Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23128 del 22/10/2020

Cassazione civile sez. I, 22/10/2020, (ud. 10/07/2020, dep. 22/10/2020), n.23128

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16762/2019 R.G. proposto da:

M.W., rappresentato e difeso dall’Avv. Rosaria Tassinari,

con domicilio eletto in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria

civile della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna depositato il 23 aprile

2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 10 luglio

2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 23 aprile 2019, il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da M.W., cittadino del (OMISSIS)

Premesso che il ricorrente, musulmano sunnita, aveva riferito di essersi allontanato dal suo Paese di origine per il timore di essere ucciso dalla famiglia di una ragazza sciita con cui aveva intrapreso una relazione sentimentale, che aveva già ucciso per tale motivo suo padre e suo fratello, il Tribunale ha ritenuto inattendibili le predette dichiarazioni, evidenziando la genericità, l’incoerenza e l’implausibilità della narrazione, non confortata da elementi oggettivi di prova e contrastante con le informazioni generali e specifiche pertinenti alla fattispecie. Ha quindi escluso la necessità di procedere ad approfondimenti istruttori, osservando comunque che dalla vicenda narrata non emergevano atti persecutori riconducibili ai motivi tassativamente elencati del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 8, avendo il ricorrente prospettato un pericolo proveniente da un agente privato, senza allegare plausibilmente e credibilmente di aver invocato la tutela delle autorità statali del proprio Paese. Ha escluso inoltre che nella regione di provenienza del ricorrente (Punjab) fosse in atto una situazione di violenza indiscriminata derivate da un conflitto armato, richiamando le informazioni fornite in proposito da fonti internazionali accreditate ed aggiornate. Ha ritenuto infine insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, in ragione sia dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente che della mancata prospettazione di una situazione di vulnerabilità personale o di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani: ha evidenziato al riguardo la giovane età del ricorrente e la mancata deduzione di particolari problematiche di salute, osservando inoltre che, anche alla luce della breve permanenza in Italia, lo studio della lingua italiana da lui intrapreso e l’avvenuta stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato non potevano considerarsi sufficienti a comprovare un effettivo radicamento nel territorio nazionale.

2. Avverso il predetto decreto il M. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto privo dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., richiamato dall’art. 370 c.p.c., comma 2 e finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale: nel procedimento in Camera di consiglio dinanzi alla Corte di Cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale presuppone che l’intimato risulti già costituito mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, nonchè il difetto di motivazione, osservando che, nella valutazione della credibilità delle dichiarazioni da lui rese, il Tribunale non si è attenuto ai criteri stabiliti dell’art. 3 cit., comma 5, non avendo tenuto conto della situazione di violenza indiscriminata esistente in Pakistan ed avendo omesso di adempiere l’obbligo di cooperazione posto a suo carico. Aggiunge che, nel rilevare la genericità e l’implausibilità dei fatti da lui allegati, il decreto impugnato non ha valutato se egli avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e se avesse fornito un’idonea motivazione alla mancanza di altri elementi significativi, avendo omesso anche di chiedere ulteriori specificazioni o di disporre la sua riconvocazione.

