Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23102 del 17/09/2019

Cassazione civile sez. un., 17/09/2019, (ud. 21/05/2019, dep. 17/09/2019), n.23102

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sez. –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 15962/2018 R.G. proposto da:

A.F., e A.S., rappresentati e difesi dagli

Avv. Luciano Scoglio e Domenico Bonaccorsi di Patti, con domicilio

eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via F. Cesi, n. 72;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI MILAZZO, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e

difeso dall’Avv. Carmelo Briguglio, con domicilio eletto in Roma,

via Crescenzio, n. 62, presso lo studio dell’Avv. Flavio Nicolosi;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina n. 541/17

depositata il 15 maggio 2017.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21 maggio 2019

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

udito l’Avv. Luciano Scoglio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.F., A. e S., proprietari di un fondo sito in (OMISSIS) e riportato in Catasto al foglio (OMISSIS), particelle (OMISSIS), convennero in giudizio il Comune di Milazzo, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà dell’immobile, occupato per la realizzazione dell’asse viario di raccordo tra l’autostrada (OMISSIS), il porto e la città di (OMISSIS).

A sostegno della domanda, esposero che l’occupazione, disposta una prima volta con ordinanza sindacale del 30 gennaio 1990, n. 7, che era rimasta ineseguita, era stata nuovamente autorizzata con Delib. 18 settembre 1990, n. 136, che aveva avuto esecuzione il 22 ottobre 1990; precisato inoltre che i lavori avevano avuto inizio dopo il 28 ottobre 1997, in quanto sospesi dalla Soprintendenza ai Beni Culturali, sostennero che l’occupazione aveva avuto luogo in carenza di potere, dal momento che la Delib. 6 maggio 1989, n. 157, in virtù della quale era stata disposta, non solo non recava un’espressa dichiarazione di pubblica utilità nè la fissazione dei termini prescritti dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 13, ma era stata annullata.

Si costituì il Comune, ed eccepì il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, l’incompetenza per territorio del Giudice adito ed il difetto di legittimazione passiva, chiedendo il rigetto della domanda anche nel merito.

1.1. Con sentenza del 15 settembre 2009, il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto rigettò l’eccezione di difetto di giurisdizione ed accolse quella d’incompetenza, dichiarando la competenza della Sezione distaccata di Milazzo.

2. Sull’impugnazione proposta dagli A., la Corte d’Appello di Messina con sentenza del 15 maggio 2017 ha dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, accogliendo il gravame incidentale proposto dal Comune.

A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che la fattispecie non fosse qualificabile come occupazione usurpativa, postulando quest’ultima un comportamento del tutto avulso dall’esercizio di un potere, e quindi estraneo all’ambito della giurisdizione amministrativa, in quanto non sorretto da una ragione di pubblica utilità legalmente dichiarata, mentre nel caso di specie la dichiarazione di pubblica utilità era contenuta nel Decreto Assessoriale 8 giugno 1988, n. 715/14, recante anche l’indicazione dei termini per il completamento delle procedure espropriative e dei lavori, i quali erano stati successivamente prorogati con Delib. Assessoriale 3 marzo 1995, n. 235/14. Ha precisato che, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, devono ritenersi devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo in materia urbanistico-edilizia, ai sensi della L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7, le controversie risarcitorie promosse a partire dal 10 agosto 2000 ed aventi ad oggetto occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione ed attuate in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, e quindi tutte quelle in cui l’esercizio del potere si sia manifestato con l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, anche se poi l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonchè l’irreversibile trasformazione, abbiano avuto luogo senza alcun titolo che le consentisse o nonostante l’annullamento del titolo.

3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione A.F. e S., per un solo motivo. Il Comune ha resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 34, come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7,D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53, comma 1 e dell’art. 5 c.p.c., sostenendo che, ai fini della dichiarazione del difetto di giurisdizione, la sentenza impugnata ha tenuto conto esclusivamente dei provvedimenti riguardanti il finanziamento dell’opera pubblica, senza prendere in esame altre circostanze allegate dalle parti, da cui emergeva la natura usurpativa dell’occupazione.

