Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23126 del 22/10/2020

Cassazione civile sez. I, 22/10/2020, (ud. 10/07/2020, dep. 22/10/2020), n.23126

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24758/2018 R.G. proposto da:

A.O., rappresentato e difeso dall’Avv. Raffaele

Tecce, con domicilio eletto in Roma, via P.S. Mancini, n. 2, presso

lo studio dell’Avv. Marco Nicolai;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in

Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna depositato il 12 luglio

2018.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 10 luglio

2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 12 luglio 2018, il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da A.O., cittadino della (OMISSIS).

Premesso che il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal proprio Paese per il timore di essere torturato ed ucciso a causa del suo rifiuto di succedere a suo padre nel ruolo di capo dei sacerdoti del culto tradizionale, il Tribunale ha ritenuto inattendibile la predetta narrazione, rilevando che il ricorrente non aveva prodotto alcuna documentazione e non aveva compiuto alcun ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, avendo descritto solo genericamente il culto di cui il padre era sacerdote e la vicenda del suo sequestro da parte degli abitanti del villaggio, avendo reso dichiarazioni incoerenti in ordine alle modalità di fuga, e non avendo spiegato le ragioni per cui era successivamente fuggito anche da (OMISSIS), dove si era rifugiato. Rilevato inoltre che le predette dichiarazioni non trovavano riscontro nelle informazioni più recenti ed accreditate relative al Paese di origine, da cui risultava che la funzione di capo dei sacerdoti non si trasmette necessariamente al figlio maggiore e che il rifiuto della stessa non costituisce un’offesa al culto, ha escluso la necessità di procedere ad approfondimenti istruttori. Ha ritenuto quindi insussistenti i presupposti richiesti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), osservando inoltre che il ricorrente non aveva adombrato nessun rischio di persecuzione per uno dei motivi previsti dall’art. 8 del medesimo Decreto, e precisando comunque che non era stata fornita la prova di una richiesta di protezione alle autorità statali o del rifiuto o dell’incapacità delle stesse di fornire tutela. Il Tribunale ha inoltre escluso che nella regione di provenienza del ricorrente (Ondo State) ed in quella in cui si era successivamente trasferito (Edo State) fosse configurabile una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno, richiamando le informazioni più recenti ed accreditate relative alla Nigeria, dalle quali risultava che l’area critica di tale Paese era circoscritta ad altre regioni. Ha ritenuto infine insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che il ricorrente non aveva allegato una condizione seria e grave di vulnerabilità da tutelare nè circostanze sintomatiche di un radicamento nel territorio nazionale, essendosi limitato ad affermare di avere svolto attività di volontariato e di essersi dedicato allo studio della lingua italiana.

2. Avverso la predetta sentenza l’ A. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 7 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, censurando il decreto impugnato per aver ritenuto non sufficientemente circostanziata la narrazione dei fatti allegati a sostegno della domanda. Premesso di avere indicato dettagliatamente le ragioni del suo rifiuto di succedere al padre, determinato dalla sua conversione alla religione cristiana, ribadisce che tale scelta ha comportato la privazione della libertà personale e la sottoposizione a sevizie, da lui descritte in modo specifico e coerente. Aggiunge che la vicenda narrata trova riscontro nella crescente diffusione del cristianesimo in Nigeria e nelle violente persecuzioni cui sono sottoposti i suoi aderenti, sotto lo sguardo inerte del governo e della comunità internazionale, mentre il timore di essere sottoposto a persecuzioni è avvalorato da quelle da lui già subite.

