Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2313 del 31/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 31/01/2020, (ud. 14/05/2019, dep. 31/01/2020), n.2313

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso 4334-1114 proposto da:

RHONE POULENC RORER LIMITED, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GRAN GIACOMO PORRO N. 9, C/C CGP STUDIO LEGALE E TRIBUTARIO, presso

lo studio dell’avvocato FRANCESCO FALCITELLI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE CAMOSCI, giusta procura

notarile Candida N.K. PURSER in Inghilterra del 3/2/14 n.

1442-13/14;

– ricorrente –

Contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

Nonchè da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente incidentale –

Avverso la sentenza n. 397/2013 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

PESCARA, depositata il 15/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/05/2019 dal Consigliere Dott. VENEGONI ANDREA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TASSONE KATE, che ha concluso per la fondatezza del primo motivo di

ricorso, assorbiti i restanti, in subordine infondati il secondo,

terzo, quarto e quinto motivo;

udito per il controricorrente incidentale l’Avvocato CASELLI che ha

chiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento del

ricorso incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Tra il marzo 2000 ed il giugno 2003 la società Rhone Poulenc Rorer Ltd, residente nel Regno Unito, presentava all’Agenzia delle Entrate – Centro Operativo di Pescara, istanze di rimborso del credito di imposta relativo ai dividendi percepiti da società da essa controllate, con sede in Italia, per Euro 23.397.570,84 oltre interessi.

Dopo che l’Agenzia nel 2002 aveva provveduto ad un parziale rimborso di Euro 5.736.162,45, nel febbraio 2010 la stessa notificava un provvedimento di diniego del rimborso e di restituzione di quanto già rimborsato.

La società impugnava tale provvedimento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Pescara, deducendo violazioni delle norme sulla notifica degli atti ai residenti all’estero, del principio di affidamento e buona fede, della norme della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito e della Direttiva comunitaria “madre-figlia” n. 435 del 1990, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, eccependo la intervenuta decadenza per l’ufficio.

La CTP di Pescara rigettava il ricorso. La società proponeva appello contro la suddetta sentenza, e la Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo rigettava l’impugnazione.

Contro tale sentenza ricorre a questa Corte la società sopra menzionata, sulla base di cinque motivi.

Resiste l’ufficio con controricorso e ricorso incidentale condizionato.

Il ricorso è stato chiamato all’odierna udienza pubblica a seguito di avviso notificato a mezzo PEC con invio telematico perfezionatosi il 5.4.2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso principale la società deduce violazione e falsa applicazione delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 300 del 1999 e successive modifiche ed integrazioni, della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10.

La CTR non ha rilevato la carenza di potestà impositiva del Centro Operativo di Pescara ed il difetto di legittimazione processuale in cui è parte un non residente privo di stabile organizzazione in Italia.

Il motivo è infondato.

Premesso che questa Corte ha affermato che il Centro Operativo di Pescara è pienamente legittimato ad adottare provvedimenti in tema di credito di imposta, quali quelli di revoca e di diniego (Sez. V, n. 12662 del 2012), questo collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale di cui è espressione Sez. V, n. 9442 del 2014, secondo cui “il Centro operativo ha potere di istruttoria, controllo e, eventualmente, di riconoscimento del beneficio inerente al credito d’imposta, ma non ha alcun potere impositivo nè, conseguentemente, alcuna legittimazione nel processo, che spetta, invece, unicamente all’ente impositore, ossia all’Agenzia, ufficio del domicilio fiscale del contribuente (Cass. 20 ottobre 2011, n. 21797 e, da ultimo, in termini, Cass. 18 settembre 2013, n. 21313)”, confermata da Sez. V, n. 560 del 2016.

Occorre, tuttavia, considerare che, nella specie, si verte in tema di restituzione di credito di imposta già riconosciuto a soggetto non residente, e quindi privo di domicilio, per il quale l’istruttoria è stata condotta dallo stesso COP, in quanto le domande di rimborso, per riconoscimento del credito suddetto, da parte di soggetti non residenti vanno presentate al sopra citato Centro. Del resto, essendo la società britannica soggetto non residente in Italia, è priva di domicilio fiscale nazionale ai fini delle attribuzioni territoriali stabilite dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31.

