Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23093 del 22/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 22/10/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 22/10/2020), n.23093

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5156-2012 proposto da:

C.F. & C. SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA SEVERINI 54, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE TINELLI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MAURIZIO DE LORENZI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempere,

elettivamente ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 452/2010 della COMM.TRIB.REG. di BARI,

depositata ii 24/12/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera consiglio del

15/01/2020 dal Consigliere Dott. SAIJA SALVATORF.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Ufficio di Brindisi – a seguito di una verifica fiscale ad opera della G.d.F. di Francavilla Fontana culminata in due p.v.c. del 23.10.2001 e del 22.11.2002 – notificò a C.F. & C. s.r.l. in liquidazione quattro avvisi di accertamento, rispettivamente concernenti gli anni d’imposta 1998, 1999, 2000 e 2001, così recuperando a tassazione maggiori IRPEG, IRAP e IVA. Impugnati detti avvisi di accertamento dalla società con quattro distinti ricorsi, la C.T.P. di Brindisi, con altrettante sentenze, li accolse, annullando gli atti impugnati. La C.T.R. della Puglia, sez. st. di Lecce, con sentenza del 24.12.2010, accolse però – previa loro riunione – gli appelli proposti dall’Ufficio, riformando le sentenze di primo grado e rigettando le doglianze della contribuente. In particolare, il giudice d’appello rilevò che – contrariamente a quanto ritenuto dalla C.T.P. – le movimentazioni dei conti correnti bancari intestati ai soci della società, a ristrettissima base partecipativa, erano tali da confermare il quadro di evasione e di contabilità parallela “in nero” che era emersa nel corso della verifica. Il giudice d’appello, poi, dichiarò inammissibili le domande riproposte in appello dalla contribuente riguardo ai motivi di impugnazione degli atti già rigettati dalla C.T.P. (perchè non avanzate con impugnazione incidentale) e, quanto alle ulteriori questioni riproposte dalla società, afferenti il mancato riconoscimento di alcuni costi in detrazione, le rigettò perchè infondate.

C.F. & C. s.r.l. in liquidazione ricorre ora per cassazione, sulla base di quattro motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 100,112 e 329 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 53 e 56, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La ricorrente si duole della erroneità della decisione laddove – in relazione alla questione della deducibilità di costi per il personale non regolarizzato e retribuito “in nero” – non ha tenuto conto del fatto che la C.T.P. aveva sostanzialmente accolto i ricorsi originari, e che l’Agenzia non aveva proposto specifico motivo d’appello al riguardo, con conseguente formazione del giudicato sul punto.

1.2 – Con il secondo motivo, si lamenta la contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sempre avuto riguardo alla questione precedente, secondo la ricorrente, la sentenza impugnata è contraddittoria nella parte in cui, dopo aver rilevato che i giudici di primo grado avevano integralmente accolto i ricorsi, ha pure evidenziato che la veicolazione della questione stessa nel giudizio d’appello era stata effettuata da parte della società, laddove invece avrebbe dovuto essere proprio l’Agenzia ad addossarsi il relativo onere.

1.3 – Con il terzo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 53 Cost., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Relativamente al mancato riconoscimento dei costi inerenti i maggiori ricavi accertati, la ricorrente evidenzia l’erroneità della decisione, perchè basata sull’errato presupposto del mancato assolvimento dell’onere della prova da parte di essa società. Infatti, l’inerenza di detti costi era stata esplicitamente riconosciuta dalla stessa Agenzia sin dagli avvisi di accertamento, fondati anche sulla circostanza che i conti correnti personali dei soci erano stati talvolta utilizzati per effettuare pagamenti a fornitori per l’acquisto di merce non fatturata, sicchè detta prova emergeva ex actis e di ciò il giudice d’appello avrebbe dovuto tener conto.

1.4 – Con il quarto motivo, infine, si lamenta la contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Le doglianze che precedono vengono fatte valere anche sotto il profilo del vizio motivazionale.

2.1 – Il primo e il secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente perchè connessi, sono manifestamente infondati.

Infatti, dalla mera lettura del ricorso emerge in modo inequivoco che con le coeve sentenze di primo grado, la C.T.P. accolse i quattro ricorsi proposti dalla società proprio sul profilo principale della non riconducibilità alla società dei conti correnti dei soci, così chiosando: “L’accoglimento del ricorso sotto il prefato profilo rende superflua l’indagine sull’ultimo motivo di censura (concernente la questione dei lavoratori ‘in nerò – n. d.e.). Da qui l’accoglimento del ricorso”.

