Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 231 del 05/01/2011

Cassazione civile sez. II, 05/01/2011, (ud. 18/11/2010, dep. 05/01/2011), n.231

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11868/2005 proposto da:

V.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 29, presso lo studio dell’avvocato

DI MEO FRANCO, rappresentato e difeso da sè medesimo;

– ricorrente –

contro

EDILCANCLINI SRL P.I. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI GRACCHI 278, presso lo studio dell’avvocato SILVESTRI

MASSIMO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCINI

DONATO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 817/2004 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 19/03/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/11/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato MASSIMO SILVESTRI difensore della resistente che si

riporta al controricorso ed insiste;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 5/6/2000 il tribunale di Monza – pronunciando nella causa promossa dall’avv. V.V. contro la s.r.l.

Edilcanclini per ottenere la condanna della convenuta al risarcimento dei danni da esso attore subiti in occasione (e per il ritardo nell’esecuzione) dei lavori di cui al contratto di appalto 6/5/1995 avente ad oggetto il rifacimento del tetto del fabbricato di proprietà del V. – condannava la società convenuta a pagare all’attore L. 34.923.374 e rigettava la domanda riconvenzionale spiegata dalla società volta ad ottenere la condanna del V. al pagamento della residua somma di L. 17.136.000 di cui alla fattura n. (OMISSIS).

Avverso la detta sentenza la s.r.l. Edilcanclini proponeva appello al quale resisteva il V. che spiegava appello incidentale.

Con sentenza 19/3/2004 la corte di appello di Milano rigettava l’appello incidentale e, in parziale accoglimento di quello principale, condannava l’appellato V. a pagare alla società appellante, a saldo dei lavori in questione, Euro 1.222,03 oltre accessori. La corte di appello osservava: che erano infondate le doglianze sai la c.t.u. mosse dal V. il quale aveva lamentato l’errore commesso dal tribunale nell’aderire alle conclusioni del consulente ritenendo le stesse giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e dalle spiegazioni contenute nella relazione nonchè comprovate dalla acquisita documentazione; che al riguardo il V. si era limitato ad opporre alle valutazioni del c.t.u. una propria personale valutazione che non risultava suffragata da adeguate prove;

che, quanto ai parapetti dei balconi asseritamente danneggiati dai ponteggi sì da essere sostituiti,.non poteva essere imputato al consulente di non aver rilevato tali pretesi danneggiamenti perchè non più presenti al momento del sopralluogo in quanto già sostituiti i detti parapetti; che al più poteva ritenersi che un solo parapetto era stato danneggiato, quello che presentava la barra orizzontale piegata ed inclinata a causa di un violento colpo ricevuto da un pesante legno utilizzato per l’attrezzatura del tetto;

che si trattava di danno ricompreso nella determinazione del c.t.u.

ed emendabile con un efficace ancoramento; che i danni agli “arredi” non erano stati provati non essendo a tal fine sufficienti le fotografie; che, quanto alle soglie di marmo, lo stesso V. non aveva lamentato danni alle strutture marmoree; che, quanto alla non conformità del tetto al progetto realizzato, il V. aveva contestato l’accertamento svolto dal c.t.u. opponendo circostanze non provate; che il c.t.u. aveva eseguito l’incarico affidatogli e tale accertamento non era tale da destare perplessità il che non consigliava di espletare una nuova consulenza peraltro a distanza di molti anni dagli eseguiti lavori; che, delle modeste differenze tra eseguito e progettato riscontrate dall’esperto, il consulente aveva tenuto conto nell’indicare la deduzione di L. 8 milioni da riconoscere in favore del V., pari a circa il 10% sull’importo dei lavori; che la consulenza era motivata e non andavano condivise le contestazioni al riguardo mosse dall’attore anche perchè non erano state acquisite prove in ordine ai lamentati danni maggiori rispetto a quelli accertati dal c.t.u.; che il tribunale aveva ritenuto un ritardo di 325 giorni nella consegna delle opere da parte dell’appaltatore motivando con il richiamo al fax del 13/6/96, con il quale le società aveva comunicato che in quel giorno erano state ultimale le opere, nonchè alla deposizione resa dalla teste V. M. che aveva confermato la data del 20/6/96 quale giorno di smantellamento dei ponteggi; che in base al contratto sottoscritto il 6/5/95 i lavori avrebbero dovuto avere inizio non oltre a fine di marzo 1995 con consegna entro il 31/7/1995 e con previsione di una penale di L. 100.000 per ogni giorno di ritardo; che l’indicazione della data di inizio dei lavori precedente a quella di stipulazione de contratto non poteva essere ascritta ad un errore materiale, come ritenuto dal tribunale, bensì era conseguenza della indecisione del V. a sottoscrivere il contratto il che trovava riscontro nel fatto che la data della sottoscrizione era stata vergata a mano mentre per il resto l’atto era scritto a macchina; che quindi il periodo di quattro mesi previsto per l’esecuzione dei lavori era stato di fatto differito sino al 6 settembre per la posticipata firma del negozio in data 6/5/1995; che peraltro, come risultava dalla documentazione prodotta dall’attore, la scelta del colore del manto di copertura del tetto era stata effettuata dal committente solo alla fine di agosto 1995 per cui l’indicato termine per il completamento dei lavori doveva spostarsi a fine settembre 95; che la copertura del tetto mediante messa in opera di tegole canadesi era stata completata il 30/12/95 sicchè i lavori erano stati completati con tre mesi di ritardo rispetto al termine come sopra spostato; che pertanto la Edilcanclini era tenuta a pagare a titolo di penale L. 9 milioni; che i lavori di tinteggiatura della facciate esterne erano stati eseguiti secondo la richiesta del committente “dopo il disgelo primaverile”;

