Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23121 del 17/09/2019

Cassazione civile sez. II, 17/09/2019, (ud. 17/05/2019, dep. 17/09/2019), n.23121

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22202-2015 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI

55, presso lo studio dell’avvocato GABRIELA CATERINA FEDERICO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO ANGELO

FENZA;

– ricorrente –

contro

C.M., C.D.E., C.I.,

S.B.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 82,

presso lo studio dell’avvocato CANTARO FELICE ALESSANDRO,

rappresentati e difesi dall’avvocato RICCARDO MALLUS;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 256/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 17/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/05/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

Fatto

RITENUTO

che la Corte d’appello di Cagliari, accolta l’impugnazione di S.B.M., riformata la sentenza di primo grado, rigettò la domanda avanzata da A. e M.P.P., con la quale costoro avevano chiesto dichiararsi l’acquisto per usucapione di uno stacco di terreno di proprietà di C.E. e S.B.M.;

che la Corte locale negò che gli attori avevano goduto del possesso ad usucapionem, tenuto conto, fra l’altro, dell’età adolescenziale dei medesimi al tempo di maturazione del ventennio (tredici e dodici anni), essendo rimasto accertato che costoro, a dispetto di quanto dichiarato in citazione, erano nati un decennio dopo (rispettivamente nel 1967 e nel 1968, invece che nel 1957 e nel 1958), il che faceva escludere che i medesimi avessero avuto autonomia economica e fattuale per potere gestire il fondo come se ne fossero i proprietari;

ritenuto che avverso la statuizione d’appello M.A. e M.P.P. ricorrono sulla base di unitaria censura e che S.B.M., C.M., C.I. e C.D. (gli ultimi tre subentrati per successione mortis causa a C.E.) resistono con controricorso;

ritenuto che i ricorrenti denunziano “violazione o falsa applicazione delle norme di diritto contenute nell’art. 116 c.p.c., art. 111, comma 6 carta Costituzionale, art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 132, comma 2, n. 4 ed all’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1” assumendo che:

– la Corte locale non aveva “supportato la decisione con adeguata e congrua motivazione incorrendo in palesi vizi logici ed errori giuridici”;

– la minore età non era impeditiva del compimento di fatti giuridici e, in ispecie, di quelli idonei all’acquisto del diritto di proprietà per usucapione;

– la sentenza aveva “fatto pessimo uso delle massime di esperienza”, dimenticando che la vicenda si era svolta in un piccolo paese rurale, nel quale è in uso che anche i minori prendano parte alle attività agricole, senza che potesse considerarsi di ostacolo l’obbligo di frequenza scolastica, non essendovi incompatibilità;

– la sentenza gravata non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva reputato inattendibili i testi, che invece avevano confermato la prospettazione attorea, nè poteva avere valenza giuridica “la circostanza che i testi non (avevano) fatto alcun cenno al fatto che il possesso venisse esercitato dal loro padre”;

considerato che la doglianza è palesemente inammissibile per il concorrere di più autonome ragioni:

a) nessuna delle dedotte violazioni è neppure lontanamente ipotizzabile e, peraltro, la sentenza è congruamente e analiticamente motivata (a dispetto del tentativo di farsi passare maggiorenni, al tempo dei fatti, i due attori erano all’epoca dei ragazzini in età scolare dell’obbligo, i quali non avrebbero potuto avere denaro, competenze e tempo per coltivare e mantenere il fondo, anche recingendolo);

b) una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299); di conseguenza il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione (Sez. 3, 23940, 12/10/2017, Rv. 645828), oramai all’interno dell’angusto perimetro delineato dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5;

c) il ricorso al fatto notorio attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito e sindacabile, in sede di legittimità, solo se la decisione della controversia si basi su un’inesatta nozione del notorio – da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo – e non anche per inesistenza o insufficienza della motivazione, non essendo egli tenuto ad indicare gli elementi su cui si fonda la sua determinazione (ex multis, Sez. 1, n. 17906, 10/9/2015, Rv. 636706; Sez. 3, n. 13073, 14/7/2004, Rv. 574577), con l’ulteriore specificazione che il notorio può essere inteso quale fatto generalmente conosciuto in un determinata zona (notorio locale) (Sez. 3, n. 15715, 18/7/2011);

d) la sentenza impugnata ha estratto conoscenze dal notorio nel rispetto del cardine di cui sopra e, pertanto, sul punto non può essere sottoposta a sindacato di legittimità;

e) la circostanza che le attività fossero state compiute dal padre e proseguita dai ricorrenti alla di lui morte è del tutto nuova e sul punto non c’è censura che smentisca la novità; senza contare, come chiarisce la Corte d’appello, che non solo del predetto genitore neppure si conosce la data di morte, ma gli attori, in sede d’interrogatorio formale avevano dichiarato di avere solo loro esercitato il possesso.

Diritto

CONSIDERATO

che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi, in favore dei controricorrenti siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che gli elementi dei quali il Collegio dispone dimostrano che i ricorrenti hanno proposto il ricorso versando in colpa grave: costoro, che avanzarono la domanda dichiarandosi di un decennio più anziani, così da risultare maggiorenni per una rilevante parte del ventennio di legge, hanno temerariamente acceduto al giudizio di legittimità, non solo prospettando critiche meramente fattuali, ma, quel che qui più rileva, palesemente irragionevoli e del tutto sfornite di un qualsivoglia supporto di plausibilità;

che, pertanto, applicato l’art. 385 c.p.c., u.c. al tempo vigente (testo post-riforma ex D.Lgs. n. 40 del 2006 e pre-riforma ex L. n. 69 del 2009) appare conforme a giustizia condannare i ricorrenti all’ulteriore importo di cui in dispositivo;

considerato che ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte dei ricorrenti, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore dei resistenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge; nonchè al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 2.000,00, ai sensi dell’art. 385, c.p.c., al tempo vigente.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2019

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