Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23093 del 11/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 11/11/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 11/11/2016), n.23093

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4643-2014 proposto da:

G.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA AGRI 1, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE NAPPI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO PICCHI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE

EUROPA 190, (c/o AREA LEGALE CENTRO DI POSTE ITALIANE) rappresentata

e difesa dagli avvocati IMPROTA FABIOLA e DE ROSE DORA, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 205/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 12/02/2013 R.G.N. 191/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

G.L. appellava la sentenza pronunciata dal giudice del lavoro di Grosseto in data 1 marzo 2011, con la quale era stata respinta l’opposizione della predetta avverso il decreto ingiuntivo n. 23/2009, emesso su ricorso di POSTE ITALIANE S.p.a. per il recupero dell’intero residuo importo, relativo alla complessiva somma di danaro, di cui le parti avevano pattuito la restituzione come da verbale di conciliazione in data 7 aprile 2006.

La sentenza di primo grado aveva evidenziato che l’importo da restituire aveva formato oggetto di specifica pattuizione e che la restituzione, sebbene prevista ratealmente, in ragione dell’interruzione dei versamenti periodici da parte della debitrice doveva intendersi immediata, essendo ella decaduta dal beneficio del termine.

La Corte di Appello di Firenze con sentenza n. 205 in data 12 febbraio 2013, rigettava l’interposto gravame, condannando la ricorrente al rimborso delle spese come ivi liquidate, osservando che tra la lavoratrice e POSTE ITALIANE era intervenuto in data (OMISSIS) un accordo conciliativo in sede sindacale, in forza del quale le parti – a fronte della sentenza favorevole ottenuta dalla G. per la declaratoria di illegittimità del termine finale al contratto di lavoro a tempo determinato, con conseguente riammissione in servizio alle dipendenze di Poste con il pagamento delle retribuzioni non potute percepire in seguito alla costituzione in mora di parte datoriale – avevano rinegoziato le rispettive posizioni, in modo tale da garantire alla G. una nuova assunzione in servizio, previa rinuncia delle parti alla coltivazione di quel giudizio, definito in primo grado, e previa restituzione da parte della lavoratrice delle somme a titolo retributivo percepite in forza della sentenza citata. Quindi, le retribuzioni percepite erano state quantificate, espressamente, in complessivi 41.458,30 Euro, somma che per l’effetto la G. si era impegnata a restituire, secondo l’allegato piano rateale, pure sottoscritto dalla stessa. Era incontestato che la prima rata, annuale, fu corrisposta dalla debitrice alla prevista scadenza di novembre 2006. Successivamente, in data (OMISSIS) la G. era stata licenziata e pochi giorni dopo POSTE ITALIANE aveva chiesto la restituzione della residua somma, richiesta però rimasta inevasa da parte della lavoratrice.

La seconda rata sarebbe scaduta nel novembre 2007 e la successiva nel novembre 2008, senza però alcun pagamento da parte della suddetta appellante. In data 26 febbraio 2009, la società POSTE ITALIANE aveva, quindi, chiesto il decreto ingiuntivo sul presupposto dell’inutile scadenza delle rate, non già l’intervenuto licenziamento, al fine di ottenere il pagamento dell’intero residuo pattuito.

Tanto premesso, la Corte fiorentina osservava, quanto al primo motivo di appello, che a prescindere dalla richiesta di restituzione avanzata da POSTE ITALIANE subito dopo il licenziamento – che di per sè non avrebbe potuto giustificare la pretesa dell’intero, non risultando alcuna previsione dell’accordo conciliativa circa il necessario presupposto della conservazione del rapporto di lavoro- al momento del ricorso in via monitoria la G. risultava morosa nel pagamento della seconda e della terza rata, ormai scadute e di cui la stessa G. non aveva mai offerto il pagamento, nonostante avesse in seguito sostenuto l’irrilevanza del licenziamento nei confronti dell’accordo conciliativo. Ne derivava che, legittimamente, al momento del ricorso per decreto ingiuntivo la società aveva titolo per ottenere il pagamento dell’intero residuo, essendo la debitrice decaduta dal beneficio del termine, pattuito ai sensi dell’art. 1186 c.c..