che pertanto il fax del 13/6/1996 non poteva essere considerato come comunicazione ufficiale di fine lavori; che secondo il consulente l’importo dei lavori ammontava a L. 72.576.626 già al netto della deduzione forfetaria per vizi, difetti ed esclusa l’IVA non calcolata dal tribunale; che, calcolati tale imposta e gli acconti versati dal committente, conseguiva in favore della società un credito di L. 2.366.184 (Euro 1.222,03), somma ottenuta detraendo dal costo dei lavori calcolati dal c.t.u., maggiorati di IVA, la somma di L. 75 milioni versata dal V. e la somma riconosciuta come penale.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Milano è stata chiesta da V.V. con ricorso affidato a cinque motivi illustrati da memoria. La s.r.l. Edilcanclini ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Innanzitutto va rilevata l’infondatezza dell’istanza preliminare formulata dal ricorrente volta ad ottenere l’integrazione de dispositivo in quanto mancante “del provvedimento completo relativo alla penale per il ritardo nella consegna dell’opera”.

Al riguardo è appena il caso di rilevare che dalla motivazione della sentenza impugnata emerge con chiarezza ed immediatezza che la corte di appello nel quantificare gli importi riconosciuti alle parti e nel l’effettuare i relativi conteggi ha tenuto conto della somma di lire 9 milioni che la società Edilcanclini era tenuta a versare al V. a titolo di penale per il ritardo nella consegna dell’opera commissionata.

Con il primo motivo di ricorso V.V. denuncia vizi di motivazione e violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., e art. 2730 c.c. e segg., sostenendo che il giudice di appello ha operato un’ardita interpretazione del contratto di appalto affermando che la previsione dell’inizio dei lavori non oltre il mese di marzo 1995 – anteriore alla stipula del negozio – non era dovuta ad un lapsus ma ad una indecisione di esso V. a sottoscrivere il contratto. Tale interpretazione è arbitraria ed infondata alla luce degli elementi di fatto – nel dettaglio indicati – documentati ed incontestati. In particolare la corte di merito non ha tenuto conto della dichiarazione resa da C.L. – legale rappresentante della società – secondo cui l’opera doveva essere terminata per fine luglio 1995 ed i lavori iniziare nel mese di maggio. La corte di appello ha poi errato nel raffermare che la scelta del colore della tegola canadese da parte di esso committente ha ritardato l’esecuzione dei lavori. Infatti non è verosimile che esso V. non si sia preoccupato dell’immediata impermeabilizzazione del tetto.

La Edilcanclini solo a fine agosto ha presentato al committente il campionario della tegola canadese. Scelto il colore non vi era poi motivo per la stesura della tegola dopo circa un mese, come invece ritenuto dalla corte di merito. La posa delle tegole è stata infatti effettuata in un solo giorno. I giudice di appello ha poi errato nell’indicare il giorno della posa in opera della tegola canadese come giorno della consegna dell’opera non considerando che: dovevano essere installate le opere di lattoneria; andava completato il rivestimento degli abbaini e del camino; rimaneva in essere il cantiere; l’attesa del disgelo era indispensabile; l’imbiancatura delle pareti esterne era necessaria. In ogni caso la Edilcanclini è rimasta inattiva per quasi sei mesi dal dicembre 1995 al giugno 1996.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizi di motivazione, violazione dell’art. 1218 c.c. e segg., artt. 1667 e 2043 c.c., con riferimento all’accertamento dei vizi e difetti delle opere, all’individuazione dei danni, alla determinazione dei costi di riparazione e del risarcimento dei danni, alla determinazione del prezzo delle opere. Ad avviso del V. la sentenza impugnata si è limitata ad elencare i vizi ed i difetti contestati da esso ricorrente affermando che esso V. aveva opposto al c.t.u.