Premesso che la giurisdizione si determina in base alla domanda, tenendo conto non già della prospettazione delle parti, ma del c.d. petitum sostanziale, identificato in funzione della natura intrinseca della posizione soggettiva dedotta in giudizio, da individuarsi alla stregua dei fatti allegati e della vicenda sostanziale delineatasi attraverso il contraddittorio fino al deposito della memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, affermano che, nell’escludere che l’occupazione fosse stata disposta in carenza di potere, la Corte distrettuale non ha tenuto conto di una sentenza di legittimità (Cass., Sez. I, 12 maggio 2014, n. 10286) che, in relazione al medesimo procedimento amministrativo, aveva cassato la sentenza di appello che aveva qualificato la vicenda come occupazione appropriativi. Precisato che spetta al Giudice ordinario la giurisdizione in ordine alla domanda di restituzione di un bene occupato dalla Pubblica Amministrazione in assenza della dichiarazione di pubblica utilità o in virtù di una dichiarazione successivamente annullata, rilevano che nella specie la sussistenza di tale presupposto avrebbe dovuto essere verificata esclusivamente in riferimento all’atto posto a fondamento dell’occupazione del fondo, ovverosia all’ordinanza sindacale n. 136 del 18 settembre 1990, la quale risultava priva di qualsiasi indicazione in ordine al titolo giustificativo del potere espropriativo.

Secondo i ricorrenti, anche a voler ritenere che detto titolo potesse essere desunto aliunde, e segnatamente dall’approvazione del progetto, avvenuta con la Delib. 7 marzo 1988, n. 258, avrebbe dovuto rilevarsi che la stessa era stata modificata dapprima con la Delib. 24 aprile 1989, n. 140 e successivamente con la Delib. 6 maggio 1989, n. 157, con cui era stato adottato un nuovo progetto in variante allo strumento urbanistico, che non era stato tuttavia approvato dal Consiglio Regionale Urbanistica; per tale motivo, in data 13 settembre 1990 era stata adottata una nuova variante, che era stata approvata con Decreto 15 giugno 1991, n. 987. In quanto anteriore a tale approvazione, l’ordinanza n. 136 del 1990 doveva considerarsi inidonea a legittimare l’occupazione, per la quale sarebbe d’altronde occorsa, ai sensi della L. 3 gennaio 1978, n. 1, art. 1, comma 4, richiamato dalla L.R. Sicilia 10 agosto 1978, n. 35, art. 4, l’approvazione del progetto, equivalente alla dichiarazione di pubblica utilità, con la fissazione dei termini di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13: tale approvazione è tuttavia intervenuta soltanto con Delib. Giunta Municipale 7 febbraio 1995, n. 65, seguita dal Decreto Assessoriale 3 marzo 1995, n. 235/14, che ha confermato il precedente finanziamento.

Affermano i ricorrenti che il predetto iter procedurale, volto unicamente al recupero delle attività amministrative connesse alla realizzazione dell’opera pubblica, non avrebbe consentito di escludere l’illegittimità ab origine dell’occupazione, avente come unico riferimento la variante adottata nel 1990, priva di efficacia in quanto non approvata dalla Regione, e quindi non sorretta da un’idonea dichiarazione di pubblica utilità. Il Comune non poteva infatti avvalersi dell’approvazione del progetto in variante, e quindi non poteva giovarsi del silenzio-assenso per l’autorizzazione regionale, ma era tenuto ad adottare una variante allo strumento urbanistico, la cui efficacia era subordinata all’approvazione regionale, intervenuta successivamente all’occupazione del fondo. Trattandosi di un’opera pubblica finanziata dalla Regione, la dichiarazione di pubblica utilità, ai sensi della L.R. n. 35 del 1978, art. 1, avrebbe potuto essere ricollegata anche all’approvazione del finanziamento, successiva a quella del progetto: nella specie, tuttavia, il progetto originariamente finanziato è stato successivamente stravolto, tanto da rendere necessaria l’approvazione di una variante al piano regolatore generale, a seguito della quale avrebbe dovuto procedersi ad una nuova approvazione da parte della Giunta municipale e al rifinanziamento dell’opera.

