Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23073 del 18/08/2021

Cassazione civile sez. lav., 18/08/2021, (ud. 27/04/2021, dep. 18/08/2021), n.23073

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24544-2015 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso il cui Ufficio domicilia

in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

C.E.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE n. 9, presso lo studio dell’avvocato CARLO RIENZI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 110/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 30/04/2015 R.G.N. 596/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/04/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MUCCI ROBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GINO GIULIANO, per delega verbale Avvocato CARLO

RIENZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’ Appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno che aveva rigettato tutte le domande proposte da C.E.L. nei confronti del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, ha condannato il Ministero appellato al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, in favore della parte appellante di 2,5 mensilità sulla base dell’ultima retribuzione mensile globale di fatto (con interessi legali da oggi al saldo) nonché delle somme derivanti dall’applicazione, in misura pari a quelle dei colleghi di lavoro a tempo indeterminato, degli aumenti conseguenti all’anzianità maturata, computata nel limite dell’ultimo decennio dalla costituzione in mora, con interessi legali dal dovuto al saldo”.

2. La Corte territoriale ha evidenziato, in fatto, che la C., docente di lingua spagnola, era stata reiteratamente assunta con contratti a tempo determinato ed era stata destinataria di incarichi annuali per un triennio consecutivo dal 2007 al 2011.

3. Il giudice d’appello ha escluso che l’appellante potesse pretendere l’instaurazione di uno stabile rapporto di impiego a tempo indeterminato ed ha ritenuto ostativo il divieto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 aggiungendo anche che la disciplina del reclutamento del personale scolastico è speciale rispetto a quella generale dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001, sicché non trova applicazione l’art. 5, comma 4 bis, di quest’ultimo decreto.

4. Ha precisato che solo a fini risarcitori rilevano i principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del 26 novembre 2014, Mascolo, e ha accertato che era stata realizzata una reiterazione abusiva del contratto a termine perché l’amministrazione non aveva adeguato l’organico di fatto a quello di diritto ed aveva utilizzato la Carreras, nell’arco di un triennio e senza soluzione di continuità, per soddisfare esigenze stabili dell’organizzazione scolastica. Ha, quindi, riconosciuto a detto titolo il risarcimento del danno, definito “comunitario” e liquidato nei termini sopra precisati sulla base del parametro previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 in adesione a quanto statuito da questa Corte con la sentenza n. 27481/2014.

5. Il giudice d’appello ha ritenuto fondato anche il motivo di gravame con il quale, invocando il principio di non discriminazione, l’appellante aveva riproposto la domanda volta ad ottenere, per il periodo successivo al primo biennio, l’incremento retributivo connesso alla anzianità di servizio. La Corte territoriale ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo sull’interpretazione della clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE ed ha evidenziato che, nonostante l’identità delle mansioni, l’amministrazione aveva riservato agli assunti a tempo determinato un trattamento retributivo deteriore rispetto a quello riconosciuto ai dipendenti di ruolo.

6. Ha ritenuto che il mancato adeguamento della normativa interna a quella Eurounitaria, legittimasse, nel limite della prescrizione decennale, l’azione risarcitoria fondata sull’omesso recepimento della direttiva, non giustificato dal fatto che i rapporti a termine stipulati in successione fossero autonomi e non instaurassero un legame definitivo con l’amministrazione.

7. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il M.I.U.R. sulla base di due motivi, ai quali C.E.L. ha opposto difese con tempestivo controricorso, illustrato da memoria.

Il Ministero non è comparso all’udienza di discussione, richiesta dal difensore della controricorrente che ha ribadito gli argomenti già sviluppati nei precedenti scritti difensivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il Ministero denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della direttiva 1999/70/CE e dell’accordo quadro alla stessa allegato, del D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 485, 489 e 526 del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 6 e 10 del D.L. n. 70 del 2011, art. 9, comma 18, convertito dalla L. n. 106 del 2011, della L. n. 124 del 1999, art. 4 del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 36 e 45 degli artt. 77, 79 e 106 del c.c.n.l. 29/11/2007 per il personale del comparto della scuola. Richiama la sentenza n. 10127/2012 di questa Corte nonché la pronuncia della Corte di Giustizia del 26/11/2014 per sostenere che il sistema del reclutamento in ambito scolastico è giustificato dalla ricorrenza di ragioni oggettive che legittimano la reiterazione degli incarichi e che, quindi, vanno valorizzate anche per escludere la denunciata discriminazione con gli assunti a tempo indeterminato. Deduce che le condizioni di impiego previste dalla contrattazione collettiva devono essere valutate e comparate con quelle assicurate al personale di ruolo nella loro globalità, sicché non ci si può arrestare al solo trattamento economico senza considerare che agli assunti a termine sono state riservate dalla contrattazione collettiva le medesime garanzie in tema di ferie, festività, permessi, assenze, congedi, tutela della maternità e dell’handicap. Sostiene infine che l’anzianità di servizio è riconosciuta al momento dell’immissione in ruolo attraverso la ricostruzione della carriera, che tutela il lavoratore a termine e garantisce a quest’ultimo la parità di trattamento rispetto all’assunto a tempo indeterminato.