Invero, ritiene la Corte come non possa esservi esemplificazione più cristallina del fenomeno dell’assorbimento di una domanda: la C.T.P. non ha statuito sulla questione della retribuzione dei lavoratori “in nero”, non già per aver omesso la pronuncia (in ciò, dunque, erra la stessa C.T.R.), ma perchè – dopo aver accolto la questione principale sollevata dalla ricorrente (ossia, appunto, quella sulla non riferibilità dei conti correnti dei soci alla società) – non v’era più necessità di adottare una pronuncia su altra questione, evidentemente alla prima posposta sul piano logico-giuridico e oramai divenuta superflua.

Il che è proprio quanto considerato – al di là di qualche passaggio equivoco, come quello prima ricordato sulla omissione di pronuncia – dalla C.T.R., che proprio per tale ragione ha ritenuto correttamente riproposta dalla parte che l’aveva avanzata in primo grado, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, la questione in discorso, così esaminandola nel merito. Altrettanto correttamente, poi, la C.T.R. ha dichiarato inammissibili le questioni – riproposte ut supra dalla società – concernenti i primi tre motivi di doglianza da essa stessa proposti, ma espressamente rigettati dal giudice di primo grado, e ciò per la evidente ragione che, a fronte di tale rigetto, la parte soccombente (seppur vittoriosa nel merito) avrebbe dovuto proporre l’impugnazione incidentale, seppur subordinata, anzichè limitarsi ad anteporre alla loro riproposizione l’espressione “contrariamente a quanto sostenuto dai primi giudici”. Insomma, la C.T.R., sul punto, ha correttamente individuato il thema decidendum, come devoluto dal gravame proposto dall’Agenzia, nonchè dalla riproposizione da parte della società della domanda non decisa – perchè ritenuta assorbita – dal giudice di primo grado, sicchè nessun giudicato interno può configurarsi al riguardo, nè conseguentemente alcuna nullità processuale o contraddittorietà della motivazione.

3.1 – Il terzo e il quarto motivo, da esaminarsi anch’essi congiuntamente, sono invece fondati, nei termini che seguono

Sul tema dell’utilizzo dei dati emergenti dai conti correnti bancari, ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, si registrano numerosi arresti.

Così, è sicuramente attinente al tema che occupa la pronuncia di Cass. n. 25317/2014, secondo cui “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente, dovendosi, peraltro, escludere l’automatica inclusione, fra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili” (conforme, la successiva Cass. n. 31024/2017). Su un piano più generale, è significativa la pronuncia di Cass. n. 22266/2016, che ha affermato che “In tema di accertamento induttivo delle imposte sui redditi, l’Amministrazione è tenuta a ricostruire la situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, purchè emergenti dagli accertamenti o dimostrate dal contribuente, su cui

grava l’onere della prova dei costi deducibili dall’ammontare dei

ricavi induttivamente determinati”.

Sotto correlato versante, infine, Cass. n. 22868/2017 ha affermato che “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario”.

3.2 – Ora, affrontando la questione dei costi inerenti i maggiori redditi accertati in danno della società ricorrente, la C.T.R. ha affermato che nel caso in cui l’Ufficio determini i redditi con metodo induttivo mediante ricorso a indagini bancarie, il riconoscimento di detti costi non può dirsi precluso in linea di principio, ma è soggetto all’onere probatorio gravante sul contribuente, chiamato a vincere la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in ordine ai versamenti/prelevamenti risultanti dal conto corrente bancario; ha infine ritenuto che, nella specie, la società non avesse adempiuto detto onere. 3.3 – Al riguardo, premesso che in tale percorso argomentativo non può scorgersi la pur denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., giacchè il giudice d’appello non ha addossato l’onere della prova sulla parte che per legge non vi è tenuta (è proprio il contribuente, invero, il soggetto gravato del detto onere, ai sensi del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32), il problema si sposta sull’affermazione della C.T.R., secondo cui la società non avrebbe assolto detto onere, ossia non avrebbe vinto la presunzione relativa posta dalla citata norma.