La Corte distrettuale ha inoltre omesso di rilevare che il Decreto Assessoriale n. 715 del 2014, aveva fissato in cinque anni dalla data del finanziamento il termine per il compimento dei lavori, il quale era pertanto scaduto fin dall’8 giugno 1993; la Delib. n. 65 del 1995, era stata inoltre dichiarata decaduta dal Comitato Regionale di Controllo, in quanto l’Amministrazione comunale non aveva provveduto a trasmettere i chiarimenti richiesti; l’occupazione aveva infine riguardato una superficie superiore a quella prevista, essendo l’Amministrazione incorsa in uno sconfinamento di 23 mq.

1.1. Il motivo è infondato.

La domanda proposta dai ricorrenti, avente ad oggetto il risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà di un fondo occupato ed irreversibilmente trasformato per la realizzazione di un’opera pubblica, risulta promossa con atto di citazione notificato il 3 novembre 2004, ed è pertanto assoggettata alla disciplina dettata dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 34, come sostituito dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7, comma 1, lett. b).

In riferimento a tale disciplina, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato il principio, richiamato anche dalla sentenza impugnata, secondo cui, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e 191 del 2006, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie risarcitorie promosse in epoca successiva al 10 agosto 2000, aventi ad oggetto occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione e realizzate in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, e ciò anche nel caso in cui l’ingerenza nella proprietà privata e/o la sua utilizzazione, nonchè la sua irreversibile trasformazione, siano avvenute senza alcun titolo che le consentisse, ovvero nonostante il venir meno di detto titolo. La predetta giurisdizione non trova giustificazione nell’idoneità della dichiarazione di pubblica utilità a determinare l’affievolimento del diritto di proprietà, e quindi nella configurabilità della posizione giuridica del proprietario come interesse legittimo, ma nella riconducibilità della fattispecie alla materia urbanistico-edilizia, come definita dall’art. 7 cit., in virtù della quale spettano alla cognizione del giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere da parte della Pubblica Amministrazione, quali che siano i diritti (reali o personali) fatti valere nei confronti di quest’ultima, nonchè la natura (restitutoria o risarcitoria) della pretesa avanzata; essa si estende quindi a tutte le ipotesi in cui l’esercizio del potere si è manifestato con l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, anche se poi quest’ultima sia stata annullata da parte della stessa autorità amministrativa che l’ha emessa o dal giudice amministrativo, oppure la sua efficacia sia altrimenti venuta meno, o ancora l’apprensione e/o l’irreversibile trasformazione del fondo abbiano avuto luogo in assenza di titolo o in virtù di un titolo a sua volta caducato (cfr. Cass., Sez. Un., 30/05/2014, n. 12178; 5/04/2013, n. 8349; 29/03/2013, n. 7938).

I ricorrenti contestano l’applicabilità del predetto principio alla controversia in esame, insistendo sulla natura usurpativa dell’occupazione del fondo, a loro avviso non riconducibile neppure mediatamente all’esercizio di un pubblico potere, in quanto avvenuta sulla base di un’ordinanza sindacale (la n. 136 del 1990) che non recava alcuna indicazione in ordine al titolo legittimante l’esercizio del potere ablatorio: essi stessi, tuttavia, dimostrano di non nutrire alcuna incertezza in ordine alla fonte di tale potere, individuandola nella Delib. di approvazione del progetto esecutivo dell’opera (n. 258 del 1988), la cui omessa indicazione nel decreto di occupazione potrebbe dunque risolversi, al più, in un vizio di legittimità di tale provvedimento, ma non impedirebbe di ravvisarvi l’esercizio di un pubblico potere.