2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2947 e 2948 c.c., della L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 43, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36. Il Ministero rileva che la responsabilità dello Stato per la mancata attuazione della direttiva è di natura aquiliana e, pertanto, l’azione risarcitoria deve essere proposta nel termine quinquennale e non decennale, così come previsto dal legislatore con la L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 43. Aggiunge che l’originaria ricorrente ha fatto valere un credito di natura retributiva, soggetto alla prescrizione breve di cui all’art. 2948 c.c., senz’altro maturata nella fattispecie per i ratei anteriori al quinquennio, da calcolare a ritroso a partire dal marzo 2012, data di deposito del ricorso.

3. Preliminarmente rileva il Collegio che, in assenza di impugnazione principale o incidentale, si è formato giudicato sul capo della sentenza che ha ritenuto abusiva la reiterazione del contratto a termine e condannato il Ministero al risarcimento del danno quantificato, L. n. 604 del 1966, ex art. 8 in 2,5 mensilità. Non sono pertanto pertinenti le difese svolte dalla controricorrente nei punti 1 e 2 del controricorso, relative a questioni (applicabilità della clausola 5 dell’Accordo Quadro e fondatezza della domanda risarcitoria a prescindere dalla prova del danno) ormai coperte da giudicato.

4. Il primo motivo di ricorso è infondato, perché la sentenza impugnata è conforme all’orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze nn. 22558 e 23868 del 2016, secondo cui “nel settore scolastico, la clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, di diretta applicazione, impone di riconoscere la anzianità di servizio maturata al personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini della attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo indeterminato dai c.c.n.l. succedutisi nel tempo, sicché vanno disapplicate le disposizioni dei richiamati c.c.n.l. che, prescindendo dalla anzianità maturata, commisurano in ogni caso la retribuzione degli assunti a tempo determinato al trattamento economico iniziale previsto per i dipendenti a tempo indeterminato.”.

4.1. All’affermazione del principio di diritto, richiamato in numerose pronunce successive (cfr. fra le più recenti Cass. n. 4194/2021 e Cass. nn. 12503, 12443, 11379, 10219 del 2020 e la giurisprudenza ivi richiamata), la Corte è pervenuta sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, la quale da tempo ha affermato che:

a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicché la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana);

b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);

c) le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);

d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, né rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perché la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55; negli stessi termini Corte di Giustizia 5.6.2018, in causa C677/16, Montero Mateos, punto 57 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C302/11 e C305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi).

4.2. I richiamati principi sono stati tutti ribaditi dalla Corte di Lussemburgo nella motivazione della sentenza del 20.6.2019 in causa C-72/18, Ustariz Arostegui, secondo cui “la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che riserva il beneficio di un’integrazione salariale agli insegnanti assunti nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto funzionari di ruolo, con esclusione, in particolare, degli insegnanti assunti a tempo determinato come impiegati amministrativi a contratto, se il compimento di un determinato periodo di servizio costituisce l’unica condizione per la concessione di tale integrazione salariale.”.

4.3. Sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di Lussemburgo è stata recentemente decisa la questione, che presenta analogie con quella oggetto di causa, relativa al riconoscimento, ai fini della ricostruzione della carriera del personale della scuola successivamente immesso in ruolo, del servizio prestato in forza di rapporti a termine ed anche in quel caso è stato ribadito che il principio di non discriminazione impone di disapplicare la normativa interna che riserva all’assunto a tempo determinato un trattamento meno favorevole rispetto a quello del quale gode il dipendente ab origine a tempo indeterminato (Cass. nn. 31149 e 31150 del 2019).