Inoltre, questa Corte (Sez. V, n. 16001 del 2019), ha avuto modo di affermare che l’attività istruttoria ed il recupero delle somme rimborsate non trova la sua disciplina nella Convenzione Italia-Regno Unito contro le doppie imposizioni, che sul punto non è esaustiva, e, se da un lato essa consente il riferimento ai principi generali di ripetizione di indebito, dall’altro sarebbe fuori dal sistema sostenere che, il rimborso, una volta erogato, precluda la successiva attività di restituzione delle somme erroneamente rimborsate. Per tale attività, nei confronti di soggetto non residente, come nella specie, in una controversia in tema di credito di imposta su dividendi percepiti all’estero, può allora riconoscersi la competenza dello stesso ente che ha proceduto all’istruttoria del credito di imposta, che rappresenta pur sempre un’articolazione dell’Agenzia delle Entrate.

Ciò, tanto più, se si considera che, su tema diverso ma non del tutto scollegato, questa Corte ha di recente (Sez. V, n. 23990 del 2016) espresso un orientamento secondo il quale, in realtà, l’attività processuale del Centro Operativo di Pescara è direttamente riferibile all’Agenzia delle Entrate: “questa Corte, prendendo le mosse dalla sentenza n. 3116 resa dalle Sezioni Unite in data 14 febbraio 2006, ha chiarito che, in relazione all’agenzia fiscale, tutti i suoi uffici periferici hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente ed alternativa al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c. e ciò in quanto tali uffici vanno qualificati come organi dell’agenzia che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza (Cass. Sez. 6-5, ordinanza, n. 1113 del 2015), sicchè non ha pregio la questione concernente il difetto di legittimazione processuale dell’allora appellante Centro Operativo di Pescara”.

Tale orientamento, in tema di legittimazione processuale, era già stato espresso in precedenza da Sez. V, n. 21999 del 2013, secondo cui tutto ciò che riguarda l’articolazione organizzativa interna dell’Agenzia fiscale deve ritenersi processualmente irrilevante, essendo sempre e comunque riferibile l’attività difensiva all’Agenzia fiscale.

Senza voler effettuare alcun parallelismo tra legittimazione processuale e potere impositivo, resta però il fatto che tali sentenze sono espressione del concetto secondo cui il Centro Operativo non è altro che un’articolazione dell’Agenzia delle Entrate.

Con il secondo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 43, in relazione alla richiesta di recupero di somme già rimborsate a favore della società, nonchè del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 69, art. 5, che ha recepito nell’ordinamento italiano le disposizioni della Direttiva 2001/44/CE del Consiglio Europeo del 15 giugno 2001.

La CTR ha errato a non rilevare l’intervenuta decadenza dalla possibilità per l’ufficio di recuperare le somme già rimborsate.

Il motivo è infondato.

Questa Corte (Sez. V, n. 14527 del 2019), su identica questione, ha avuto modo di affermare che “il termine previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 (che è richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43) è inapplicabile perchè riguarda la diversa fattispecie della rettifica della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente e decorre, testualmente, dalla data di presentazione della dichiarazione. Invece, nel caso in esame, il provvedimento impugnato non rettifica in alcun modo la dichiarazione presentata dal sostituto di imposta, ma possiede il contenuto di una revoca del precedente rimborso, successivamente risultato indebito a seguito dei controlli sostanziali eseguiti dall’Ufficio”.

