Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23107 del 17/09/2019

Cassazione civile sez. lav., 17/09/2019, (ud. 02/04/2019, dep. 17/09/2019), n.23107

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10757/2016 proposto da:

D.R., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARIO D’ECCLESIIS;

– ricorrente –

contro

BANCA POPOLARE DI BARI Società Cooperativa P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio degli avvocati FRANCESCO

GIAMMARIA e TIZIANA SERRANI, che la rappresentano e difendono

unitamente all’avvocato ROMUALDO PECORELLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 328/2015 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 05/11/2015 R.G.N. 411/2014.

Fatto

RILEVATO

che la Corte territoriale di Potenza, con sentenza pubblicata in data 5.11.2015, ha rigettato l’appello principale interposto da D.R., nei confronti della Banca Popolare di Bari S.C.p.A., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede, resa il 12.12.2013, con la quale, in parziale accoglimento della domanda del dipendente, era stata accertata “la dequalificazione professionale a decorrere dal luglio 2008”, con la condanna della parte datoriale al versamento, in favore del ricorrente, a titolo di danno biologico, della complessiva somma di Euro 37.355,00, oltre accessori come per legge;

che per la cassazione della sentenza ricorre D.R., articolando due motivi contenenti più censure, cui la S.C.p.A. Banca Popolare di Bari resiste con controricorso;

che sono state depositate memorie nell’interesse della società datrice, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

– che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione della normativa contrattuale CC.CC.NN. NN. 11.7.99; 12.2.2005; 8.12.2007; 10.1.2008, artt. 2113 e 2094 c.c.”, nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “l’omessa ed errata interpretazione della documentazione prodotta in uno alla prova testimoniale”, e si lamenta, quanto alla prima censura, che i giudici di seconda istanza non avrebbero accertato quali attività lavorative avesse svolto, in concreto, il dipendente e non avrebbero valutato la complessità delle attività del medesimo, desumibile dai documenti prodotti e da alcune testimonianze, ritenendo erroneamente tali mansioni come rientranti nella qualifica di quadro direttivo, senza considerare che il ruolo svolto, a parere del ricorrente, andava ben al di là della rilevante importanza per l’attuazione dei fini dell’impresa, “assumendo, nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, iniziative in grado di imprimere indirizzo ed orientamento al governo complessivo dell’azienda”; quanto alla seconda censura, si deduce che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le risultanze processuali e di effettuare un’analisi completa sulla specificità degli incarichi conferiti al ricorrente”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per le contraddizioni e le insufficienze motivazionali della sentenza impugnata – in relazione al mancato riconoscimento delle mansioni superiori -, le quali condurrebbero, a parere del ricorrente, ad un vero e proprio caso scolastico di nullità della pronunzia; in particolare, si censura il fatto che i giudici di seconda istanza, da un lato, abbiano ritenuto la carenza di prova circa l’adibizione a compiti inferiori rispetto a quelli propri di quadro dirigente e, dall’altro, abbiano confermato la condanna della Banca al risarcimento del danno dal luglio 2008;

che il primo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili; innanzitutto, infatti, la parte ricorrente non ha indicato analiticamente quali norme, e sotto quale profilo, sarebbero state violate (facendosi genericamente accenno soltanto ai CC.NN.LL. 11.7.1999; 12.2.2005; 8.12.2007; 10.1.2008 ed agli artt. 2113 e 2094 c.c., senza alcuna indicazione del punto della sentenza impugnata in cui tali disposizioni sarebbero state violate), in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); inoltre, per quanto, più in particolare, attiene alle dedotte, generiche, violazioni attinenti ai citati CC.NN.LL., va rilevato che gli stessi non sono stati prodotti (e neppure indicati come documenti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), nè trascritti, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare la veridicità delle doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza, che si risolvono, quindi, in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che, inoltre, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, in data 5.11.2015, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare”, in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della pronunzia per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015) che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale, come innanzi osservato, con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata;

che, infine, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., commi 4 e 5, “in caso di doppia conforme, è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicchè il sindacato di legittimità del provvedimento di primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili” (così testualmente – e tra le molte -, Cass., Sez. VI, n. 26097/2014); che, pertanto, in tali ipotesi, “il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui dell’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4)”; e tale disposizione, inserita dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, è applicabile al caso di specie, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo (che stabilisce che le norme in esso contenute si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto), essendo stato introdotto il gravame con atto in data 11.6.2014;

che pure il secondo motivo è inammissibile; quanto alla censura formulata in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, valgano le considerazioni testè svolte; relativamente alla seconda censura, con cui si lamenta che la Corte di Appello avrebbe “omesso di pronunciarsi in ordine alla reintegrazione del ricorrente nelle mansioni di quadro direttivo di IV livello”, si osserva che, perchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità una “omessa pronunzia” – fattispecie riconducibile ad una ipotesi di error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4 – sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, deve prospettarsi, in concreto, l’omesso esame di una domanda o la pronunzia su una domanda non proposta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 13482/2014; 9108/2012; 7932/2012; 20373/2008); ipotesi, queste, che non si profilano nel caso di specie, in cui i giudici di seconda istanza facendo proprio il prevalente – ed ormai consolidato – indirizzo giurisprudenziale di legittimità, hanno analizzato compiutamente tutte le risultanze istruttorie e le mansioni effettivamente svolte dal D., giungendo motivatamente ad escludere, attraverso il procedimento c.d. trifasico, che “il livello di quadro riconosciuto al D….. appare del tutto congruo con le mansioni di segretario degli organi collegiali bancari rivestito dall’appellante per circa un decennio…” (cfr., in particolare, pagg. 8-10 della sentenza oggetto del giudizio di legittimità); che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2019

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