Quanto al secondo motivo di gravame, la Corte distrettuale osservava, come già rilevato correttamente dal primo giudicante, che la G. sottoscrisse l’accordo conciliativo, in cui era prevista la restituzione della somma richiesta, individuata in base alla sorte retributiva lorda sborsata dall’azienda. Nessuna distinzione tra lordo e netto, dunque, poteva essere fatta rientrare in gioco.

Avverso la succitata sentenza ha proposto ricorso per cassazione G.L. con atto notificato l’11 febbraio 2014, di cui alla richiesta in data 10 precedente, affidato a due motivi. Con il primo la ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione degli artt. 1186 e 1206 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, visto che Poste Italiane con la raccomandata del 6 marzo 2007 nel chiedere l’immediata restituzione del residuo dovuto in forza del piano di recupero aveva inequivocabilmente dimostrato di non essere disposta ad accettare il pagamento secondo il piano rateale precedentemente concordato con il verbale di conciliazione del sette aprile 2006. Tale manifestazione di volontà era idonea a configurare la fattispecie della mora dei creditore di cui all’art. 1206 c.c. e segg.. Di conseguenza, avendo già precedentemente dichiarato di non accettare il pagamento rateale, contrariamente a quanto affermato dell’impugnata sentenza, non poteva ritenersi sussistente alcun onere dell’obbligata di offrire al creditore detto pagamento rateale. Inoltre, comunque la ricorrente, a seguito della richiesta di pagamento immediato in data 6 marzo 2007, tramite il proprio difensore aveva replicato evidenziando, come, per effetto del licenziamento, non potesse ritenersi venuta meno la validità e l’efficacia del recupero rateale concordato, con ciò, almeno implicitamente, offrendo di provvedere al pagamento secondo le pattuite modalità rateali.

D’altro canto, il mancato pagamento di due rate, in difetto di una espressa previsione in tal senso nel piano di recupero sottoscritto, non poteva ritenersi – contrariamente a quanto apoditticamente sostenuto nella sentenza impugnata – circostanza di per sè sufficiente a determinare la decadenza dal beneficio dei termine. Infatti, perchè sorga il diritto del creditore ex art. 1186 c.c. di esigere immediatamente la prestazione non è sufficiente – salvo diverse pattuizioni, nel caso di specie però insussistenti – un mero inadempimento, dovendosi ravvisare, a carico del debitore, una situazione di insolvenza con diminuzione delle garanzie per la mancata prestazione di quanto promesso, situazioni queste nella specie mai neppure dedotte da POSTE ITALIANE.

Con il secondo motivo, inoltre, la G. ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, essendo errata la sentenza nella parte in cui era stata ritenuta corretta la quantificazione della somma oggetto di ripetizione, così come operata da POSTE ITALIANE in base al ricorso per decreto ingiuntivo.