Inoltre questa Corte, nella già citata sentenza Sez. V, n. 16001 del 2019, che si riferisce anche alla tempestività dell’atto di recupero di crediti già rimborsati, aveva ugualmente escluso l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, sulla base del fatto che “Nell’ordinamento interno ed in quello convenzionale non vi è alcuna norma che preveda un termine di prescrizione o di decadenza per accertare l’infondatezza di una domanda di rimborso, nè può farsi applicazione analogica del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, che su tale punto rinvia al termine previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, commi 1 e 2. E’, infatti, principio generale che nel diritto tributario tutti i termini devono essere espressamente previsti e, in mancanza, deve farsi applicazione della norma generale contenuta nell’art. 2946 c.c., che prevede il termine di prescrizione decennale. Tantomeno le norme citate possono trovare applicazione in via analogica o di interpretazione al caso in esame, poichè si è in presenza di una istanza di rimborso presentata da soggetto non residente e, dunque, di una fattispecie totalmente diversa da quella da esse disciplinata. Questa interpretazione è suffragata anche dalla Corte di Giustizia Europea che con la sentenza 11.06.2009 in C155/08 e C157/08, anche in materia di accertamento dei redditi prodotti all’estero ha stabilito che “la fissazione di un termine di accertamento più lungo per i termini all’estero rispetto a quelli di provenienza nazionale è conforme al diritto comunitario”, poichè, “l’interesse a preservare l’integrità delle entrate tributarie nazionali e la necessità di contrastare frodi fiscali, prevalgono sia sulla libertà di prestazione di servizi che sulla libera circolazione di merci”. D’altra parte, questa stessa Corte, con pronuncia a Sezioni Unite n. 5069 del 15.03.2016, in una fattispecie simile, ha chiarito che “i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorchè simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione. In sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui “quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum” (art. 1442 c.c.).”

Questo collegio ritiene di aderire a tale orientamento, che vale non solo per il diniego di credito di imposta ma, a maggior ragione, per il recupero di quello indebitamente già rimborsato, considerandolo non in contraddizione con altra giurisprudenza secondo cui il termine per l’esercizio dell’azione è quello di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, sulla base del concetto per cui il “potere di recupero del credito di imposta” è sottoposto ad un termine di decadenza come lo è il “potere di accertamento fiscale”, e che tale termine non può essere diverso, quanto a durata, da quello previsto per il “potere di accertamento” dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, (Sez. V, n. 15186 del 2016, incidentalmente anche Sez. V, n. 18407 del 2018).

In quest’ultimo caso, infatti, si tratta di un atto di recupero di credito di imposta nei confronti di soggetto italiano, che presenta la dichiarazione dei redditi in Italia e che ha un rapporto periodico con il fisco (tanto che il credito era stato utilizzato in compensazione negli anni successivi), per cui l’atto ha il significato non solo di autotutela a rapporto fiscale ancora aperto, ma ha anche una certa natura impositiva. Nel caso di specie, invece, si è in presenza di una domanda di restituzione di somme ormai già rimborsate a soggetto non residente e senza stabile organizzazione.

In tal senso l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, apparirebbe frutto di una inammissibile interpretazione analogica, perchè se è vero che la norma è intitolata genericamente “recupero di somme erroneamente rimborsate”, senza distinzione in merito alle ragioni del rimborso rivelatosi poi erroneo, tuttavia, come rilevato sopra richiamando la sentenza n. 14527 del 2019, la norma si riferisce ai recuperi di rimborsi effettuati a seguito di rettifica della dichiarazione, attraverso l’emissione di cartella di pagamento, ipotesi che non ricorre nella specie, in cui si discute di un ordine di restituzione a soggetto non residente, come ricordato dalla già citata Sez. V, n. 16001 del 2019.

Peraltro si rammenta che, a parti invertite, anche la domanda di rimborso avanzata in forza della Convenzione Italia – Regno Unito non sia soggetta al termine di decadenza di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, ma al termine generale di prescrizione dell’art. 2946 c.c. (Sez. V n. 21656 del 2004, n. 18442 del 2012 e n. 20296 del 2015).

Questo assorbe anche la considerazione sul rilievo del D.Lgs. n. 69 del 2003, art. 5, che ha recepito la Direttiva 2001/44/CE relativa all’assistenza reciproca in materia di recupero di crediti connessi al sistema di finanziamento del FEOGA, nonchè ai prelievi agricoli, ai dazi doganali, all’IVA ed a talune accise, ma che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. g), regola la mutua assistenza anche per il recupero dei crediti in materia di imposte dirette. Peraltro, laddove essa afferma che i titoli per il recupero sono equiparati ai ruoli di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, si riferisce però al recupero dei crediti sorti in un altro Stato Membro e per il cui recupero le autorità di questo chiedono assistenza all’Italia, e quindi ad un’ipotesi che non ricorre nella specie. Nel presente caso, invece, non risulta se l’autorità italiana si sia avvalsa di tale procedura, secondo tale normativa.

Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 10, paragrafo 4, lett. b), della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Gran Bretagna in data 21 ottobre 1988, ratificata con L. 5 novembre 1990, n. 329; delle disposizioni contenute nella Direttiva del 23 luglio 1990 n. 90/435/CEE concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati Membri diversi, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, tutte applicabili ratione temporis alla fattispecie in esame.

La CTR ha errato laddove ha escluso l’applicabilità dell’art. 10 paragrafo 4 della suddetta Convenzione per la circostanza che il rischio di doppia imposizione sarebbe stato eliminato dal fatto che la società aveva fruito dell’esonero della ritenuta sui dividendi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, in attuazione della Direttiva “madre-figlia”.

Il motivo è fondato nei termini che seguono.

Va premesso che il contenuto del terzo “considerando” della Direttiva 90/435 afferma “che le attuali disposizioni fiscali che disciplinano le relazioni tra società madri e società e sono, in generale, meno favorevoli di quelle applicabili alle relazioni tra società madri e società figlie di uno stesso Stato membro; che la cooperazione tra società di Stati membri diversi viene perciò penalizzata rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro; che occorre eliminare questa penalizzazione instaurando un regime comune e facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello comunitario”.

Riguardo alla condizione dell’assoggettamento ad imposta, “senza possibilità di opzione e senza esserne esentata” di cui all’art. 2.c) di tale Direttiva, l’art. 4 successivo è così formulato: “1. Quando una società madre o la sua stabile organizzazione, in virtù del rapporto di partecipazione tra la società madre e la sua società figlia, riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia, lo Stato della società madre e lo Stato della sua stabile organizzazione: si astengono dal sottoporre tali utili ad imposizione, o li sottopongono ad imposizione, autorizzando però detta società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia e da una sua sub-affiliata, a condizione che a ciascun livello la società e la sua sub-affiliata soddisfino i requisiti di cui agli artt. 2 e 3 entro i limiti dell’ammontare dell’imposta corrispondente dovuta. (…) 2. Ogni Stato membro ha tuttavia facoltà di stipulare che oneri e minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia non siano deducibili dall’utile imponibile della società madre. In tal caso, qualora le spese di gestione relative alla partecipazione siano fissate forfettariamente, l‘importo forfettario non può essere superiore al 5% degli utili distribuiti dalla società figlia.(…)”.

Indi, l’art. 5 della menzionata Direttiva stabilisce che: “Gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre, almeno quando quest’ultima detiene una partecipazione minima del 25 % nel capitale della società figlia, sono esenti dalla ritenuta alla fonte”.

Infine, l’art. 7, paragrafo 2, della stessa Direttiva dispone che: “La presente direttiva lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi”.

A sua volta dell’art. 10 della Convenzione tra Italia e Regno Unito prevede, al paragrafo 1, che “I dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato” e, al paragrafo 2, che “Tuttavia, tali dividendi possono essere tassati anche nello Stato contraente di cui la società che paga i dividendi è residente (…) ma (…) l’imposta così applicata non può eccedere: (a) il 5 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se l’effettivo beneficiario è una società che controlla direttamente o indirettamente, almeno il 10 per cento del potere di voto della società che paga i dividendi; (b) il 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi in tutti gli altri casi”, con la precisazione finale che “Questo paragrafo non riguarda l’imposizione della società per gli utili con i quali sono stati pagati i dividendi”.