circostanze non provate e che il c.t.u. aveva compiutamente eseguito l’incarico affidatogli per cui non era necessario disporrè una nuova consulenza a distanza di anni dagli eseguiti lavori. Lo stato dell’edificio non è stato però modificato dopo l’esecuzione dei lavori. Gli errori commessi dal giudice di secondo grado sono la conseguenza della mancata rinnovazione della c.t.u. a sua volta frutto di una omessa seria e approfondita disamina nelle numerose osservazioni critiche – singolarmente riportate – esposte da esso V. nella memoria dei 30/1/99 e ribadite in sede di giudizio di appello.

La Corte rileva l’infondatezza e, in parte, l’inammissibilità, delle riportate censure che – per evidenti ragioni di ordine logico – possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando tutte, quale più e quale meno e sotto vari profili, le stesse problematiche, o questioni collegate, o attività riservate a giudice del merito.

Le censure in esame, infatti, si risolvono tutte essenzialmente nella pretesa di contrastare e criticare il risultato di attività riservate al giudice del merito ed incensurabile in questa sede di legittimità quali: l’interpretazione del contenuto del contratto di appalto stipulato dalle parti; l’individuazione dell’oggetto di tale contratto; il comportamento tenuto dai contraenti prima e dopo la sottoscrizione del negozio; la ricostruzione delle vicende contrattuali con riferimento ai motivi del ritardo nel completare l’opera commissionata; l’apprezzamento delle prove operato dalla corte di appello (omesso od errato esame di risultanze istruttorie con particolare riferimento alla relazione del c.t.u. ed alle critiche mossa a tale relazione, preferenza conferita ad alcune prove rispetto ad altre).

Si tratta di compiti istituzionalmente affidati al giudice del merito il cui operato al riguardo è incensurabile in sede di legittimità se – come appunto nella specie – immune da vizi logici e giuridici.

In proposito va segnalato che, come è noto, l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità scio per il caso di insufficienza o contraddittorietà di motivazione tale da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione, ovvero per il caso di violazione delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c. e segg..

L’individuazione della volontà contrattuale – che. avendo ad oggetto una realtà, fenomenica ed obiettiva, si risolve in un accertamento di fatto – è censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica.

Nella specie il giudice di secondo grado ha ineccepibilmente proceduto all’interpretazione del contratto stipulato dalle parti ed alla valutazione del significato letterale e logico della espressione adoperate dai contraenti tenendo conto del collegamento tra le varie clausole contrattuali nonchè del comportamento tenuto dall’appaltatore e dalla società committente durante l’esecuzione delle opere appaltate.

Il procedimento logico-giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione del contenuto del detto contratto è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione, adeguata e corretta, immune dai vizi denunciati.

Peraltro la parte che denuncia la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ha l’onere, al di là dell’indicazione degli articoli di legge in materia, di fornire specifica dimostrazione del modo in cui il ragionamento seguito dal giudice del merito abbia deviato da tali regole.

Il ricorrente si è invece limitato a contestate l’interpretazione data dalla corte di appello al contratto di appalto stipulato dalle parti ed a richiamare genericamente i canoni interpretativi che sarebbero stati violati senza fornire alcun chiarimento in ordine agli specifici errori (con indicazione dei rispettivi motivi) al riguardo commessi dal giudice del merito e senza neanche riportare i contenuto de detto contratto.

A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuto il giudice di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dal ricorrente devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma, inammissibilmente, al convincimento stesso e, cioè, all’interpretazione del contratto e delle clausole contrattuali in modo difforme da quello auspicato: il V. contrappone all’interpretazione del contratto ritenuta dalla corte di merito la propria interpretazione.

Pertanto, anche se il ricorrente lamenta la violazione dei principi relativi all’interpretazione degli atti negoziali, svolgendo al riguardo generiche argomentazioni, la rilevata coerente applicazione dei canoni interpretativi da parte del giudice di pace, rende manifesto che è stato investito il “risultato” interpretativo raggiunto, il che è inammissibile in questa sede.