2.1. Il motivo è infondato.

Il controllo di attendibilità delle dichiarazioni rese a sostegno della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, espressamente prescritto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per l’ipotesi in cui taluni elementi o aspetti delle stesse non siano suffragati da prove, postula infatti una verifica della coerenza interna ed esterna delle predette dichiarazioni, ovverosia della congruenza intrinseca del racconto e della sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, nonchè della plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; Cass., Sez. VI, 31/07/2019, n. 20580). E’ proprio ai fini di tale verifica che la lettera a) della norma in esame impone al richiedente di compiere ogni sforzo per circostanziare la domanda, cioè per arricchire di dettagli la vicenda personale narrata, la cui veridicità in tanto può essere riconosciuta in via presuntiva, in mancanza di una prova diretta, in quanto, come previsto dalla lettera c), le circostanze riferite non si pongano in contrasto tra loro e con il contesto generale in cui la vicenda stessa si colloca, quale emerge dalle informazioni di cui si dispone. A tali criteri si è puntualmente attenuto il decreto impugnato, il quale, nell’escludere l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente, non si è limitato a rilevare che le stesse non erano confortate da elementi oggettivi di prova, senza che ne fosse stata spiegata la ragione, ma ne ha esaminato attentamente il contenuto, evidenziando le lacune e le incongruenze della narrazione, e confrontando i riferimenti a persone, fatti e situazioni del Paese di origine (in particolare, l’asserito coinvolgimento nella vicenda di un noto personaggio politico pakistano, il preteso atteggiamento discriminatorio della polizia nei confronti degli aderenti alla corrente islamica sunnita) con le informazioni fornite da fonti internazionali aggiornate e accreditate, dal cui esame ha desunto l’implausibilità complessiva della vicenda allegata. Tale apprezzamento, che integra un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per insussistenza materiale, mera apparenza, perplessità o manifesta illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340; Cass., Sez. VI, 30/10/ 2018, n. 27503), resiste alle critiche mosse dal ricorrente, il quale non è in grado d’indicare fatti decisivi emersi dal dibattito processuale e trascurati dal Tribunale nè contraddizioni o incongruenze tali da impedire la ricostruzione del percorso logico su cui si fonda la decisione, ma si limita ad evidenziare la situazione di violenza indiscriminata a suo avviso in atto nel Pakistan, la quale può assumere rilievo esclusivamente ai fini della configurabilità della fattispecie di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in riferimento alla quale la credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente risulta tuttavia ininfluente (cfr. Cass., Sez. I, 29/05/2020, n. 10286; 24/05/2019, n. 14283).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sostenendo che, nell’escludere la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione sussidiaria, il decreto impugnato non ha tenuto conto della situazione del Pakistan, avendo evidenziato la provenienza della minaccia da un agente privato, senza accertare se le autorità statali fossero in grado di fornire protezione, ed avendo richiamato fonti non aggiornate, senza effettuare un’approfondita valutazione della situazione del Paese.

3.1. Il motivo è infondato.

Come correttamente rilevato dal decreto impugnato, la ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda dispensava il Tribunale dall’adempimento del dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, ai fini dell’accertamento dell’incapacità delle autorità statali di fornire protezione contro la situazione di pericolo prospettata dal richiedente, dovendosi escludere l’operatività del predetto dovere allorchè, come nella specie, sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile, la volontà di cooperare, quanto meno sotto il profilo dell’affidabile allegazione degli stessi (cfr. Cass., Sez. VI, 20/12/2018, n. 33096; 12/11/2018, n. 28862; 27/06/2018, n. 16925). Il predetto profilo, peraltro, non è stato interamente trascurato dal decreto impugnato, il quale, nel rigettare la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, non si è limitato ad escludere la configurabilità di atti persecutori o del rischio di un danno grave, ma, preso atto che il ricorrente aveva fatto riferimento ad una minaccia proveniente da agenti privati, ha aggiunto che egli non aveva neppure allegato di avere tentato di ottenere protezione dalle autorità statali.

Tale osservazione è riferibile unicamente alla verifica dei presupposti prescritti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e art. 14, lett. a) e b), essendo il ricorso alla tutela statale ipotizzabile soltanto con riguardo al rischio derivante dalla vicenda personale allegata a sostegno della domanda (il contrasto tra la famiglia del ricorrente e quella della ragazza con cui aveva intrapreso una relazione sentimentale, determinato dall’appartenenza a correnti religiose diverse), e non anche in riferimento alla minaccia di un danno derivante dalla situazione di violenza indiscriminata in atto nel Paese di origine, prospettata a sostegno della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria avanzata ai sensi dell’art. 14 cit., lett. c). E’ noto infatti che tale disposizione, nella parte in cui richiede una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno, dev’essere interpretata, in conformità con la giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di giustizia UE, sent. 30/01/2014, in causa C-285/12, Diakitè), nel senso che tale conflitto rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative dello Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, abbiano raggiunto un grado di violenza talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio effettivo di subire un danno grave alla vita o alla persona (cfr. Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090; 31/05/2018, n. 13858): ciò implica logicamente che, indipendentemente dal loro coinvolgimento nel conflitto, le autorità statali ed i partiti o le organizzazioni che controllano il territorio, ivi comprese le organizzazioni internazionali, non siano in grado di fornire protezione, nel senso inteso dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, comma 2, contro le violenze poste in essere dai belligeranti.