Mentre il paragrafo 4 del medesimo art. 10 stabilisce: “(a) Un residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia – fatte salve le disposizioni del sub-paragrafo (b) del presente paragrafo – ha diritto, se è il beneficiario effettivo dei dividendi, al credito d’imposta con riguardo a tali dividendi cui una persona fisica residente dell’Italia avrebbe avuto diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista nel sub-paragrafo (b) del paragrafo (2) del presente articolo. Questa disposizione non si applica se la persona che percepisce i dividendi ed il credito di imposta non è a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito. (b) Le disposizioni del sub-paragrafo (a) del presente paragrafo non si applicano quando il beneficiario effettivo dei dividendi è una società che controlla da sola od insieme ad una o più società collegate, direttamente o indirettamente, il 10% o più del potere di voto nella società che paga i dividendi. In tal caso, una società residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia ha diritto, a condizione che sia la beneficiaria effettiva dei dividendi, ad un credito di imposta pari alla metà del credito d’imposta cui una persona fisica residente in Italia avrebbe diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista al sub-paragrafo (a) del paragrafo (2) del presente articolo ed a condizione che la società la quale riceve i dividendi ed il credito d’imposta sia a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito. Ai fini del presente sub-paragrafo, due società si considerano collegate se una di esse controlla, direttamente o indirettamente, più del 50 per cento del potere di voto nell’altra società oppure una terza società controlla più del 50 per cento del potere di voto di entrambe.”

La CTR ha escluso la possibilità di cumulare il beneficio della Direttiva madre-figlia (nella specie, esenzione da ritenuta) con il credito di imposta della convenzione, affermando che la non applicazione della ritenuta in virtù della normativa di recepimento della Direttiva madre-figlia elimina in radice la doppia imposizione.

Nel caso di specie, la CTR giunge alla sua conclusione sul presupposto, in primo luogo, che i dividendi pagati dalla società figlia non sono stati assoggettati a ritenuta D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 27 bis, comma 3, e per questo afferma che il rischio di doppia imposizione è stato eliminato (pag. 7 della sentenza).

La società deduce che questa è una “affermazione errata” (si veda pag. 41 ricorso).

In realtà, ritiene il collegio che la questione specifica vada analizzata alla luce del principio, di matrice Eurounitaria, della neutralità nella tassazione in rapporti transnazionali.

In questo senso, occorre tenere presenti due considerazioni, una delle quali relativa alla sopravvenuta sentenza della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019 (causa C-389/18, Brussels Securities).

In primo luogo, il fatto che la distribuzione del dividendo da parte della società figlia non sia stato soggetto a ritenuta in Italia non elimina necessariamente il rischio di doppia imposizione economica e di violazione della neutralità fiscale.

La doppia imposizione viene definita “economica” quando due Stati sottopongono a imposizione contribuenti diversi per lo stesso reddito e viene definita “giuridica” quando due Stati sottopongono a imposizione lo stesso contribuente per lo stesso reddito (Sez. V, nn. 29635-30140-30147 del 2019), laddove l’eliminazione della prima è ritenuta obiettivo tipico dell’UE (Avv. Gen., in causa C-389/18, note 15 e 30).

La stessa circolare dell’Agenzia n. 151 del 1994, citata dal ricorrente, contempla l’ipotesi secondo cui: “In presenza dei requisiti sostanziali e formali previsti dal D.Lgs. n. 136 del 1993 i sostituti d’imposta, sotto la propria responsabilità, potrebbero essersi astenuti dall’applicazione della ritenuta sui dividendi da essi erogati”. Ed afferma che “A seguito dell’istanza della società “madre” residente nel Regno Unito volta ad ottenere il rimborso del credito di imposta spettante ai sensi dell’art. 10 della vigente Convenzione per evitare la doppia imposizione da presentarsi alle Direzioni delle Entrate – Sezioni staccate, queste ultime applicheranno la ritenuta prevista dal trattato sia sull’ammontare del credito di imposta sia – ove non l’abbiano effettuata i sostituti – sull’ammontare dei dividendi e provvederanno a detrarre la ritenuta così applicata dalla somma dovuta quale credito di imposta. In quest’ultima ipotesi cioè di dividendi pagati da una società “figlia” italiana ad una società “madre” inglese (e non assoggettati ad alcuna ritenuta), quest’ultima avrà ugualmente diritto al pagamento di una somma pari alla metà del credito di imposta, ma in tal caso la ritenuta del 5% dovrà essere applicata sia sull’importo del credito di imposta spettante sia sull’importo dei dividendi (rimborso 21,72%)”.