Infatti, era pacifico che l’importo richiesto in via monitoria fosse quello lordo, comprensivo cioè di ritenute fiscali e di contributi previdenziali. Per contro, la ricorrente richiamava la pronuncia di questa Corte in data 2 febbraio 2012, n. 1464, secondo cui la ripetizione dell’indebito nei confronti del lavoratore non può avere ad oggetto che le somme da quest’ultimo percepite, ossia quanto e solo quanto sia effettivamente entrato nella sfera patrimoniale dei predetto. Il datore di lavoro non può invece pretendere di ripetere somme al lordo delle ritenute fiscali, previdenziali assistenziali, allorchè le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale dipendente. I giudici di merito (anche in primo grado) avevano sostanzialmente omesso di pronunciarsi su tale questione, essendosi limitati a rilevare che la G., in base al verbale di conciliazione del (OMISSIS) e relativo al piano di recupero, si era obbligata a restituire l’importo lordo complessivo di 41.458,30 Euro, così trascurando di considerare che la sussistenza del rapporto di lavoro avrebbe consentito alla lavoratrice di usufruire dei meccanismi di recupero di ritenute previdenziali ed IRPEF, tant’è che come risultante dallo stesso piano di recupero predisposto da POSTE ITALIANE, proprio in virtù di tali meccanismi, la somma che avrebbe dovuto effettivamente restituire ammontava a complessivi Euro 29.262,64; recupero però reso non più possibile per effetto della risoluzione del rapporto di lavoro. D’altro canto, sarebbe stato assurdo e irragionevole ritenere che la debitrice fosse tenuta a restituire anche una somma, ossia la quota relativa a contributi previdenziali, che però non era legittimata a recuperare presso l’ente previdenziale, e che invece la società ex datrice di lavoro avrebbe potuto ripetere così ottenendo addirittura un indebito arricchimento. POSTE ITALIANE S.p.a. ha resistito all’impugnazione avversaria mediante controricorso dì cura della relata di notifica in data 24 marzo 2014, richiesta il 21 marzo precedente.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è in parte fondato, nei seguenti termini, relativamente al primo motivo, mentre così non è per la seconda censura, di modo che va accolto per quanto di ragione.

Va precisato che l’opposto decreto ingiuntivo, notificato il 28 aprile 2009, risulta emesso per la somma di 38.130,49 Euro, compresi interessi legali maturati dal (OMISSIS) (oltre alle relative spese come ivi liquidate), in relazione all’accordo sottoscritto il (OMISSIS), in forza del quale G.L. si obbligava a restituire alla società gli importi relativi a periodi non lavorati – pagati con il cedolino stipendiale di dicembre 2004 – per complessivi Euro 41.458,30 in base ai seguente piano di rateizzazione:

Euro 8291,66 a (OMISSIS);

Euro 8291,66 a (OMISSIS);

Euro 8291,66 a (OMISSIS);

60 rate mensili da Euro 276,39 cadauna a partire da gennaio 2009 (con scadenza quindi a gennaio 2014, visto che 60 mesi corrispondono a cinque anni; 60 (OMISSIS) 3; tot. Euro 41458,38).

Orbene, tenuto conto che il pagamento della prima rata di (OMISSIS) risulta pacifico, così come del resto è incontestato il mancato pagamento delle rate successive al licenziamento intimato alla G. in data (OMISSIS), ne derivava che pure a seguito delle missive di POSTE ITALIANE in data 16 ottobre e 16 novembre 2007, nonchè 16 ottobre 2008, all’atto della notifica del d.i. l’intimata era morosa per il mancato pagamento di quanto dovuto sino a tutto aprile 2009, alla data della sentenza di primo grado dei ratei scaduti sino a tutto il febbraio 2011 e che al momento della pronuncia di appello la ricorrente era comunque tenuta al pagamento di quanto ancora dovuto sino al 12 febbraio 2013.

Pertanto, non risultavano ancora scadute le rate mensili dovute sino a tutto il mese di gennaio 2014.

Per contro, la sentenza qui impugnata, pur riconoscendo che il suddetto licenziamento non poteva di per sè giustificare la pretesa soddisfazione dell’intero credito vantato da POSTE ITALIANE, non risultando sul punto alcuna previsione nei suddetto verbale di conciliazione circa il presupposto della permanenza del rapporto di lavoro tra le parti, opinava che all’atto della richiesta del provvedimento monitorio la G. fosse morosa nel pagamento della seconda e terza rata (di (OMISSIS) e di (OMISSIS)), sicchè a tale data la società aveva titolo per ottenere il pagamento dell’intero residuo, essendo la debitrice decaduta dal beneficio del termine pattuito ai sensi dell’art. 1186 c.c..

Dagli atti, però, non emerge alcuna espressa e specifica pattuizione sul punto, tale da poter giustificare la decadenza del beneficio del termine, che intanto opera ex cit. art. 1186 se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse.

