contro il P., era pienamente giustificato, alla luce del dovere del giudice di merito di determinare la somma dovuta al professionista tenendo conto del valore, del pregio, dell’utilità dell’opera e della diligenza con cui lo stesso aveva espletato il proprio incarico.

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta la violazione del D.M. n. 127 del 2004 e degli artt. 7 e 3s. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che il valore della causa nella quale il P. aveva fornito la propria attività professionale fosse compreso nello scaglione da Euro 1.600,01 ed Euro 2.600,00, senza considerare che, all’atto della proposizione del giudizio, lo stesso era stato dichiarato come di valore indeterminabile.

La censura è inammissibile per carenza di specificità.

Il ricorrente non indica quali sarebbero i valori della tariffa che egli assume esser stati violati, e dunque non consente al collegio di apprezzare il pregiudizio concreto che, dalla lamentata applicazione di uno scaglione non corretto, sarebbe derivato a suo carico. Sul punto, il collegio ritiene di dare continuità al principio per cui è onere della parte che lamenti l’erronea liquidazione delle spese giudiziali dimostrare “… che l’attività esposta sia stata effettivamente resa, nonché quali singole voci non siano state incluse nella somma liquidata a compensazione, o siano state liquidate in violazione dei limiti tariffari, potendo il giudice, solo in forza di tale attività, verificare con puntualità e precisione la corrispondenza o meno delle richieste alle risultanze di causa…” (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 7654 del 27/03/2013, Rv. 625598).

Ne deriva che, quando intenda contestare l’applicazione di un determinato scaglione, il professionista “… deve, a pena d’inammissibilità, indicare il valore della controversia rilevante ai fini dello scaglione applicabile, trattandosi di presupposto indispensabile per consentire l’apprezzamento della decisività della censura” (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 2532 del 10/02/2015, Rv. 634324); mentre, quando impugni la liquidazione del compenso per pretesa violazione dei minimi tariffari, “… ha l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore…” (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 30716 del 21/12/2017, Rv. 647175). In difetto di tali specifiche indicazioni, il ricorso è inammissibile.

Con il sesto motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1218 c.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe erroneamente sottovalutato il pregio dell’opera professionale prestata dal P.. Quest’ultimo, prima di ricevere la revoca del mandato, aveva ricevuto dalla parte avversa una proposta conciliativa, il che confermerebbe -secondo il ricorrente- il valore della sua attività; il successivo esito infausto della lite sarebbe, invece, dipeso dall’operato di antro professionista. Il pregio dell’opera svolta dal P. sarebbe anche confermato dal fatto che l’azione di responsabilità professionale proposta contro di lui dagli odierni intimati è stata rigettata.

La censura è inammissibile.

Il Tribunale ha apprezzato l’esito, complessivamente sfavorevole, del giudizio nel quale il P. aveva prestato la sua opera, all’esito di un apprezzamento di fatto non utilmente censurabile, in quanto tale, in sede di legittimità. Va, sul punto, ribadito che il motivo di ricorso non può risolversi in una istanza di revisione della valutazione condotta dal giudice di merito, al fine di ottenere una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790), né nella mera proposta di una diversa lettura delle prove acquisite agli atti, che, egualmente, non supera il limite di ammissibilità (Cass. Sez.3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2015, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).

Peraltro, va osservato che la circostanza che una delle parti abbia formulato, prima dell’inizio della lite o nel corso di essa, una proposta conciliativa all’altra parte, non vale in alcun modo a dimostrare la fondatezza della domanda, ben potendo una parte proporre un accordo per evitare o risolvere una lite, a prescindere da qualsiasi considerazione sul presumibile esito della stessa. Tantomeno tale circostanza può dimostrare il pregio dell’attività del professionista, che va apprezzato non già considerando la condotta della parte opposta, ma valutando piuttosto quella del professionista, al fine di apprezzare, da un lato, la diligenza con le quali egli ha espletato il suo mandato professionale, e, dall’altro lato, il grado di difficoltà delle questioni affrontate, la cura con cui queste ultime sono state affrontate, e, più in generale, l’esito complessivo che il cliente ha conseguito per effetto dell’attività professionale dell’avvocato.

Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1193 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe erroneamente considerato, in acconto sulle competenze liquidate a favore del P., un assegno che i clienti gli avrebbero consegnato molto tempo prima dell’inizio della causa alla quale si riferiva la pretesa creditoria del professionista. Tale assegno, dunque, secondo la tesi del ricorrente non avrebbe in alcun modo potuto essere imputato al giudizio che il P. aveva posto a base della sua domanda di pagamento.