4.4. Non si ravvisano, pertanto, ragioni che possano indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale va data continuità, perché anche in questa sede il Ministero sovrappone e confonde il principio di non discriminazione, previsto dalla clausola dell’Accordo quadro, con il divieto di abusare della reiterazione del contratto a termine, oggetto della disciplina dettata dalla clausola 5 dello stesso Accordo.

Che i due piani debbano, invece, essere tenuti distinti emerge già dalla lettura della clausola 1, con la quale il legislatore Eurounitario ha indicato gli obiettivi della direttiva, volta, da un lato a “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione”; dall’altro a “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

L’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato “condizioni di impiego” che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile”, sussiste, quindi, anche a fronte della legittima apposizione del termine al contratto, giacché detto obbligo è attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Corte di Giustizia 9.7.2015, causa C-177/14, Regojo Dans, punto 32).

4.5. Le considerazioni svolte nel primo motivo di ricorso prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni e delle funzioni esercitate, e fanno leva sulla natura non di ruolo del rapporto di impiego e sulla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, già ritenuti dalla Corte di Giustizia non idonei a giustificare la diversità di trattamento (si rimanda alle sentenze richiamate nella lett. d del punto 4.1), nonché sulle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e sulle esigenze che il sistema mira ad assicurare, ossia sulle ragioni oggettive che legittimano il ricorso al contratto a tempo determinato e che rilevano ai sensi della clausola 5 dell’Accordo quadro, da non confondere, per quanto sopra si è già detto, con le ragioni richiamate nella clausola 4, che attengono, invece, alle condizioni di lavoro che contraddistinguono i due tipi di rapporto in comparazione.

4.6. Non vale, poi, ad escludere la violazione del principio di non discriminazione la circostanza che ad altri fini (ferie, festività, permessi, malattia, congedi) siano riconosciute al personale supplente le medesime garanzie delle quali godono gli assunti a tempo indeterminato, perché la clausola 4 impone l’equiparazione in tutte le condizioni di impiego, ad eccezione di quelle che siano oggettivamente incompatibili con la natura a termine del rapporto.

Il primo motivo, pertanto, va rigettato.

5. Il secondo motivo è inammissibile perché, sebbene la Corte territoriale abbia erroneamente riconosciuto il diritto all’equiparazione nei limiti della prescrizione decennale (cfr. le pronunce richiamate nel punto che precede con le quali è stato affermato che “nell’impiego pubblico contrattualizzato la domanda con la quale il dipendente assunto a tempo determinato, invocando il principio di non discriminazione nelle condizioni di impiego, rivendica il medesimo trattamento retributivo previsto per l’assunto a tempo indeterminato soggiace al termine quinquennale di prescrizione previsto dall’art. 2948 c.c., nn. 4 e 5 che decorre, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai contratti, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento”), il Ministero ricorrente non fornisce gli elementi necessari alla Corte per apprezzare l’utilità che alla parte potrebbe derivare dall’accoglimento del motivo e dalla cassazione della sentenza impugnata.

E’ consolidato l’orientamento secondo cui nel giudizio di cassazione l’interesse all’impugnazione, che va valutato in relazione ad ogni singolo motivo, deve essere apprezzato con riferimento all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, sicché va escluso ogniqualvolta la dedotta violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, sia diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico (cfr. Cass. n. 20689/2016, Cass. n. 15253/2010, Cass. n. 13373/2008; Cass. n. 11844/2006).

Nello storico di lite si è evidenziato che la Corte territoriale ha ritenuto assorbente, per respingere l’eccezione di prescrizione prospettata ai sensi dell’invocato art. 2948 c.c., n. 4, la circostanza che nella specie non si discutesse di inadempimento di obblighi retributivi, bensì di risarcimento del danno da mancata trasposizione ed attuazione della direttiva Europea. Non ha, quindi, effettuato alcuna verifica in merito all’incidenza del termine quinquennale, sicché era onere del Ministero indicare nel ricorso, nel rispetto dei requisiti di forma imposti dall’art. 366 c.p.c., gli elementi necessari per consentire la preliminare verifica sulla rilevanza della questione.

A tanto il Ministero non ha provveduto perché si è limitato a richiamare la data del deposito del ricorso di primo grado, senza fornire alcuna precisa indicazioni dei periodi ai quali la domanda si riferisse ed in quale arco temporale si fossero svolti i rapporti a termine (limitandosi ad un generico riferimento a ratei risalenti anche al 2002), sicché il motivo deve essere dichiarato inammissibile.

6. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con condanna del Ministero al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.

Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater perché la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2021

 

 

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