Appare, dunque, giustificata la doglianza della ricorrente circa l’erronea applicazione nella specie della suddetta decadenza ai sensi dell’art. 1186, laddove, escluso ogni accordo tra le parti interessate al riguardo, nulla risulta circa un’accertata situazione d’insolvenza della debitrice ovvero in ordine ad una riduzione delle garanzie fornite in occasione dell’accordo transattivo raggiunto (tant’è che la stessa Corte di merito aveva dichiaratamente considerato irrilevante al riguardo il licenziamento). Nè parimenti è emersa una mancata prestazione di garanzie promesse a suo tempo in occasione della già ricordata conciliazione.

Non sussiste, infatti, salvo speciale e apposita pattuizione, il diritto della parte adempiente di chiedere anche il pagamento delle rate non scadute, per la corresponsione delle quali sono stati apposti altrettanti termini in favore del debitore, atteso che la decadenza dal beneficio del termine, ai sensi del richiamato art. 1186, non si verifica per il solo fatto dell’inadempimento della parte a cui favore il termine è stato apposto, ma soltanto nella ricorrenza delle ipotesi a tal fine previste dalla suddetta norma di legge (cfr. Cass. 3 civ. n. 3178 del 24/11/1962, secondo cui nelle vendite rateali, in difetto di una particolare pattuizione, il mancato pagamento di rate scadute non può produrre conseguenze maggiori di quelle previste dall’art. 1453 c.c., applicabile a tutti i contratti con prestazioni corrispettive, non modificate da altra speciale disposizione in materia di vendita a prezzo rateizzato. Non compete, cioè, al venditore adempiente che il diritto di chiedere a sua volta, la risoluzione del contratto – salvo l’osservanza del disposto dell’art. 1525 c.c., nel caso di vendita con riserva della proprietà – ovvero l’esecuzione, salvo in ogni caso il risarcimento del danno determinato a norma dell’art 1224 c.c. e, se è chiesta l’esecuzione del contratto, la domanda dell’attore non può avere per oggetto che il pagamento delle rate scadute con i relativi interessi legali, dato che l’inesecuzione dell’altra parte non riflette, nè può riflettere le rate successive non ancora maturate, per le quali il venditore non ha ancora un credito esigibile, e dato che conservare il contratto significa mantenerlo così come è stato stipulato. Non sussiste, quindi, salvo espresso accordo, il diritto dei venditore adempiente, che non intenda agire per risoluzione contrattuale, di chiedere anche il pagamento delle rate non scadute, per la corresponsione delle quali sono stati apposti altrettanti termini in favore del debitore, e ciò perchè la decadenza dai beneficio del termine non si verifica per il solo fatto dell’inadempimento della parte a favore della quale il termine è stato concesso, ma soltanto nella ricorrenza delle ipotesi a tal fine previste dalla citata disposizione.

Cfr. altresì Cass. 1 civ. n. 9307 del 9/11/1994, secondo cui la disposizione di carattere generale dell’art. 1186 c.c. può essere derogata dalle parti o dalla disciplina particolare dei singoli contratti.

V. ancora Cass. 2 civ. n. 7805 del 13/07/1991, laddove si è ritenuto che per lo stato di insolvenza di cui all’art. 1186 c.c. è necessaria una situazione di dissesto economico, sia pure temporaneo, la quale renda verosimile l’impossibilità da parte del debitore di far fronte ai propri impegni).

Orbene, nella specie l’impugnata pronuncia nella sua ratio decidendi non contiene alcuno specifico riferimento ad un accordo in deroga alle previsioni di legge ex citato art. 1186, tale non potendosi di certo considerare l’espressione “essendo la debitrice decaduta dal beneficio del termine pattuito”, visto tra l’altro che l’ultima parola (“pattuito”) è stata impiegata al maschile, perciò in relazione al beneficio del termine, laddove per di più l’art. 1186 testualmente contempla l’ipotesi del termine, appunto, stabilito a favore del debitore. Per contro, diversamente opinando, la sentenza sul punto avrebbe dovuto indicare pattuita la decadenza dal termine, di cui alla stessa rubrica del medesimo art. 1186.