Con l’ottavo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 – 115 c.p.c. e art. 1193 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe omesso di considerare che la citazione introduttiva del giudizio al quale si riferiva la sua pretesa di pagamento era stata notificata nel mese di luglio del 2005, mentre l’assegno imputato in acconto gli era stato consegnato nel giugno del 2004. Ad avviso del ricorrente, mancherebbe la prova del fatto che il mandato professionale gli sarebbe stato conferito all’atto della consegna del titolo di cui anzidetto, e ciò sarebbe indirettamente dimostrato dal fatto che gli odierni intimati, dopo aver inizialmente richiesto, nel giudizio di merito, l’ammissione di una prova testimoniale sul punto, avevano poi abbandonato detta istanza, quando il Giudice di Pace aveva ordinato al P. l’esibizione della fattura relativa all’assegno di cui sopra.

Con il nono ed ultimo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 210 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perché il Tribunale avrebbe dovuto considerare irrituale l’ordine di esibizione della fattura emessa dall’avvocato a fronte della consegna dell’assegno di cui ai precedenti motivi. Secondo il ricorrente, in assenza della prova della risalenza dell’incarico professionale alla data di consegna del titolo di cui sopra, non vi sarebbe alcun indice che consenta di imputare lo stesso alla pretesa creditoria di cui si discute.

Le ultime tre censure, suscettibili di essere trattate congiuntamente, sono inammissibili.

Il Tribunale ha ritenuto che per il giudizio al quale il P. aveva imputato il pagamento di cui all’assegno contestato, lo stesso avesse già ricevuto aliunde il pagamento delle sue prestazioni, affermando, in particolare, che “… con riferimento al primo giudizio aveva già pacificamente ricevuto dai propri assistiti la considerevole somma di Euro 2.500,00, di cui Euro 700,00 in data 8.11.2002 e 1.800,00 in data 27.1.2003, da ritenersi integralmente satisfattiva dei compensi dovutigli (e, quindi, non potendo giustificare ulteriori imputazioni di pagamento), tanto più che non ha neppure prodotto l’ultima pagina della sentenza, relativa alla liquidazione delle spese di lite di quel giudizio, che avrebbe consentito al Tribunale di conoscere la quantificazione delle stesse effettuata dal Giudice di Pace” (cfr. pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata). Il richiamato passaggio della motivazione, non attinto dalla censura in esame, si collega logicamente con quello precedente, in cui il giudice brianzolo ha evidenziato la decisività della mancata ottemperanza, da parte del P., all’ordine di esibizione della fattura emessa a fronte del titolo imputato in acconto sui suoi compensi, poiché detto documento era il solo “… che, a ben vedere, avrebbe potuto inequivocabilmente chiarire se l’imputazione effettuata dal creditore avesse avuto ad oggetto l’uno o l’altro dei giudizi sopra richiamati, il primo ormai in fase di definizione e l’altro già in quella sede più che prospettabile e, quindi, presumibilmente già concordato tra le parti stante la non contestata tardività dei vizi allegati dal difensore nel giudizio n. 2962/2002 R.G. e la necessità di instaurare a tal fine un apposito autonomo giudizio risarcitorio…” (cfr. pag. 5).

Il Tribunale, non ha, dunque, imputato l’assegno di Euro 700 in acconto sulla pretesa creditoria del P. in base al confronto tra la data di consegna del titolo e quella di conferimento del mandato, ma sulla scorta della ben diversa considerazione che l’avvocato, richiesto di esibire la fattura necessariamente emessa a fronte dell’assegno stesso, non la aveva prodotta, e che la pretesa imputazione del titolo ad un giudizio in fase di definizione, per il quale egli era stato già retribuito in altro modo, non era verosimile. Anche in questo caso, trattasi di apprezzamento di fatto, del quale non è consentito il riesame in questa sede.

In definitiva, vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, i primi due motivi di ricorso; va dichiarato assorbito il terzo; va rigettato il quarto; e vanno dichiarati, infine, inammissibili il quinto, sesto, settimo, ottavo e nono motivo. La causa va di conseguenza rinviata, nei limiti delle censure accolte, al Tribunale di Monza, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

la Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, dichiara assorbito il terzo, rigetta il quarto e dichiara inammissibili il quinto, sesto, settimo, ottavo e nono motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa al Tribunale di Monza, in differente composizione, anche per spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2021

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