Si tratta, come è evidente, di un tipico apprezzamento di merito derivante dalla valutazione delle risultanze istruttorie, non censurabile per cassazione se non sotto il profilo del vizio motivazionale – regolarmente proposto dalla stessa società – risolvendosi esso in un giudizio sul fatto (Cass. n. 24434/2016; Cass. n. 23940/2017).

In questa prospettiva, non v’è dubbio che la decisione impugnata incorra nel denunciato vizio di motivazione, evidentissima essendo la contraddizione in cui essa cade. Se infatti, da un lato, la C.T.R. sottolinea la correttezza della ripresa a tassazione da parte dell’Ufficio, stante l’esistenza della contabilità “in nero”, ampiamente dimostrata dagli stessi p.v.c., ove si fa riferimento anche alla circostanza che molteplici pagamenti di fornitori per merci o servizi non fatturati erano effettuati mediante movimentazione dei conti dei soci (rinviando, in particolare, alle pp. 27-37 del p.v.c.) e che ben sei clienti della società (su sette) avevano confermato che gli assegni di traenza o circolari versati su questi ultimi concernevano proprio l’acquisto di arredi, dall’altro lato il giudice d’appello, affermando che la società non ha provato alcunchè, finisce col “dimenticare” il peso e il significato di quegli stessi documenti concernenti i pagamenti a fornitori, omettendo di estrarne le implicazioni quali elementi sintomatici della certezza dei costi.

Si tratta di elementi (tronconi di assegni, assegni, ecc.) che – quand’anche non prodotti in giudizio dalla società, perchè richiamati o allegati ai p.v.c. – certamente fanno parte del corredo istruttorio e devono quindi essere utilizzati dal giudice nella formazione del proprio libero convincimento. Trattandosi di elementi emergenti ex actis, poi, essi possono e devono essere apprezzati nella loro oggettività (quale che sia, cioè, il latore nel processo considerato), e quindi anche in senso favorevole al contribuente, ove suscettibili di esserlo, come è nella specie, dato che la natura di costi inerenti all’attività di impresa, in modo inequivoco, era stata attribuita negli spessi p.v.c. e, quindi, negli atti impositivi.

Poichè dunque il capo della decisione in esame si fonda sull’implicito (ed erroneo) presupposto secondo cui il contribuente può dirsi adempiente all’onere della prova, in subiecta materia, solo se egli stesso abbia offerto idonei elementi istruttori al giudice, onde superare la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), ne discende ulteriormente che la C.T.R. ha finito per falsamente applicare lo stesso art. 32, non avendo correttamente proceduto alla ricognizione della fattispecie (id est, non avendo dichiarato l’esistenza di specifici ed analitici costi certamente inerenti all’attività d’impresa, onde detrarli analiticamente dall’imponibile rideterminato), così incorrendo nel c.d. vizio di sussunzione. Ne esce infine violato anche l’art. 53 Cost., essendosi in definitiva assoggettato ad imposizione il reddito lordo, anzichè quello netto (ex multis, Cass. n. 26748/2018).

4.1 – In definitiva, i primi due motivi sono rigettati, mentre il terzo e il quarto sono accolti. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione, con rinvio alla C.T.R. della Puglia, sez. dist. di Lecce, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità e procederà ad un nuovo esame della questione sottesa ai motivi accolti, detraendo analiticamente dal maggior reddito accertato i costi inerenti all’attività di cui ai movimenti passivi dei conti correnti dei soci della ricorrente, come evincibili dai p.v.c. e dagli atti impositivi, in applicazione del seguente principio di diritto: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano state indicate e dimostrate dal contribuente, ovvero di quelle comunque emerse dagli accertamenti compiuti. Ove, peraltro, l’Amministrazione abbia proceduto mediante accertamenti bancari, le operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili non possono automaticamente includersi fra dette componenti negative, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, gravando sul contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili, a meno che non risulti dallo stesso atto impositivo, o comunque da elementi a disposizione del giudice, che dette operazioni di prelievo sono state effettivamente destinate al sostenimento di costi dell’attività d’impresa”.

P.Q.M.

la Corte accoglie il terzo e il quarto motivo, rigetta nel resto. Cassa in relazione, e rinvia alla C.T.R. della Puglia, sez. dist. di Lecce, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2020

 

 

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