Con riferimento alle critiche mosse dal ricorrente in ordine alla valutazione data dalla corte di appello alla relazione dei c.t.u. ed alla omessa considerazione delle osservazioni sollevate in merito a tale relazione è appena il caso di evidenziare che il sindacato di legittimità è sui detti punti limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza. Nel caso in esame non sono ravvisabili nè il lamentato difetto di motivazione, nè le asserite violazioni di legge: la sentenza impugnata è dei tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto e che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dalla corte di appello. Quest’ultima ha proceduto alla attenta disamina delle risultanze istruttorie e, sulla base di elementi e circostanze di fatto qualificanti, è pervenuta alle conclusioni ampiamente riportate nella parte narrativa che precede e che il ricorrente ritiene non esatte.

Il giudice di secondo grado ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento e facendo riferimento ad elementi di fatto oggettivi. Alle dette valutazioni il ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.

Deve peraltro affermarsi che la censura concernente sia la valutazione e l’interpretazione della espletata c.t.u., sia l’omesso esame delle critiche mosse alla relazione del consulente, non è meritevole di accoglimento anche per la sua genericità, oltre che per la sua incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito. Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Nella specie le doglianze in proposito mosse dalla ricorrente sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo della consulenza genericamente indicata in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di detta consulenza e delle osservazioni critiche in proposito prospettate dal V.. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dal ricorrente.

Con riferimento, infine, alla asserita violazione dell’art. 2730 c.c., ed alle dichiarazioni rese dal legale rappresentante della società Edilcanclini è sufficiente – per escludere il contrasto tra tali dichiarazioni e quanto affermato dalla corte di appello – il rilievo che le dette dichiarazioni si riferiscono agli accordi raggiunti tra il committente V. e la società appaltatrice in ordine all’inizio (maggio 1995) ed al termine dei lavori commissionati. Tali accordi – secondo quanto ineccepibilmente accertato dalla corte di appello -sono stati però successivamente modificati dalle stesse parti durante l’esecuzione dei detti lavori.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizi di motivazione e violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., deducendo che nelle conclusioni svolte in via riconvenzionale nella comparsa di costituzione e risposta di primo grado la Edilcanclini aveva chiesto il pagamento di L. 17.136.000 a saldo della fattura (OMISSIS) nella quale era stato riportato l’importo complessivo dei lavori in lire 52.215.125. Con l’emissione in corso di causa della fattura n. (OMISSIS) la società appaltatrice aveva liquidato l’importo dei lavori in L. 63.025.209 oltre IVA al 19%. non dovuta per il ritardo della fatturazione. Peraltro la prestazione indicata in fattura relativa al ponteggio tubolare era stata già prevista e contabilizzata nel capitolato delle opere all’articolo 1. Davanti al c.t.u. la società ha poi prodotto un elenco di lavori a costi maggiorati rispetto a quelli concordati con indicazione di costo delle opere in L. 82.221.934 laddove all’inizio tale costo era stato fissato in L. 75.000.000. In sede di precisazione delle conclusioni la società chiedeva il pagamento del saldo della fattura n. (OMISSIS) che era stata già pagata. La corte di appello avrebbe quindi dovuto dichiarare estinto il credito della Edilcanclini per intervenuto pagamento. Il giudice di secondo grado è incorso nel vizio di ultrapetizione avendo preso come base per stabilire il costo dell’opera le conclusioni del c.t.u. il quale ha indicato un prezzo superiore a quello riportato nella domanda della società. Inoltre l’IVA richiesta dalla Edilcanclini non è dovuta non essendo documentata da pezze giustificative fiscalmente: le fatture della società non coprono il detto importo.

Il motivo è privo di pregio.

Per quanto riguarda l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c. – per aver la corte di appello quantificato il costo dei lavori eseguiti dalla Edilcanclini in misura superiore a quanto dedotto dalla stessa società con l’atto di costituzione in primo grado e poi in sede di precisazione delle conclusioni – è sufficiente osservare che, come risulta dalla consentita lettura degli atti processuali, la società appaltatrice in primo grado chiese in via riconvenzionale la condanna del committente V. al pagamento di L. 17.136.000 a titolo di residuo de compenso spettante per i lavori appaltati ed eseguiti. La società chiese inoltre l’accertamento dell’entità delle opere eseguite e dei costi di tali opere con conseguente condanna della parte risultata debitrice al pagamento di quanto dovuto all’altra parte. Il giudice di primo grado determinò il corrispettivo spettante alla società appaltatrice in complessive L. 72.576.626 facendo al riguardo riferimento alla liquidazione operata dal c.t.u.