Nè la gravata sentenza di appello contiene alcun riferimento espresso, da cui poter desumere l’accertamento di uno stato d’insolvenza (tanto più dopo aver ritenuto espressamente che il licenziamento non poteva giustificare di per sè la pretesa dell’intero non risultando alcuna previsione nell’accordo conciliativo circa il necessario presupposto della conservazione del rapporto dì lavoro), ovvero di una riduzione delle garanzie, oppure di una mancata prestazione di quanto a tale ultimo riguardo promesso. Un tale accertamento nemmeno può desumersi da quanto riportato nella parte narrativa della sentenza de qua, laddove la Corte territoriale si è limitata a rappresentare quanto ritenuto dalla pronuncia appellata, la quale aveva evidenziato che la somma da restituire era stata oggetto di specifica pattuizione e che la restituzione, sebbene prevista ratealmente, in ragione dell’interruzione dei versamenti periodici da parte della debitrice doveva intendersi immediata essendo decaduta dal beneficio del termine; circostanza questa, dell’interruzione dei pagamenti rateali, che di per sè non integra, però, le condizioni richieste dall’art. 1186 perchè possa validamente operare la decadenza dal termine. Pertanto, la sentenza va cassata negli anzidetti termini, risultando così pure ad ogni modo assorbite le ulteriori doglianze con riferimento all’art. 1206 c.c., di guisa che la causa va rimessa al giudice di merito per ulteriori conseguenti necessari accertamenti e relativa decisione, nel rispetto degli enunciati principi di diritto.

Diversamente, va invece disatteso il secondo motivo di ricorso, non soltanto per carenza espositiva in merito alle circostanze in base alle quali la G. assume in ogni caso, però genericamente, errata la quantificazione del credito vantato dalla società, laddove peraltro il riferimento all’indebito ex art. 2033 c.c. non appare appropriato, ma soprattutto perchè l’impugnazione non sembra aver colto nel segno l’essenza della motivazione al riguardo espressa dalla sentenza de qua. invero, non risulta essere stata efficacemente censurata, mediante specifiche e pertinenti confutazioni, l’assunto secondo cui non poteva più essere disconosciuto dalla debitrice il credito vantato da POSTE ITALIANE, siccome determinato complessivamente nel verbale di conciliazione, cui aveva pacificamente aderito anche dalla ricorrente (…la G. ebbe a sottoscrivere l’accordo in cui era prevista la restituzione della somma oggi richiesta, individuata in base alla sorte retributiva lorda sborsata dall’azienda. Nessuna differenziazione tra lordo e netto dunque può solo ora farsi rientrare in gioco).

Pertanto, una volta riconosciuto l’ammontare del debito, così come concordemente determinato in base ad un verbale di conciliazione sindacale, non è ammissibile, se non sulla scorta di comprovati dati errati ed inesatti, la successiva contestazione di una tale quantificazione.

A fronte delle anzidette considerazioni, del tutto apodittiche, inconferenti ed estremamente generiche appaiono le affermazioni e le deduzioni di parte ricorrente, la quale tra l’altro nemmeno ha riportato i termini essenziali dell’accordo raggiunto in sede di conciliazione relativamente alla determinazione della somma che nell’occasione la stessa G. si era obbligata a restituire, ancorchè secondo l’anzidetto piano di rimborso rateale.

L’accoglimento, sebbene parziale, del ricorso esonera, come per legge, la ricorrente dal versamento dell’ulteriore contributo unificato D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater.

Infine, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, provvederà in sede di rinvio, all’esito della decisione definitiva, la Corte di Appello, in diversa composizione.

PQM

la Corte accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo. Cassa, in relazione la motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2016

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