Inoltre, occorre tenere presente che, seppure non riferita specificamente ai rapporti col Regno Unito, la recente pronuncia delle Corte di Giustizia (causa C-389/18, Brussels Securities) del 19 dicembre 2019 esprime un principio di valore generale affermando che: “L’art. 4, paragrafo 1, della Direttiva 90/435/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, come modificata dalla Direttiva 2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale i dividendi che una società madre percepisce dalla sua società figlia debbano essere, in un primo tempo, inclusi nella base imponibile della società madre, prima di poter fare, in un secondo tempo, oggetto di una deduzione, nella misura del 95% del loro importo, la cui eccedenza può essere riportata agli esercizi successivi senza limiti nel tempo, deduzione che è prioritaria rispetto ad un’altra deduzione fiscale il cui rinvio sia limitato nel tempo”.

Più in dettaglio la Corte di Giustizia precisa, al punto 35), che: “Inoltre, risulta precisamente dal terzo considerando della Direttiva 90/435 che essa mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro e a facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello dell‘Unione. Tale Direttiva tende così ad assicurare la neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro (sentenze del l’ottobre 2009, Gaz de France – Berliner Investissement, C-247/08, EU:C:2009:600, punto 27 e giurisprudenza ivi citata, e dell ‘ 8 marzo 2017, Wereldhave Belgium e a., C-448/15, EU:C:2017:180, punto 25)”.

Indi chiarisce, al punto 36), che: “Al fine di assicurare I ‘ obiettivo della neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro, la Direttiva 90/435 mira ad evitare, in particolare, mediante la regola prevista al suo art. 4, paragrafo 1, primo trattino, una doppia imposizione di tali utili, in termini economici, vale a dire ad evitare che gli utili distribuiti siano colpiti, una prima volta, a carico della società figlia, e, una seconda volta, a carico della società madre (v., in tal senso, sentenze del 3 aprile 2008, Banque Federative du Credit Mutue, C-27/07, EU:C:2008:195, punti 24, 25 e 27, nonchè del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 29 e 30)”.

Nel caso di specie, emerge con chiarezza dalla sentenza della CTR che i dividendi in questione erano stati inclusi dalla società madre nella base imponibile ai fini del rapporto con il fisco britannico, laddove la sentenza afferma che “la società madre residente nel Regno Unito ha subito una tassazione corrispondente ad una aliquota applicata sui redditi della società comprensivi dei dividendi ricevuti dalla partecipata italiana”, per quanto poi avessero usufruito di quello che la stessa definisce “credito di imposta indiretto” (Underlying Tax Credit) e per quanto la CTR concluda nel senso che, alla fine, la società madre non ha pagato imposte nel Regno Unito.

Ciò, però, non toglie che debba tenersi conto di quanto affermato dalla Corte di Giustizia, secondo cui (punto 37) occorre evitare non solo la tassazione diretta dei dividendi in capo alla società madre, ma anche quella indiretta, intesa come conseguenza dell’applicazione di meccanismi che, sebbene accompagnati da esenzioni o deduzioni generate dalla volontà di tenere conto delle imposte pagate dalla società figlia nel proprio Stato, in concreto potrebbero causare in capo alla società madre un trattamento deteriore rispetto a quello che spetterebbe qualora la due società (madre e figlia) fossero dello stesso Stato.

Essendo queste ultime di circostanze di fatto, occorre allora riesaminare il meccanismo di tassazione applicato nella specie per verificare se, nel caso concreto, il sistema descritto nella sentenza della CTR abbia effettivamente evitato la doppia imposizione e ne abbia anche scongiurato il rischio, nel rispetto del principio di neutralità fiscale perseguito dalla Direttiva.

Ciò rileva proprio per il sistema della Direttiva, laddove esso “consente di raggiungere pienamente l’obiettivo della prevenzione della doppia imposizione economica, quale previsto dall’art. 4, paragrafo 1, primo trattino, di tale Direttiva (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 41 e 45)”, dovendo la percezione dei dividendi essere “fiscalmente neutra per la società madre” (vedasi CGUE sopra cit., punti 38, 46), con specifico riferimento alla condizione dell’assoggettamento ad imposta, senza possibilità di opzione e senza esserne esentata previsto dall’art. 2.c) della Direttiva 90/435, poi sostituita, senza cambiarne i principi, dall’art. 2.a.iii) della Direttiva 2011/96.

