Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23085 del 18/08/2021

Cassazione civile sez. II, 18/08/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 18/08/2021), n.23085

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22989-2019 proposto da:

S.B., ammesso al patrocinio a spese dello Stato e

rappresentato e difeso dall’avvocata Ornella Fiore, ed elettivamente

domiciliato presso il suo studio in Torino, via Schina 18 D;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del ministro p.t. ope legis

domiciliato a Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 594/2019 della Corte d’appello di Torino

depositata il 3/4/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/12/2020 dalla Consigliera Dott. Annamaria Casadonte.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– il presente giudizio di legittimità trae origine dal ricorso che il sig. S.B., cittadino (OMISSIS), ha presentato avverso la sentenza della Corte d’appello, che ha rigettato il di lui gravame avverso l’ordinanza del tribunale che ha confermato il diniego della protezione internazionale e umanitaria come statuiti dalla competente Commissione territoriale;

– il ricorrente ha impugnato l’ordinanza del Tribunale chiedendo alla Corte d’appello di Torino di riformare la decisione, riproponendo le originarie domande;

– a sostegno della richiesta egli ha allegato di essere stato costretto a lasciare il (OMISSIS) a causa delle minacce ed aggressioni subite dai familiari della ragazza, di ceto sociale superiore, con cui aveva intrattenuto una relazione e poi rimasta incinta; ha inoltre sostenuto di essere stato destinatario di una fatwa;

– la corte d’appello ha condiviso il giudizio di non credibilità e conseguentemente negato al ricorrente il riconoscimento dello status di rifugiato così come la protezione sussidiaria, specificando le fonti informative utilizzate; la corte ha inoltre confermato l’insussistenza di ragioni di carattere umanitario non potendo costituire elemento unico il grado di integrazione sociale;

– la cassazione della sentenza d’appello è chiesta con ricorso affidato a sei motivi cui resiste con controricorso il Ministero dell’interno.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, commi 3 e 5, D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, commi 2 e 3 e art. 27, del D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, dell’art. 16 direttiva 2013/32/UE, in relazione all’omessa audizione personale del richiedente;

– la censura è inammissibile;

-occorre precisare che la disciplina processuale applicabile al caso in esame è quella precedente a quella introdotta con il D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis inserito dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g) conv. con mod. nella L. n. 46 del 2017;

– in applicazione della disciplina processuale ratione temporis vigente, avverso la decisione di diniego resa dalla Commissione territoriale il cittadino straniero poteva proporre ricorso ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 instaurando avanti al tribunale in composizione monocratica un giudizio sommario di cognizione ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 con possibilità di impugnazione dell’ordinanza conclusiva avanti la corte d’appello;

– conviene inoltre precisare che la disciplina del rito sommario applicabile in forza delle disposizioni sopra richiamate, non prevedeva alcun obbligo di audizione dello straniero, né in primo grado, né in appello;

– peraltro, si deve desumere dalle considerazioni svolte dalla Corte di giustizia nella sentenza C-348, sentenza 26 luglio 2017, Moussa Sacko che la disciplina Europea non osta alla previsione di una disciplina nazionale che non impone in via generale l’obbligo di audizione dello straniero in sede di ricorso all’autorità giudiziaria avverso il diniego della protezione internazionale deciso dall’autorità amministrativa, davanti alla quale si svolga il colloquio con le garanzie e la verbalizzazione di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, artt. 12,13 e 14;

– in definitiva non e’, pertanto, ravvisabile nella procedura concretamente seguita per giungere alla decisione impugnata la violazione dell’obbligo di procedere all’audizione del richiedente dal momento che per i ricorsi giurisdizionali instaurati prima del 18/8/2017 non sussisteva una previsione processuale che lo imponeva;

– nel caso di specie, poi, la corte territoriale sulla scorta di detta premessa ha motivato il rigetto dell’istanza di audizione considerando la mancata specificazione da parte dell’appellante degli argomenti che avrebbe voluto esporre e sui quali intendeva fornire chiarimenti, con la conseguenza che non può trova giustificazione la tesi che condiziona la validità del provvedimento alla reiterazione formale dell’adempimento;

– con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, a fronte della nullità della sentenza impugnata nella parte concernente l’applicazione degli istituti di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), motivazione apparente, derivata per relationem dalla sentenza di primo grado;

– secondo il ricorrente, la corte d’appello avrebbe solo apparentemente motivato in ordine alle ragioni del rigetto della domanda di protezione sussidiaria, violando il principio secondo il quale le argomentazioni sottese alla decisione costituiscono espressione di un autonomo processo deliberativo;

– il motivo è infondato;

– la corte d’appello ha negato la protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b) esaminando tutte le allegazioni del ricorrente, da quelle documentali, di impossibile verifica in relazione all’autenticità delle produzioni effettuate, a quelle fornite durante il colloquio innanzi alla Commissione e ne ha rimarcato le contraddizioni e le intrinseche inconsistenze, non essendo credibile il rischio allegato di subire un procedimento penale per l’accusa di uccisione della fidanzata rivoltagli dai familiari della stessa e perciò non integrato il rischio di grave danno derivante da condanna a morte o tortura;