1.1. Il motivo è infondato.

Il controllo di attendibilità delle dichiarazioni rese a sostegno della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, espressamente prescritto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per l’ipotesi in cui taluni elementi o aspetti delle stesse non siano suffragati da prove, postula infatti una verifica della coerenza interna ed esterna delle predette dichiarazioni, ovverosia della congruenza intrinseca del racconto e della sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, nonchè della plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; Cass., Sez. VI, 31/07/2019, n. 20580). E’ proprio ai fini di tale verifica che la lett. a) della norma in esame impone al richiedente di compiere ogni sforzo per circostanziare la domanda, cioè per arricchire di dettagli la vicenda personale narrata, la cui veridicità in tanto può essere riconosciuta in via presuntiva, in mancanza di una prova diretta, in quanto, come previsto dalla lett. c), le circostanze riferite non si pongano in contrasto tra loro e con il contesto generale in cui la vicenda stessa si colloca, quale emerge dalle informazioni di cui si dispone. A tali criteri si è puntualmente attenuto il decreto impugnato, il quale, nell’escludere l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente, ha posto in risalto non solo le lacune e le contraddizioni interne della vicenda personale da lui narrata, ma anche il contrasto della stessa con le informazioni relative al Paese di origine, richiamando fonti internazionali aggiornate ed accreditate, puntualmente indicate in motivazione, dalle quali ha desunto, in particolare, che non risultavano casi di nigeriani costretti a svolgere funzioni sacerdotali o sottoposti a minacce o violenze per aver rifiutato di accettare tali cariche per motivi religiosi. Tale apprezzamento non è censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, integrando un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi del n. 5 dell’art. 360, comma 1, cit., per omesso esame di un fatto decisivo che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per insussistenza materiale, mera apparenza, perplessità o manifesta illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340; Cass., Sez. VI, 30/10/2018, n. 27503). I predetti vizi non sono stati in alcun modo dedotti dal ricorrente, il quale, nel denunciare la violazione di legge, si è limitato ad insistere sulla credibilità delle proprie dichiarazioni, senza essere in grado d’indicare elementi di fatto emersi dal dibattito processuale e trascurati dal decreto impugnato nè contraddizioni insanabili o incongruenze tali da impedire la ricostruzione del percorso logico seguito per giungere alla decisione, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi delle citate disposizioni (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 7 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, censurando il decreto impugnato per aver ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, senza tener conto del sequestro di persona da lui subito e degli atti di violenza fisica cui era stato sottoposto.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Il rigetto del primo motivo di ricorso, comportando il passaggio in giudicato del decreto impugnato, nella parte in cui ha ritenuto inattendibile la vicenda personale riferita a sostegno della domanda, consente infatti di escludere l’interesse del ricorrente all’esame delle censure riguardanti la mancata allegazione del rischio di persecuzione per motivi riconducibili del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8. Qualora infatti, come nella specie, la decisione si fondi su una pluralità di rationes decidendi distinte ed autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle stesse comporta l’inammissibilità di quelle relative alle altre ragioni, il cui accoglimento non potrebbe in alcun caso condurre alla cassazione del provvedimento impugnato, avuto riguardo all’intervenuta definitività delle prime (cfr. Cass., Sez. V, 11/05/ 2018, n. 11493; Cass., Sez. II, 14/02/2012, n. 2108; 24/05/2006, n. 12372).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 7 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14, osservando che, nell’escludere anche la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, il Tribunale non ha considerato che, ai fini dell’applicazione di tale misura, l’esposizione al pericolo di morte o al rischio di trattamenti inumani o degradanti non deve presentare i caratteri del fumus persecutionis. Aggiunge che il diniego della protezione sussidiaria non trova giustificazione neppure nell’insussistenza di una situazione di conflitto interno nell’area di provenienza, ben potendo la stessa essere riconosciuta anche nel caso in cui il richiedente avesse la possibilità di trasferirsi in altra zona del territorio di origine.

3.1. Il motivo è infondato.

E’ pur vero, infatti, che l’applicazione della protezione sussidiaria presuppone un minor grado di personalizzazione del rischio rispetto a quello richiesto per il riconoscimento dello status di rifugiato, nel senso che nelle ipotesi previste del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), l’esposizione del richiedente al rischio della pena di morte o della sottoposizio-ne a trattamenti inumani o degradanti non deve necessariamente rivestire i caratteri del fumus persecutionis, mentre nel caso di cui alla lett. c) del medesimo articolo non è richiesto un diretto coinvolgimento dello stesso nel conflitto armato da cui deriva la situazione di violenza indiscriminata: ciò non consente tuttavia di escludere che tra la vicenda personale del richiedente ed il pericolo rappresentato debba sussistere un nesso causale, sia pure attenuato, che nei primi due casi può essere desunto dagli stessi fatti narrati a sostegno della domanda, a condizione ovviamente che gli stessi siano ritenuti attendibili, mentre nel terzo caso è riscontrabile allorquando il conflitto abbia raggiunto un’intensità ed un grado di violenza tale da esporre a rischio la vita o l’incolumità personale di chiunque si trovi nel territorio dallo stesso interessato, per il solo fatto di soggiornarvi (cfr. Cass., Sez. VI, 20/06/2018, n. 16275; Cass., Sez. I, 20/03/2014, n. 6503). Alla stregua di tale principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, la ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata dal ricorrente deve considerarsi sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, indipendentemente dalla possibilità di ricondurre i fatti narrati alle fattispecie di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), anzichè a quelle di cui agli artt. 7 ed 8 del medesimo Decreto. Quanto invece alla configurabilità della fattispecie di cui dell’art. 14 cit., lett. c), è appena il caso di richiamare il principio, anch’esso più volte ribadito da questa Corte, secondo cui il carattere settoriale della situazione di pericolo necessaria ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria dev’essere inteso nel senso che l’applicazione di tale misura non può essere esclusa in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d’origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra un rischio effettivo di subire danni gravi, mentre non vale il contrario, sicchè il richiedente non può accedere alla protezione se proveniente da una regione o un’area interna del Paese d’origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre regioni o aree invece insicure (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2019, n. 13088; Cass., Sez. VI, 16/02/2012, n. 2294).

4. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del contro-ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2020

 

 

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