In secondo grado la Edilcanclini – con l’atto di appello – limitò la richiesta di condanna della controparte, per la detta causale, alla somma di L. 11.366.184, ossia la somma riconosciuta dalla corte di appello alla società appaltatrice a titolo di residuo prezzo dei lavori eseguiti sulla base dell’importo complessivo di tali lavori come quantificato dal c.t.u. in complessive L. 72.576.626 “esclusa l’IVA”. Il giudice di secondo grado si è quindi attenuto alle richieste come formulate dalla Edilcanclini senza riconoscere importi superiori a quelli da detta società pretesi. Va peraltro aggiunto che il V. con l’atto di appello incidentale non sostenne, con specifica censura. che il tribunale era incorso nel vizio di ultrapetizione.

Con riferimento poi all’IVA va evidenziato che, come questa Corte ha avuto modo di precisare al riguardo, nella disciplina del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, istitutivo dell’Iva che prevede obbligatoriamente, con riguardo al corrispettivo dovuto all’appaltatore, l’emissione della fattura e la rivalsa nei confronti del cliente – l’imposta costituisce parte integrante dei credito, sicchè non può considerarsi nuova, e quindi inammissibile in appello, la specificazione della richiesta di rimborso de tributo, implicitamente inclusa nella domanda relativa ai pagamento del credito stesso (tali sensi sentenze 30/9/2008 n. 24315: 29/10/1992 n. 11766).

Pertanto, costituendo il rimborso del l’I.V.A., inerente al prezzo dei lavori affidati in appalto accessorio ex – lege della somma spettante a titolo di compenso per i lavori eseguiti, il rimborso stesso ben poteva essere ritualmente domandato in appello dai la società appaltatrice e riconosciuta dal giudice di secondo grado senza incorrere nel vizio di ultrapetizione come sostenuto dai ricorrente nei motivo in esame.

Con il quarto motivo il V. denuncia vizi di motivazione e violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., deducendo che la corte di appello ha riformato la decisione del tribunale riscontrando solo errori di calcolo ma non disconoscendo il ritardo nella consegna del’opera. E’ pertanto una forzatura logica il definire come reciproca la soccombenza delle parti tenuto conto dell’esito finale della lite che ha visto in sostanza il riconoscimento delle ragioni di esso ricorrente ed il rigetto delle richieste della società a carico della quale andava quanto meno posto il costo integrale della c.t.u..

Il motivo è palesemente infondato atteso che – come è noto – la nozione di reciproca soccombenza, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorchè essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo. Nella specie – come risulta agevolmente da quanto sopra riportato nella esposizione in fatto – sia in primo che in secondo grado le contrapposte domande istanze e richieste avanzate dai litiganti sono state in parte accolte e in parte rigettate, sicchè deve ritenersi ineccepibile la decisione della corte di appello di compensare interamente le spese processuali di entrambi i gradi del giudizio e ciò “avuto riguardo all’esito finale della lite che ha visto una sostanziale reciproca soccombenza in ordine alle domande rispettivamente svolte”.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia omessa motivazione e violazione degli artt. 116 e 245 c.p.c., deducendo che la corte di appello ha disatteso, senza neanche prenderla in considerazione, la domanda di ammissione dei capitoli di prova articolati da esso V. nella memoria 30/11/1999 e giustificati dalla necessità di sopperire alle manchevolezze della c.t.u.. Era inoltre necessario il rinnovo della c.t.u. con la scelta tra gli ingegneri abilitati al calcolo del cemento armato.

Anche questo motivo, al pari degli altri, non è meritevole di accoglimento ed al riguardo è appena il caso di richiamare il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui allorchè nel ricorso per cassazione sia denunciata la mancata ammissione di un mezzo istnittorio, è necessario che il ricorrente non si limiti ad una censura generica, ma invece specifichi gli elementi di giudizio dei quali lamenta la mancata acquisizione, evidenziando il contenuto e le finalità della richiesta istruttoria.

Più in particolare, ove trattisi di una prova per testi, è onere del ricorrente indicare specifica -, mente le circostanze che formavano oggetto della prova, quale ne fosse la rilevanza, ed a qual titolo i soggetti chiamati a rispondere su di esse potessero esserne a conoscenza. Ciò al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative. Nella specie il detto onere non è stato rispettato dal ricorrente.

Per quanto riguarda la censura relativa al mancato rinnovo di consulenza va ribadito quanto già rilevato esaminando il secondo motivo di ricorso, ossia che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre addirittura la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, e l’esercizio di un tale potere (così come il mancato esercizio) non è censurabile in sede di legittimità.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente a pagamento, in favore della resistente società, delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della società resistente, delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.500,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2011

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