Con il quarto motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, che disciplina il principio della tutela dell’affidamento e della buona fede nei rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria.

La CTR non ha considerato che il provvedimento con cui il COP ha chiesto la restituzione di quanto già rimborsato e degli interessi moratori è contrario ai principi di affidamento e buona fede di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10 (c.d. Statuto del contribuente).

Il motivo appare assorbito dall’accoglimento del precedente, atteso che la necessità di riesaminare la situazione di fatto incide ovviamente sulla richiesta restituzione alla società di quanto ad essa già rimborsato.

Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, che disciplina le modalità di notificazione degli atti impositivi a soggetti non residenti.

La CTR ha errato nel non avere riconosciuto la nullità della notifica dell’atto di diniego del rimborso effettuata, a soggetto non residente e non domiciliato in Italia, in violazione delle disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e nell’avere riconosciuto sanato il vizio, alla luce della sentenza di questa Corte n. 19854 del 2004.

Alla notifica dell’atto impositivo, infatti, non si applica il principio della sanatoria per raggiungimento dello scopo previsto per le notifiche degli atti processuali.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha, infatti, ormai affermato costantemente il principio secondo cui anche alla notifica degli atti impositivi sono applicabili i principi della notifica degli atti processuali, ed in particolare la sanatoria.

In particolare, ancora di recente, si vedano:

Sez. V, ord. n. 6417 del 2019, Rv 653074, secondo cui “La natura sostanziale e non processuale della cartella di pagamento non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria, sicchè il rinvio operato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (in materia di notificazione dell’avviso di accertamento), il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di irritualità della notificazione della cartella di pagamento, in ragione della avvenuta trasmissione di un file con estensione “pdf” anzichè “.p7m”, l’applicazione dell’istituto della sanatoria del vizio dell’atto per raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c.”;

Sez. V, n. 27561 del 2018, Rv. 651066, che ha affermato che “La natura sostanziale e non processuale della cartella di pagamento non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicchè il rinvio disposto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5 (in tema di notifica della cartella di pagamento) al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (in materia di notificazione dell’avviso di accertamento), il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di nullità della notificazione della cartella di pagamento, l’applicazione dell’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c.”;

Sez. V, n. 11043 del 2018, Rv. 648360, che ha concluso che:

“L’invalida notifica dell’avviso di accertamento è sanata per raggiungimento dello scopo ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui il medesimo, in sede di ricorso giurisdizionale contro l’atto, ne abbia diffusamente contestato il contenuto”;

e Sez. V, n. 18480 del 2016, Rv. 640971, secondo la quale “La notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento dell’atto d’imposizione fiscale, sicchè la sua nullità è sanata, a norma dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per effetto del raggiungimento dello scopo, desumibile anche dalla tempestiva impugnazione”.

E’ vero che si tratta di giurisprudenza relativa ad atti diversi da quello che viene in rilievo nel caso di specie, ma resta il fatto che il principio che da essa emerge è quello per cui la sanatoria opera quando il contribuente ha avuto piena possibilità di far valere le proprie ragioni in giudizio, come è avvenuto nella specie.

In sede di ricorso incidentale condizionato, l’ufficio deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ed al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, cit..

La CTR avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il motivo di appello relativo alla asserita mancanza di potere del COP ad emettere il provvedimento impugnato, in quanto motivo nuovo, introdotto per la prima volta in appello.

Il motivo è assorbito dal rigetto del primo motivo.

In conclusione, accolto il solo terzo motivo di ricorso principale nei termini di cui in motivazione, occorre cassare la sentenza impugnata, con rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo per il riesame delle questioni di fatto sulla base di principi di diritto sopra enunciati, nonchè per la pronuncia sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso principale nei termini di cui in motivazione; rigetta il primo, secondo e quinto motivo di ricorso principale; dichiara assorbiti il quarto motivo di ricorso principale e il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2020

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