Nessun rilievo può inoltre assumere, ai fini che qui interessano, la circostanza che la Delibera di approvazione del progetto non recasse l’indicazione dei termini di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13, trattandosi di una omissione che, pur comportando l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, non è di per sè idonea ad escludere il collegamento dell’occupazione e della successiva trasformazione del suolo con un fine di pubblico interesse legalmente dichiarato (cfr. Cass., Sez. Un., 16/04/2018, n. 9334; 25/07/2016, n. 15284): non risulta dunque pertinente il richiamo della difesa delle ricorrenti alla sentenza n. 10286 del 2014, con cui, in relazione alla medesima vicenda, questa Corte ha escluso la configurabilità dell’occupazione appropriativa, ritenendo che i predetti termini non potessero essere desunti dal decreto di finanziamento dell’opera, ma dovessero essere fissati nella Delibera di approvazione del progetto, avente efficacia di dichiarazione di pubblica utilità ai sensi della L.R. n. 35 del 1978.

L’esclusiva rilevanza da riconoscersi alla riconducibilità, anche mediata ed indiretta, del comportamento illecito della Pubblica Amministrazione allo esercizio di un pubblico potere, indipendentemente dalla legittimità e dall’efficacia degli atti in cui quest’ultimo si sia estrinsecato, consente di ritenere ininfluenti, ai fini del riparto di giurisdizione, anche le tormentate vicende successivamente attraversate dalla realizzazione dell’opera pubblica, contrassegnate in particolare dall’abbandono del progetto originario, non approvato dall’Assessorato, e dalla sua sostituzione con un nuovo progetto, adottato in variante allo strumento urbanistico e più volte sottoposto all’esame della Regione, prima dell’approvazione finale: non può quindi condividersi il richiamo della difesa delle ricorrenti all’ulteriore affermazione contenuta nella citata sentenza, secondo cui, in quanto riguardante un’area non destinata a servizi pubblici, la delibera di approvazione del progetto avrebbe dovuto essere sottoposta all’approvazione espressa dell’Assessorato regionale, non trovando applicazione la procedura semplificata prevista dalla L. n. 1 del 1978, art. 1, comma 4 e dalla L.R. n. 35 del 1978, art. 1. Non merita consenso neppure l’affermazione secondo cui la riapprovazione del progetto esecutivo avrebbe imposto l’adozione di un nuovo decreto di occupazione, in sostituzione di quello emesso sulla base del progetto originario, non approvato: in quanto ricollegabile a quest’ultimo, il comportamento dell’Amministrazione deve infatti considerarsi espressione di una potestà pubblica, indipendentemente dalle concrete vicende del procedimento ablatorio, destinate ad assumere rilievo esclusivamente ai fini della decisione di merito.

Quanto infine allo sconfinamento lamentato dai ricorrenti, è appena il caso di rilevare che, al pari dell’occupazione realizzata in virtù di una dichiarazione di pubblica utilità illegittima o inefficace, anche l’occupazione di superfici eccedenti quelle indicate nel provvedimento ablatorio costituisce espressione di un potere autoritativo preordinato o comunque connesso allo esproprio, il cui sindacato, ancorchè denunciato quale lesivo di diritti soggettivi, compete in via esclusiva al giudice amministrativo (cfr. Cass., Sez. Un., 25/02/2014, n. 4432).

In definitiva, la circostanza che l’occupazione e la trasformazione irreversibile del fondo di proprietà degli attori abbiano avuto luogo in virtù della Delibera di approvazione del progetto di un’opera, cui la legge attribuisce efficacia di dichiarazione di pubblica utilità, deve considerarsi sufficiente, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34, come riformulato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, comma 1, lett. b), ai fini della devoluzione della domanda di risarcimento dei danni alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di un comportamento riconducibile all’esercizio di un pubblico potere, indipendentemente dall’intervenuto annullamento o dalla sopravvenuta efficacia del titolo legittimante l’espropriazione.

2. Il ricorso va pertanto rigettato.

L’oggettiva incertezza della questione, derivante dalla complessità della vicenda amministrativa esaminata, giustifica l’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti.

PQM

rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 21 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2019

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