– alla luce di ciò non può essere condivisa la critica sul carattere apparente della motivazione;

– con il terzo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, commi 3 e 5, del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, commi 2 e 3, art. 27, comma 1 bis, e del D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, dell’art. 16 direttiva 2013/32/UE a fronte della falsa applicazione dei criteri legali per la valutazione della credibilità del richiedente;

– secondo il ricorrente, la corte d’appello sarebbe pervenuta ad un giudizio di credibilità della narrazione senza approfondire in alcun modo le dichiarazioni offerte dal sig. S.;

– con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione della documentata sottoposizione del ricorrente, in (OMISSIS) ad un procedimento penale per reati per i quali è prevista la pena di morte;

– i motivi, che attingono entrambi alla credibilità del ricorrente, possono essere esaminati congiuntamente così come prospettato in ricorso e sono inammissibili;

– come già osservato nell’ambito del primo e secondo motivo, la corte territoriale ha ritenuto all’esito di una valutazione complessiva della documentazione e delle dichiarazioni del richiedente di fornire una valutazione motivata di non credibilità del medesimo; ebbene, tale conclusione non appare confutabile attraverso il richiamo al fenomeno della repressione delle relazioni prematrimoniali nei villaggi del (OMISSIS), svolta dal ricorrente sulla base di risalenti fonti informative, una volta che il giudice abbia escluso l’esposizione del richiedente a quel rischio in ragione della intrinseca non credibilità del suo racconto;

– con riguardo alla documentazione allegata dal ricorrente, e di cui si lamenta l’omesso esame, va dato atto che il ricorrente richiama nel motivo la fatwa, nonché la comunicazione di reato ed il mandato di arresto;

– risulta dalla sentenza che, diversamente da quanto dedotto, tali documenti sono stati esaminati dalla corte territoriale, la quale, tuttavia, ha ribadito quanto già osservato dal tribunale e cioè l’impossibilità di verificarne l’autenticità, profilo sul quale l’appello non ha, evidentemente, fornito elementi integrativi, sicché anche questa doglianza e’, come anticipato, inammissibile;

– con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 3, D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, del D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6, per omessa istruttoria in ordine all’accertamento della condizione di violenza indiscriminata nel Paese di origine del richiedente di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c);

– secondo il ricorrente, la corte d’appello avrebbe erroneamente escluso la condizione di violenza indiscriminata nella regione del (OMISSIS) senza alcun riferimento alle informazioni su tale regione del (OMISSIS);

– il motivo è infondato;

– il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato ha esaminato la situazione esistente nella suddetta regione dal quale il ricorrente proviene, il (OMISSIS), e difatti a pag. 14 della sentenza ha citato con riferimento ad essa il rapporto Amnesty International ed il rapporto Ecoi, che descrivono una situazione non assimilabile a quella di conflitto generalizzato;

– a fronte di ciò il richiamo alla fonte Easo fatto dal ricorrente non specifica la portata dello stesso a conforto dell’assunto sulla esistenza di una situazione di violenza indiscriminata e, quindi, non è idoneo a fondare la critica di omessa istruttoria;

– con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, artt. 8 e 32, comma 3, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19 e art. 32 Cost. per violazione dei criteri legali per il riconoscimento della protezione umanitaria;

– secondo il ricorrente, la corte d’appello avrebbe tralasciato di compiere il giudizio comparativo tra le prospettive di vita in Italia e in (OMISSIS) imposto dalla giurisprudenza di legittimità al fine di individuare una condizione di vulnerabilità con conseguente ricorrenza dei seri motivi di carattere umanitario; inoltre non avrebbe considerato il rischio di compromissione del diritto alla salute del ricorrente in relazione al diagnosticato disturbo post traumatico da stress;

– questa corte (cfr. Cass. n. 28015/2017; id. n. 4455/2018) ha precisato che i seri motivi di carattere umanitario, presupposto necessario per il riconoscimento della protezione umanitaria consistono nella grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza;

– nel caso di specie, il giudice ha applicato i principi di diritto sopra richiamati e ha escluso di dover ravvisare i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari poiché, con specifico riguardo alla situazione personale del sig. S.B., non sussiste il pericolo che, rientrato in (OMISSIS), egli possa subire trattamenti che violano l’esercizio delle libertà fondamentali (pag. 15 della sentenza impugnata) né può l’integrazione sociale costituire il solo motivo;

– a fronte di ciò il motivo formula una critica, per un verso, generica in relazione ai documenti attestanti l’integrazione socio-lavorativa e, per l’altro, inammissibile, giacché la sentenza nulla argomenta rispetto al disturbo post traumatico rispetto al quale il ricorrente non ha idoneamente specificato se e quando l’aveva dedotto (cfr. Cass. 1435/2013; id. 27568/2017);

– atteso l’esito sfavorevole di tutti i motivi, il ricorso va respinto e in applicazione del principio di soccombenza, il ricorrente va condannato alle spese di lite a favore del controricorrente come liquidate in dispositivo;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore del controricorrente e liquidate in Euro 2100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezione Seconda civile, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2021

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