Ai fini della configurabilità della fattispecie di cui dell’art. 14 cit., lett. c), è quindi sufficiente l’accertamento della situazione di pericolo determinata dal conflitto in corso, in ordine alla quale il decreto impugnato ha richiamato le informazioni fornite da fonti internazionali accreditate ed aggiornate, puntualmente richiamate in motivazione, in tal modo pervenendo all’esclusione della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura in questione. Tale apprezzamento, anch’esso sindacabile esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non risulta validamente censurato dal ricorrente (cfr. Cass., Sez. VI, 12/12/2018, n. 32064; Cass., Sez. I, 21/ 11/2018, n. 30105), il quale si limita a contrapporre alle informazioni riportate nella motivazione del decreto impugnato quelle desunte da altre fonti, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso la deduzione del vizio di violazione di legge, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui sono rimessi l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, l’assunzione e la valutazione delle prove e il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonchè la scelta, tra le complessive risultanze del processo, di quelle maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. Cass., Sez. VI, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547; Cass., Sez. lav., 14/11/2013, n. 25608).

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, senza verificare se, indipendentemente dalla credibilità delle dichiarazioni da lui rese, la situazione di violenza diffusa in atto nel suo Paese di origine fosse sufficiente ad integrare una situazione di vulnerabilità personale, in quanto tale da porre in pericolo la sua vita e la sua incolumità.

4.1. Il motivo è infondato.

Benvero, non può condividersi il decreto impugnato, nella parte in cui, pur rilevando che il ricorrente aveva trovato occupazione in Italia, ha evidenziato il carattere temporaneo dell’attività lavorativa, concludendo per la mancata dimostrazione del suo inserimento nel tessuto economico nazionale, senza tener conto della durata annuale del rapporto, dovuta alla reiterata stipulazione di contratti a tempo determinato. Occorre tuttavia rilevare che la prova del predetto inserimento sarebbe risultata comunque insufficiente ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, a fronte della accertata insussistenza di altri elementi idonei a determinare un effettivo radicamento nel nostro Paese e della mancata allegazione di situazioni ostative al rimpatrio del ricorrente, che hanno indotto il Tribunale ad escludere la sussistenza di una condizione di vulnerabilità effettiva.

Come riconosciuto dalla stessa difesa del ricorrente, l’applicazione della misura in questione, avente carattere atipico e residuale, richiede infatti una valutazione comparativa da condursi caso per caso, attraverso il raffronto tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e la situazione soggettiva ed oggettiva in cui si trovava nel Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare una privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, in misura tale da comprimerne il contenuto oltre il limite rappresentato dal nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass., Sez. Un. 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. I, 30/03/ 2020, n. 7599; 23/02/2018, n. 4455). Nell’ambito di tale valutazione, la situazione generale del Paese di origine può assumere rilievo esclusivamente in relazione alla sua incidenza sulla vita privata e familiare del richiedente, quale riflesso di una condizione di vulnerabilità personale da lui vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe nuovamente esposto in caso di rimpatrio, prendendosi altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (cfr. Cass., Sez. I, 3/04/2019, n. 9304; Cass., Sez. VI, 7/02/2019, n. 3681). Non merita dunque censura il decreto impugnato, nella parte in cui, pur dando atto della situazione d’instabilità politico-sociale esistente in Pakistan, l’ha reputata ininfluente ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, escludendone l’incidenza sulla condizione personale del ricorrente, anche in ragione della ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda.

5. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.

Essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito delle spese processuali, non ricorrono, allo stato, i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (cfr. Cass., Sez. VI, 22/03/2017, n. 7368; 2/09/2014, n. 18523).

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto dell’insussistenza, allo stato, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis, sempre che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non risulti revocata dal giudice competente.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2020

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