Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23115 del 07/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 07/11/2011, (ud. 26/01/2011, dep. 07/11/2011), n.23115

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

C.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA ORAZIO MARUCCHI 5, presso lo studio dell’avvocato

PROIETTI FABRIZIO, che la rappresenta e difende, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CREDITO SICILIANO SPA (OMISSIS), in persona del Presidente,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo

studio dell’avvocato PALLADINO LUCIANO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato DAVERIO FABRIZIO, giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 119/2009 della CORTE D’APPELLO di CATANIA del

29/01/09, depositata il 24/04/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/01/2011 dal Consigliere Relatore Dott. FILIPPO CURCURUTO;

udito l’Avvocato Proietti Fabrizio, difensore della ricorrente che si

riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. DESTRO Carlo, che nulla

osserva.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

La Corte d’Appello di Catania con la sentenza indicata in epigrafe ha respinto l’appello proposto da C.A. contro la decisione di primo grado di rigetto della impugnazione del licenziamento intimatole dal Credito Siciliano il 3 febbraio 2003 per superamento del periodo di comporto.

Per ciò che ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato che il primo giudice, sulla base delle risultanze delle certificazioni di malattia prodotte dalla stessa C., aveva accertato almeno 750 giornate di assenza nei 48 mesi antecedenti il licenziamento ed aveva messo in rilievo che la contrattazione collettiva di settore prevedeva, per il comporto per sommatoria, il periodo massimo di 22 mesi pari a 660 giorni nell’arco temporale di 48 mesi.

Ciò premesso, il giudice del gravame ha notato che questo profilo della sentenza non aveva formato oggetto di una specifica contestazione, essendosi l’appellante limitata a sostenere l’incertezza del numero complessivo di assenze, indicate dal datore di lavoro tra 722 e 741 giorni, numero comunque ampiamente superiore al limite contrattuale.

La Corte di merito ha inoltre rilevato che la doglianza secondo cui le assenze sarebbero state calcolate in eccesso senza considerare “i non documentati numerosi rientri”, aveva carattere del tutto generico ed era rimasta sfornita di prova.

Infine, la Corte ha notato che con la comunicazione di licenziamento del 3 febbraio 2003 e la successiva nota del 18 febbraio 2003, alla quale erano stati allegati in copia i certificati medici attestanti il numero delle assenze, il datore di lavoro aveva assolto all’onere di specificare l’entità delle assenze e di provare il superamento del periodo di comporto.

La sentenza è impugnata con ricorso per tre motivi, illustrato anche da memoria.

La parte intimata resiste con controricorso ed eccepisce l’inammissibilità del ricorso per non conformità all’art. 366 bis c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

I primi due motivi di ricorso denunziano vizio di motivazione in relazione, rispettivamente, all’esatta determinazione dei giorni di effettiva assenza dal servizio, il primo, ed alla riconducibilità alla lavoratrice della produzione medica nonchè alla genericità della contestazione riguardante le assenze, il secondo.

In proposito deve rilevarsi anzitutto che con le anzidette indicazioni la ricorrente non ha offerto alla Corte quel momento di sintesi del fatto specificamente controverso e decisivo che l’art. 366 bis c.p.c., nella consolidata interpretazione giurisprudenziale, richiede. Si tratta infatti di indicazioni non su uno o più fatti specifici ma sulle valutazioni di alcuni temi della controversia.

Inoltre, il contenuto della censure svolte nei due motivi appare per un verso irrilevante, per altro verso inammissibile perchè non autosufficiente e perchè tendente ad un riesame del merito.

Si addebita infatti alla Corte di aver ritenuto, sulla base della sentenza di primo grado, che le assenze ammontassero a ben 750 giorni e si rileva, senza che sia dato comprendere quale interesse possa sorreggere la censura, che invece quella sentenza le aveva determinate in 780 giorni. Si aggiunge poi, in termini del tutto generici, che con l’appello erano state rilevate le evidenti aporie fra le comunicazioni datoriali che avevano indicato in 741 i giorni di assenza e le statuizioni del primo grado, e su questa base si afferma, ancora una volta in termini generici, di aver chiesto alla Corte di verificare l’esatto ammontare delle assenze, tenendo conto dei dedotti rientri anticipati, senza peraltro indicare quale documentazione fosse stata sottoposta al riguardo alla Corte di merito, onde contrastare il rilievo della sentenza circa l’assenza di prova in proposito, e senza darsi carico del dato fondamentale, anch’esso messo in luce dalla sentenza, che in ogni caso i numeri delle assenze superavano ampiamente il limite contrattuale.

Si addebita ancora alla sentenza di aver affermato che le risultanze delle certificazioni mediche provenivano dalla stessa C. mentre si sarebbe trattato di documentazione datoriale. Ma la prova di tale assunto, in contrasto con il canone di autosufficienza, è affidata ad un rinvio alla lettura degli atti di causa dai quali si desumerebbe l’errore, esame che non spetta a questa Corte di compiere in relazione al vizio denunziato.

Analoghe considerazioni valgono per la dedotta erronea interpretazione dell’atto di appello da parte della Corte territoriale in relazione all’affermata assenza di specifica contestazione.

Quanto alla richiesta di informazioni all’INPS, non risulta quale ne sia stato lo specifico contenuto e in quale modo dal suo accoglimento sarebbero potuti risultare rientri non documentati, idonei ad interrompere il periodo di malattia.

Infine, contro l’affermazione della sentenza che tali rientri non erano in alcun modo provati, si formulano obiezioni di tipo meramente probabilistico, le quali, puntando verso una prova di tipo presuntivo, attengono palesemente al merito.

Il terzo motivo di ricorso denunzia vizio di violazione e falsa applicazione di diverse norme del codice civile(artt. 2110, 2696, 1366 e 1375) nonchè dell’art. 32 Cost. e dell’art. 24 Cost.

dell’art. 213 c.p.c.. Il motivo non è in alcun modo corredato, come necessario, dall’esplicito e specifico quesito di diritto richiesto dall’art. 366 c.p.c. ed è pertanto inammissibile, come eccepito dalla parte resistente.

Il ricorso si conclude infine con un preannunzio di futura eccezione di violazione di direttiva comunitaria, che dovrebbe esser sviluppato in apposito scritto difensivo.

In proposito sembra opportuno però osservare che, nel giudizio di legittimità, salvo ovviamente il principio jura novit curia, il ricorso consuma l’impugnazione e ne segna i limiti, e gli scritti difensivi successivi, identificabili esclusivamente nella memoria ex art. 378 c.p.c., non possono introdurre questioni non prospettate compiutamente fin dall’inizio.

In definitiva, stante l’inammissibilità delle censure in esso contenute, il ricorso va rigettato, dal momento che nessuno degli argomenti sviluppati nella memoria è idoneo ad avviso della Corte a determinare una diversa conclusione.

Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in Euro 30,00 per esborsi, ed Euro 2500,00 per onorari, oltre ad IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2011

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